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27 febbraio 2015

"Oliver Twist", Charles Dickens:


Il romanzo "Oliver Twist" é probabilmente l'opera più celebre di Dickens. Io l'ho letto diversi anni fa (avevo 10 anni) e l'ho trovato molto avvincente: é la storia travagliata e dolorosa di un ragazzino che, sin dalla prima infanzia, viene a contatto con la povertà, con l'ignobile cattiveria degli adulti e con la criminalità. Nonostante ciò, Oliver riesce a coltivare e a mantenere le ammirevoli qualità del suo carattere: lo scrittore infatti ci presenta un ragazzino tenero, dolce, ingenuo, molto più maturo della sua età, sincero e attento ai buoni valori morali.

Prima di illustrare le vicende e i personaggi di questo capolavoro, preferirei scrivere alcune righe sia a proposito della vita di Charles Dickens sia riguardo all'epoca in cui egli è vissuto.

Dunque, Dickens nacque nel 1812 a Portsmouth, secondo di otto figli di una famiglia povera e di umili origini. Charles ebbe un'infanzia difficile: a 12 anni, quando il padre venne imprigionato per debiti, si trovò costretto a lasciare gli studi per lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe. Egli dunque ebbe modo di conoscere nel profondo le misere condizioni della classe operaia; e questo argomento divenne un tema molto ricorrente nei suoi romanzi (soprattutto, a mio modesto avviso, in "David Copperfield").
Alcuni anni dopo, quando il padre venne scarcerato, Charles iniziò gli studi di Legge a Londra e poco più tardi, nacque in lui l'ambizione di diventare cronista parlamentare. Intraprese allora questa carriera e ottenne successo. Le sue opere: "Tempi difficili", "Canto di Natale", "Oliver Twist", "David Copperfield", "La piccola Dorrit" e "Il Circolo Pickwick" sono state definite dalla critica dei "romanzi sociali", ovvero, delle opere che denunciano la miserabile vita dei poveri, soggetti a maltrattamenti, ad angherie ad assurdi pregiudizi.
Infatti, Dickens contestava aspramente la società vittoriana inglese dell'Ottocento, caratterizzata dall'ipocrisia dei borghesi (la middle class), i quali, nel descrivere la loro epoca, valorizzavano con esagerato ottimismo soltanto gli aspetti positivi, ovvero, il progresso scientifico e industriale, l'espansione coloniale britannica attraverso le Indie e le Americhe e l'incremento di ospedali nelle città, nascondendo invece la gravità dei mali sociali del loro secolo, ovvero, la miseria nera dei poveri, lo sfruttamento dei bambini nelle fabbriche, la prostituzione, la criminalità diffusa nelle periferie delle città... Senza contare che la "middle class", falsa e contraddittoria anche nel suo stile di vita e nei suoi modi di pensare, pur appellandosi a valori come l'onestà, la rispettabilità, la devozione religiosa, nutriva un profondo e ingiustificato risentimento verso i poveri, secondo una loro strana teoria che diceva, riassunta in un'equazione piuttosto sintetica: "povero materialmente = povero moralmente, cattiva persona". Un ragionamento che nel caso di Oliver non funziona affatto!


La trama del romanzo è molto complessa...
 Comunque questo è l'inizio: "Oliver vide la luce in un ospizio dei poveri. Lo aiutarono a nascere un chirurgo che aveva una gran fretta di tornarsene a casa per la cena e una vecchia ubriacona. Aveva appena lanciato il primo strillo per annunciare la sua venuta al mondo quando sua madre, una giovane donna raccolta per strada in condizioni pietose, morì. (...) (...) Oliver piangeva a pieni polmoni, come se si rendesse conto che il suo arrivo sulla Terra non era stato certo dei più felici."

Le autorità parrocchiali avevano deciso di collocarlo in un orfanotrofio gestito dalla Signora Mann, donna egoista e insensibile, la quale utilizzava soltanto una piccola parte del suo abbondante stipendio per sfamare i bambini.
All'età di nove anni, Oliver era entrato in un ospizio gestito direttamente dal sagrestano parrocchiale, Mr Bumble, individuo di pessimo carattere, arrogante e sprezzante nei suoi confronti.
In quell'ospizio, i ragazzini venivano sottoposti a terribili maltrattamenti e soffrivano quotidianamente la fame. Fino al giorno in cui uno di loro, esasperato, aveva deciso di estrarre a sorte per stabilire chi tra loro avrebbe chiesto all'istitutore una scodella di minestra in più in rappresentanza del gruppo. Era stato estratto proprio Oliver il quale, una sera, dopo la somministrazione della razione abituale, aveva rivolto la sua umile richiesta all'istitutore; cosa che aveva suscitato l'indignazione del signor Bumble e degli altri membri del Consiglio parrocchiale, i quali avevano deciso di consegnare il ragazzino come apprendista ad un impresario di pompe funebri.
Oliver era stato affidato ad una famiglia che lo trattava molto male (gli davano come cibo gli avanzi del loro cane, che schifo!!) e lo umiliava pesantemente.
Oliver, addolorato e arrabbiato, era fuggito verso Londra e, nella periferia della città, aveva conosciuto Jack Dawkins, un ragazzino poco più grande, membro di una banda di ladri, addestrati da Fagin, un vecchiaccio dall'aspetto orribile. Oliver inizialmente non comprendeva lo "strano mestiere" della banda, ma, nel momento in cui se ne era accorto, quando aveva visto Jack sfilare un fazzoletto dalla tasca di un anziano signore, il signor Brownlow, era fuggito spaventato ed era stato scambiato per il ladro del fazzoletto. Ferito a causa dell'inseguimento, era stato arrestato ma scagionato quasi subito a causa della testimonianza di un libraio, il quale aveva affermato la sua innocenza. Dopo l'accaduto, il signor Brownlow, uomo colto e generoso, aveva deciso di ospitare il ragazzino ferito a casa sua e di prendersene cura come se fosse un figlio. Per Oliver era quindi iniziato un breve periodo di serenità, interrotto purtroppo da alcuni membri della banda di Fagin, che lo avevano rapito per riportarlo nuovamente nella squallida dimora di quest'ultimo.
Un giorno, Fagin aveva elaborato un piano per attuare un furto in una villa di campagna. Oliver era stato costretto a partecipare attivamente al furto, che era fallito dal momento che i residenti della villa si erano difesi sparando contro i ladri. Oliver però, ferito e abbandonato dalla banda, era stato curato dalle attenzioni premurose di Rose, una giovane ragazza straordinariamente sensibile e di ottimo carattere e anche dalla zia della ragazza, la signora Maylie, donna saggia e solare.
La condizione di salute di Oliver era notevolmente migliorata e, grazie a Rose e a Maylie, cresceva sereno in un'atmosfera piena di affetto, quell'affetto che tutti i bambini dovrebbero conoscere sin dalla prima infanzia.
Da ricordare il fatto che Rose e Maylie erano amiche del signor Brownlow e dunque, attraverso le due donne, Oliver aveva avuto modo di rivederlo e di riabbracciarlo.

Tralascio ulteriori descrizioni particolareggiate. Mi limito a dire che, nella seconda parte del libro, l'autore, oltre a raccontare la nuova vita felice di Oliver,  pian piano fa emergere delle notizie interessanti che, alla fine del libro, rivelano l'identità dei genitori di Oliver. Ovviamente, nelle ultimissime pagine del romanzo, Oliver viene adottato dal signor Brownlow e viene anche a conoscenza della verità sulle sue origini.
Ribadisco che, a mio modesto avviso, "Oliver Twist" è un vero capolavoro della letteratura inglese capace di coinvolgere il lettore, attratto soprattutto dalla figura del bambino protagonista.



IL FASCINO DI OLIVER:

Non esagero, lettori, nell'affermare che la personalità di Oliver è davvero affascinante (o almeno lo è per me).
All'inizio del romanzo, Dickens lo presenta come un bambino umile, remissivo e sottoposto a dei maltrattamenti terribili. Suscita indignazione questo passo, all'inizio del secondo capitolo:
"Per una settimana, dopo la sua scandalosa richiesta, Oliver rimase chiuso in una stanzetta buia dove riflettere sulle sue colpe in solitudine. (...) La sua comunque, non era l'esistenza monotona che potrebbe sembrare: perché non gli mancasse l'esericzio fisico veniva condotto ogni mattina in cortile a lavarsi con l'acqua gelida e il signor Bumble, per evitargli qualche malanno, lo riscaldava a suon di bastonate. Quindi, per offrirgli un po' di compagnia, lo si frustava ogni due giorni in refettorio, davanti ai compagni, perché servisse da esempio (...)" Incredibile... gli ipocriti "uomini della parrocchia", duri di cuore, non solo non hanno ascoltato l'umile e gentile richiesta di un bambino affamato: "Per favore, signore, vorrei ancora un po' di farinata", ma addirittura gli hanno riservato un pessimo trattamento, lo hanno calpestato nella sua dignità, umiliato nella sua intelligenza. Quegli schifosi hanno privato Oliver del diritto ad un trattamento decente!! Ma dove avevano il cuore quelli??!! Nemmeno sotto le suole delle scarpe, presumo!!

Oliver è anche ingenuo, puro, genuino. Notiamo queste caratteristiche anche nel punto in cui egli incontra per la prima volta il ladruncolo Jack nella periferia di Londra: "-Me la passo male", disse Oliver con un sospiro, "Ho fame, sono stanchissimo: cammino da sette giorni."- "Sette giorni? Oh ma sì, ora capisco, ordine del becco, eh?"- esclamò il ragazzo. Poi, notando l'aria sbigottita di Oliver, gli disse: "Non dirmi che non sai cos'è il becco, amico." "E' la bocca degli uccelli, mi sembra." "Santa ingenuità!! Becco in gergo significa magistrato. Quando si cammina per ordine del becco non si può tornare indietro. (...)" Questo è uno dei pochissimi punti del romanzo che fa sorridere.

E poi, importantissimo rilevarlo, Oliver è dolce, tenero, sensibile, riconoscente. Ecco i passaggi che lo dimostrano maggiormente:
 a) Quando, ferito e febbricitante, si trova a casa del signor Brownlow, assistito amorevolmente dalla signora Bedwin, la governante di casa Brownlow: " (...) comparve una vecchia signora che fino a quel momento aveva vegliato, ricamando, su una poltrona lì accanto. "Non parlare figliolo. Non affaticarti o ti ammalerai di nuovo. Sei stato molto male, sai? Ora torna a sdraiarti." Aiutò Oliver ad adagiarsi sul guanciale e gli scostò i capelli dalla fronte con un gesto affettuoso, al punto tale che Oliver non poté fare a meno di afferrarle la mano e di appoggiarsela al viso."

b) Quando, ferito gravemente a causa della sparatoria tra i ladri e il signor Giles, servitore di Rose e di Maylie, Oliver giace in un comodo letto. "(...) Al posto dell'incallito furfante che si aspettavano, le due donne videro un ragazzino pallido, sfinito dalla sofferenza e dalla stanchezza, che dormiva profondamente. Il braccio, steccato e fasciato, era piegato sul petto, la testa era reclinata sull'altro (...) Mentre il dottore osservava il paziente, Rose si sedette al capezzale e scostò i capelli dalla fronte di Oliver. (...) Lui si mosse e sorrise nel sonno. Come se quella carezza avesse suscitato un bellissimo, tenero sogno."

 ... E ci sarebbero numerosi altri esempi da portare... 

Quel che io trovo straordinario e affascinante è proprio questo: il ragazzino in questione, nonostante abbia subito fame e soprusi; e nonostante abbia conosciuto la criminalità, la malvagità, l'ipocrisia degli adulti, riesce ad essere buonissimo e continua ad essere buono. 
Non manifesta sentimenti di odio verso le persone che lo umiliano e che lo maltrattano. Spesso reagisce alle angherie con il pianto, raramente con la rabbia (reagisce con rabbia soltanto quando la famiglia che lo prende come apprendista si permette di insultare anche sua madre con l'appellativo di "donnaccia"). Dal punto di vista etico-morale, tra Oliver e i molti adulti presentati da Dickens (naturalmente, eccezion fatta per Mr. Brownlow, Mrs. Bedwin, Rose e Maylie) c'è un profondo abisso.

Insomma, questa è una storia che inizia malissimo, nel peggiore dei modi, ma finisce bene.
E' un libro lungo 315 pagine. Ma avrei voluto che fosse durato almeno altre 315...  o almeno, avrei voluto che l'autore scrivesse un seguito.
Davvero, avrei voluto che Dickens narrasse anche l'adolescenza e la vita adulta di Oliver... 
Che ne è stato di lui dopo le rivelazioni sulle sue origini? Ha avuto modo di proseguire gli studi? Ha deciso di frequentare l'università a Londra? Che laurea ha ottenuto, una laurea in Legge o in Economia? O forse é divenuto un appassionato di letteratura e di filosofia? Che professione ha intrapreso poi? E' rimasto per sempre nella casa del signor Brownlow? Ha mantenuto i contatti anche con Rose e Maylie? E' riuscito a trovare il grande amore della sua vita? Ha dovuto affrontare altri terribili travagli e sventure?
Tutto questo non lo saprò mai, potrò soltanto immaginarlo nella mia mente, dal momento che purtroppo non esiste e non esisterà mai il seguito dell' "Oliver Twist" :-(  !!!




18 febbraio 2015

Il dolore dei sopravvissuti in guerra:


Ci sono due poesie particolarmente espressive scritte da due uomini sopravvissuti alla Prima Guerra Mondiale.
Ve le propongo qui sotto, accompagnate da un commento.
La prima è stata composta da Siegfried Sassoon, poeta inglese nato da una famiglia di religione ebraica, tornato in patria nel 1917, dopo essere stato gravemente ferito.
        
 (S. Sassoon, "Survivors")
Siegfried Sassoon


"No doubt they’ll soon get well; the shock and strain
Have caused their stammering, disconnected talk.
Of course they’re ‘longing to go out again,’—
These boys with old, scared faces, learning to walk.
They’ll soon forget their haunted nights; their cowed
Subjection to the ghosts of friends who died,—
Their dreams that drip with murder; and they’ll be proud
Of glorious war that shatter’d all their pride...
Men who went out to battle, grim and glad;
Children, with eyes that hate you, broken and mad."

"Senza dubbio si riprenderanno presto: la tensione e lo sforzo
hanno causato il loro parlare balbettante e sconnesso.
Naturalmente desiderano partire di nuovo,
questi giovani uomini con vecchie facce spaventate,
mentre imparano di nuovo a camminare.
Presto dimenticheranno le loro notti tormentate, la loro
atterrita soggezione ai fantasmi degli amici che sono morti,
i loro sogni che gocciolano con furia omicida, e saranno fieri
della guerra gloriosa che ha mandato in frantumi il loro orgoglio...
Uomini che sono andati in battaglia risoluti e contenti;
bambini, con occhi che ti odiano, addolorati e impazziti."


Indubbiamente c'é dell'amaro sarcasmo in questi versi. E ci sono anche delle immagini molto forti, capaci di sconvolgere e di inquietare l'animo del lettore. Sassoon descrive il forte trauma subìto dai soldati che hanno combattuto in una guerra che li ha resi incapaci di parlare e di camminare. I sopravvissuti sono pervasi da un forte senso di colpa per essere ancora vivi e sono anche angosciati per il dolore della perdita dei loro compagni ("la loro atterrita soggezione ai fantasmi degli amici che sono morti"). Essi vivono notti tormentate.
La poesia è stata scritta con lo scopo di contestare aspramente le idee di molti politici britannici dell'epoca, favorevoli alla guerra e pieni di orgoglio nazionalista.
I soldati che partono da casa sono giovani uomini orgogliosi e sicuri di sé, ma ritornano traumatizzati, sconvolti, depressi, incapaci di parlare e di camminare (proprio come i bambini molto piccoli) ... e i loro occhi sono pieni di dolore.
Per Sassoon, la parola "guerra" è dunque sinonimo di "regressione".
Egli non è l'unico a coltivare quest'idea della guerra nel corso del Novecento: infatti, nel 1937, l'artista Pablo Picasso realizza uno dei suoi dipinti più famosi: "Guernica", in cui esprime il suo profondo dissenso verso la guerra civile che alla fine degli anni trenta stava devastando la Spagna. Anzi, l'artista denuncia apertamente e coraggiosamente la violenza e la crudeltà delle dittature. In quest'opera, uomini, donne e animali urlano e fuggono, sovrapponendosi gli uni agli altri. Qui tutto è convulsione e dramma: a sinistra una madre stringe tra le braccia il cadavere del figlio ancora bambino e lancia al cielo le sue urla strazianti, mentre al centro della composizione una donna si affaccia a una finestra stringendo una lampada a petrolio, simbolo della regressione non solo psichica e morale ma anche tecnologica.


Credo sia utile accennare il fatto che, nei primi anni quaranta, precisamente nel 1943, nasce in ambito artistico l'Informale, movimento che non ripone alcuna stima nella scienza e nella tecnologia, considerate simboli di morte e di distruzione. Gli artisti informali si prefiggono di raffigurare forme organiche e biologiche primordiali, simili a protozoi, a embrioni e a cellule.

L'altro componimento sul quale vorrei soffermarmi è "San Martino del Carso" di Ungaretti, uno dei miei idoli letterari.

(G.Ungaretti, "San Martino del Carso")

Di queste case
non è rimasto 
San Martino del Carso nel '17
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

E' il mio cuore
il paese più straziato


Breve lirica, ma molto intensa e profonda, che si concentra sull'analogia cuore=paese.
Già nella prima strofa, il poeta presenta l'immagine drammatica di un paese distrutto dalla guerra: l'espressione "brandello di muro" è riferita alle case ma fa pensare anche a dei corpi mutilati, straziati, ridotti a brandelli.  Poi, nei versi successivi, la dolorosa constatazione della perdita di molti amici e conoscenti.
Le croci del cuore suggeriscono l’immagine di un cimitero, però richiamano anche alla morte di Cristo.
L’immagine finale del cuore straziato si ricongiunge a quella iniziale del brandello di muro, chiudendo il componimento in modo circolare, anzi, in un cerchio di dolore.
Ciò che colpisce è proprio il fatto che il poeta paragoni il suo cuore, considerato l'organo più vivo del corpo umano e sede dei sentimenti, a un cimitero luogo di morte.
D'altra parte, l'animo di Ungaretti ospita tutte quelle croci che mancano a San Martino del Carso, paese distrutto dai bombardamenti.

13 febbraio 2015

La memoria delle Foibe:


Il 10 febbraio è la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle Foibe, spesso dimenticate dalla nostra società, che pensa soltanto a vivere un presente monotono e frenetico. Molte persone attribuiscono infatti un'importanza molto marginale agli eventi più tragici della storia e, dal momento che sono irrimediabilmente trincerati nel loro egoismo, si rifiutano di pensare al passato per riflettere sul presente per poter poi rendere migliore il futuro dell'umanità. Dispiace affermarlo, ma purtroppo è la verità!...
Fortunatamente, il nuovo presidente della Repubblica mi sembra una persona molto sensibile. Ho davvero apprezzato il fatto che si sia recato in visita alle Foibe per celebrare la ricorrenza di questo atroce massacro. Direi che sono rimasta piacevolmente sorpresa.

 Così si è espresso l'Onorevole Sergio Mattarella:
«(...) Il Giorno del Ricordo è una ricorrenza che contribuisce a sanare una ferita profonda nella memoria e nella coscienza nazionale. Per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia. (...) »

Dunque, partirei innanzitutto con la definizione del termine "foibe" e con la sua collocazione in un preciso luogo geografico e in un precise date storiche.
Le foibe erano profonde crepe del territorio carsico; erano degli "inghiottitoi" naturali, profondi decine di metri, utilizzati dagli abitanti della Iugoslavia per far scomparire rapidamente gli oggetti di cui volevano disfarsi; per esempio; scheletri di animali, sterpi, ramaglie.
Però, nel 1943 e nel 1945, all'interno di queste voragini carsiche, vennero fatti sparire i corpi di alcune migliaia di anticomunisti, soprattutto italiani, a seguito di esecuzioni sommarie su larga scala.
Le foibe si trovavano in diverse aree della Venezia Giulia, della Slovenia e della Croazia.
I massacri erano avvenuti nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945.

 
AUTUNNO 1943:
Nel settembre 1943, subito dopo l'armistizio, erano crollate le strutture dello stato italiano. Per questo motivo, i tedeschi avevano occupato le città di Trieste, Pola e Fiume, ma, per carenza di forze, avevano trascurato l'entroterra istriano.
I comunisti, profondamente legati al Movimento di liberazione jugoslavo, dopo aver preso il potere nell'Istria interna, iniziarono ad arrestare in tutta la regione i gerarchi fascisti, i carabinieri, gli esattori delle tasse e gli ufficiali postali italiani residenti in quella zona, per poi fucilarli e gettarli nelle Foibe. 
I partigiani slavi odiavano i membri dell'amministrazione italiana, caratterizzata soprattutto da fiscalismo e da un aggressivo nazionalismo.

Poi, la repressione aveva assunto anche connotati sociali, e proprio per questo motivo, erano stati eliminati i proprietari terrieri 
italiani, vittime di un antagonismo di classe che contrapponeva i possidenti italiani ai mezzadri croati. E' utile ricordare che i forti contrasti tra contadini e proprietari in Istria risalivano addirittura all'epoca asburgica ma erano stati esasperati dall'avvento del fascismo, ostile verso qualsiasi provvedimento di emancipazione sociale dei contadini slavi.
A poco a poco, gli antifascisti slavi avevano arrestato e ucciso anche commercianti, artigiani, medici e insegnanti, oltre ovviamente ai membri italiani dei Comitati di salute pubblica.
Il loro scopo era, come d'altronde suggeriscono alcune fonti storiche croate, quello di "ripulire il territorio dai nemici del popolo", al punto tale da arrivare ad una vera e propria "pulizia etnica", dal momento che, in quel terribile autunno venivano fatti sparire tutti coloro che non collaboravano attivamente con il Movimento di liberazione, guidato da Tito.


PRIMAVERA 1945:
Nel maggio del 1945, l'esercito jugoslavo, dopo aver occupato tutto il territorio della Venezia Giulia, aveva arrestato, imprigionato e torturato i soldati italiani presenti in quel territorio. Molti soldati erano morti di fame e di stenti nei campi di prigionia (dei quali uno tristemente famoso é quello sloveno di Borovnica), i sopravvissuti, erano stati deportati in prossimità delle foibe per poter essere fucilati e gettati al loro interno. Agli italiani era imputata una "colpa collettiva", che, secondo i comunisti slavi, derivava dall'appartenenza alle forze armate nazi-fasciste. Indubbiamente, fra gli infoibati vi erano anche alcuni fascisti e protagonisti di alcune rappresaglie, ma, ciò che io ritengo sconcertante, è il fatto che la mentalità di fondo degli arresti e degli stermini era fondata su una generalizzazione collettiva e non sull'individualità, secondo il ragionamento, vero solo in parte: "Italiani= fascisti pericolosi". In realtà, vittime della strage erano stati soprattutto ex-squadristi e presunti oppositori politici del regime comunista, dal momento che molti membri del Partito fascista residenti nella Venezia Giulia erano riusciti a fuggire in tempo, poco prima che venissero attuati i massacri.
Ad ogni modo, la IV armata iugoslava si era occupata delle fucilazioni dei soldati italiani, mentre alla polizia politica jugoslava era affidato il compito di arrestare e di deportare i civili.


LE VITTIME:
Gli storici finora non sono riusciti a quantificare esattamente il numero delle vittime, anche per il fatto che governo jugoslavo si è sempre rifiutato di riferire apertamente il numero dei decessi.
Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dai primi anni novanta, subito dopo la fine della guerra fredda, ed è stato rilevato che i cadaveri rinvenuti di "infoibati" veri e propri finora sono più di un migliaio (anche gli uccisi in altre circostanze legate all'avanzata delle forze jugoslave lungo il confine orientale italiano vengono considerati vittime delle foibe).


LE TESTIMONIANZE DI ALCUNI SOPRAVVISSUTI:

"Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentì uno dei nostri aguzzini dire agli altri:"Facciamo presto, perché si parte subito". Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico fil di ferro, oltre quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo solo i pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze.

Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi .Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera.

Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto avvenne il prodigio: il proiettile, anziché ferirmi, spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me.
La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato di nascosto al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo."
 (Dalla rivista "Storia e Dossier", maggio 1997)


"Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gridò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull’orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: era arrivato il momento di morire.
Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mi consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c’è l’umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all’orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano.
Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull’orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più.
(...) Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in un ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Ci fanno uscire e inizia la marcia verso la foiba.
Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", slogan che viene ripetuto ad ogni piè sospinto. Io, appena sento il crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba.
Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All’improvviso le mie dita afferrano una zolla d’erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. (...)" 
(da Arrigo Petacco, "L'esodo. La tragedia negata degli italiani in Istria", Dalmazia e Venezia Giulia)


1 febbraio 2015

"La valigia di Hana", Karen Levine



"La valigia di Hana" è una storia realmente accaduta che lega tra loro tre continenti diversi e abbraccia un periodo di circa settant'anni. Questo libro unisce le vite di una ragazzina di nome Hana Brady e della sua famiglia nella Cecoslovacchia degli anni Trenta e Quaranta a quelle, dei giorni nostri, di una donna giapponese residente a Tokyo e di un uomo anziano che vive in Canada.
Ho "divorato" il romanzo nel giro di poche ore, perché, a mio parere, è davvero molto avvincente.
 

Nelle prime pagine del libro, si racconta che, nel marzo del 2000, una vecchia valigia giunge in un piccolo museo dell'Olocausto di Tokyo, in Giappone. Sulla valigia sono vergate queste parole con la vernice bianca: "Hana Brady, 16 Mai 1931, waisenkind"= "Hana Brady, 16 maggio 1931, orfana."
A Fumiko, giovane curatrice del museo, sorgono mille domande: "Chi era Hana Brady? Da dove veniva? Dove stava andando? Come era diventata orfana?" E così, desiderosa di scoprire che cosa è accaduto a quella ragazzina ebrea, parte per un avventuroso viaggio in Europa e arriva a Praga.

E da questo punto in avanti, l'autrice racconta l'interessante storia della bambina.
 
Hana viveva con i due genitori e il fratello George a Nove Mesto, cittadina circondata dalle colline. Suo padre era proprietario di un negozio e, oltre a ciò, era anche un appassionato di sport e di teatro.  "La casa della famiglia Brady era aperta ad artisti di ogni genere: musicisti, pittori, poeti e attori. Quando avevano fame, trovavano sempre un pasto caldo preparato da Boshka, cameriera e cuoca di famiglia. E le loro doti artistiche incontravano l'apprezzamento di un pubblico entusiasta, che naturalmente comprendeva anche i due monelli, Hana e George. "
Hana è descritta come una bambina vivace, serena, in ottimi rapporti con il fratello George, di tre anni più grande. "Hana aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e un visino tondo molto grazioso. Di tanto in tanto si azzuffava con George, al solo scopo di mettere in mostra i muscoli. (...) Ma il più delle volte i due fratelli giocavano e si divertivano insieme. Durante l'estate, nel ruscello dietro casa, facevano finta di essere nella marina. Si arrampicavano dentro una vecchia tinozza di legno e solcavano le acque finché uno dei due non toglieva il tappo al centro e cominciavano ad affondare, ridendo e schizzandosi a vicenda."
La madre di Hana, donna molto generosa e solare, preparava, una volta alla settimana, un fagotto contenente cibo e abiti, che sua figlia portava alla povera gente dei sobborghi della città. 

Ma... "I Brady erano ebrei. Non erano una famiglia particolarmente religiosa, ma la madre e il padre volevano che i figli conoscessero la loro cultura. Una volta la settimana, mentre i loro compagni erano in chiesa, i due fratelli facevano lezione con un insegnante speciale, che spiegava loro le festività e la storia ebraica. C'erano altre famiglie a Nove Mesto, ma Hana e George erano gli unici bambini ebrei della città. Nei loro primi anni di vita questa differenza era passata inosservata (...)"

 
Il 15 marzo del 1939, quando le truppe naziste invadono la Cecoslovacchia, la vita della famiglia Brady cambia drasticamente e tragicamente. ...E con il passare delle settimane, il mondo di Hana e George si fa sempre più stretto: i due ragazzini infatti, non possono più frequentare molti luoghi pubblici, quali cinema, piste di pattinaggio e palestre, devono indossare sempre la stella gialla di David che porta la scritta "jude"= "ebreo", perdono tutti i loro amici e non godono nemmeno più del diritto di andare a scuola.
Hana Brady a 9 anni: (la bambina si firmava con 
una enne sola)...


A questo proposito è molto bello il punto in cui George, accorgendosi dell'enorme tristezza della sorellina, le propone di scrivere su dei fogli di carta, (arrotolati e infilati poi in una bottiglia) non soltanto tutto ciò che la fa soffrire e arrabbiare ma anche tutte le cose che lei avrebbe voluto fare in futuro, quando quel brutto periodo di antisemitismo fosse passato.
 
Ma la situazione peggiora sempre di più... perché nel marzo del 1941 la madre dei due ragazzini viene arrestata dalla Gestapo... e i suoi figli non la rivedranno mai più. Nel settembre dello stesso anno, anche il padre viene catturato da un ufficiale nazista.
Fortunatamente, dopo questo terribile evento, il loro zio materno, lo zio Ludvik, decide di prendere con sé Hana e George. 

Però questo periodo di relativa felicità dura pochi mesi: "Un giorno fu recapitato un messaggio a casa dello zio Ludvik. Hana e George Brady dovevano presentarsi in un centro di deportazione, a Trebic, a cinquanta chilometri da Nove Mesto, il 14 maggio 1942."  E così, anche i due ragazzini vengono deportati in un campo di concentramento a Terezin insieme a molti altri ebrei. In quel luogo entrambi riescono ad instaurare sinceri rapporti di amicizia con i loro rispettivi coetanei ma, come tutti gli internati nei campi di concentramento, subiscono le angherie e le cattiverie degli ufficiali nazisti, che li fanno vivere in pessime condizioni igieniche e danno loro scadenti razioni di cibo. Come se non bastasse, convivono quotidianamente con il terrore di poter essere deportati ad Auschwitz, luogo in cui avvengono stermini di massa.
 
In un triste giorno del 1944, George, insieme ad altri duemila uomini, viene trasferito ad Auschwitz.
L'autrice descrive l'ultimo incontro tra Hana e George:
"...'Domani parto. Ora più che mai, devi cercare di mangiare più che puoi. (...) Devi essere forte. Prendi la mia ultima razione e mangiala fino all'ultima briciola.' - George strinse Hana in un caldissimo abbraccio e le spostò delicatamente i capelli dagli occhi. -'Ho promesso ai nostri genitori che ti avrei riportata a casa sana e salva, in modo da poter riunire di nuovo la nostra famiglia. Non voglio infrangere quella promessa.' Poi si sentì il fischio che annunciava il coprifuoco e George se ne andò. Hana cadde in uno stato di prostrazione. Non riusciva a sopportare la separazione dal fratello. Prima se n'erano andati i suoi genitori, e ora anche George. Si sentiva così sola al mondo (...)"

 Alcuni mesi dopo, anche Hana viene trasferita ad Auschwitz, poco dopo il suo tredicesimo compleanno. Per lei, viaggiare verso est significa ritrovare il fratello: "Voglio essere carina quando rivedrò mio fratello. Voglio dimostrargli che mi sono presa cura di me stessa.", e quindi, la sera prima di partire, si lava, si pettina i capelli e prepara la valigia, anche se non ha molti oggetti da mettere dentro. 

Il mattino seguente, molte ragazze ebree salgono su un treno diretto ad Auschwitz. Il viaggio verso quell'inferno dura un giorno e una notte. Una volta arrivate, "Hana e le sue vecchie compagne di stanza furono condotte al di là di un cancello di ferro battuto sotto gli sguardi attenti di cani inferociti e degli uomini in uniforme. (...) Attraversarono immense camerate, dove videro i volti scheletrici dei prigionieri con la divisa a righe che sbirciavano dalle porte. Ricevettero l'ordine di entrare in un grande edificio. Le porte si richiusero dietro di loro con un tonfo spaventoso."


... IL SEGUITO DELLA STORIA...

Hana venne uccisa in una camera a gas ad Auschwitz il giorno stesso in cui arrivò lì.
Suo fratello invece riuscì a sopravvivere all'Olocausto. Nel gennaio del 1945, quando anche Auschwitz venne liberata, George era un ragazzo di 17 anni.
Poco tempo dopo la fine della guerra, il giovane venne informato sia della morte di entrambi i genitori sia della tragica fine che aveva fatto la sorellina. Nonostante questo atroce dolore, egli decise di ricostruirsi una nuova vita: si trasferì a Toronto in Canada dove aprì con un altro sopravvissuto dell'Olocausto un'impresa idraulica e dove si sposò.
Dopo molte e faticose ricerche, Fumiko riuscì a rintracciare George, il quale accettò di raccontare la sua storia e quella di Hana ai bambini giapponesi frequentatori del museo.
La valigia della ragazzina


Vorrei concludere questo post con un'ultima, significativa citazione:
"... all'improvviso (George) fu assalito da una tristezza quasi insopportabile. Davanti a lui c'era la valigia che era appartenuta a sua sorella. Sopra c'era scritto il suo nome: 'Hana Brady'. Era morta così giovane e in un modo tanto terribile. George abbassò il capo e lasciò che le lacrime scorressero libere. Ma qualche minuto dopo, quando alzò lo sguardo, vide Fumiko, che si era data tanto da fare per trovarlo e per conoscere la storia di Hana, e le facce speranzose di tutti quei bambini giapponesi per i quali Hana eran divenuta così reale, così importante. George si rese conto che uno dei sogni di Hana si era avverato: sua sorella era diventata un'insegnante. Grazie a lei, centinaia di bambini giapponesi stavano imparando quelli che George aveva sempre considerato valori molto importanti: la tolleranza, il rispetto e la compassione. (...)"