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26 luglio 2018

Sigismondo D'India e le lacrime dei maschi:

Mi rendo conto che il titolo del post è strano, ma ne comprenderete bene il senso leggendo ciò che ho scritto nei paragrafi sottostanti.
Capitemi, è l'autore che ho trattato nella mia tesi, dunque mi sembrava carino condividere qualcosa qui dopo mesi di ricerche.

BIOGRAFIA DI D'INDIA:

Non disponiamo di molte notizie a proposito della vita di Sigismondo D'India.
Sicuramente è vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento.
Era originario di Palermo e, come è facile immaginare, proveniva da una famiglia aristocratica.
In quell'epoca storica potevano accedere agli studi letterari e musicali soltanto coloro che provenivano da famiglie influenti o comunque ricche e nobili.
A livello prettamente biografico, ci sono cinque date rilevanti nella vita di D'India: 1606, 1609, 1611, 1623, 1624.
Nel 1606, come attesta il filologo musicale Tim Carter, il compositore si trova a Mantova, al servizio del duca Vincenzo Gonzaga. In quello stesso anno, viene fatta pubblicare la sua prima raccolta di madrigali a cinque voci.
Al 1609 risale invece la pubblicazione del primo libro delle Musiche, contenente ben 47 brani musicati, di cui 21 polifonici. Preciso che il termine polifonia è un composto da πολύς (polùs=molto) + ϕωνή (foné=voce) e quindi significa: "più voci", contrapposto alla monodia, che deriva invece da μόνος (mònos=unico) + ᾠδή (odè=canto).
Nel 1611 D'India si trasferisce a Torino alla corte dei Savoia, dove rimane per 12 anni e dove è probabile che abbia conosciuto Giambattista Marino, autore dell'Adone.
Nel 1623, come attesta Lorenzo Bianconi, lo troviamo al servizio del cardinale Maurizio di Savoia a Roma e a partire dall'anno successivo serve anche gli Estensi a Modena.
Ci mancano le certezze sia riguardo alla data di nascita che a quella di morte.
Si suppone però che sia vissuto in un arco cronologico di 50 anni (1580-1630).

OPERE DI D'INDIA:

In un arco di tempo compreso tra il 1606 e il 1624, D'India ha realizzato ben otto libri di Madrigali a cinque voci e cinque libri di Musiche.
Nelle Musiche compaiono sia brani monodici sia brani polifonici.
Nel corso del primo capitolo del mio elaborato finale mi sono focalizzata soprattutto sui contenuti dei cinque libri delle Musiche, dal momento che essi offrono una panoramica chiara e completa delle tecniche compositive dell'autore.

Nel primo libro delle Musiche è interessante rilevare in particolar modo che viene messo in musica il lungo monologo di Mirtillo, personaggio del Pastor Fido di Guarini, pastore di origini divine che ama profondamente Amarilli, discendente del dio Pan (nella cultura greca, divinità figlia di Ermes, dio delle selve e della natura).
Il monologo di Mirtillo è di carattere malinconico, dal momento che il personaggio, all'arrivo della primavera, contempla la natura e ricorda con molta nostalgia l'amata che non vede da un anno.
Questo brano era stato messo in musica anche da Jacques de Wert, all'interno del suo undicesimo libro di Madrigali, uscito nel 1595
Entrambi i musicisti hanno suddiviso questo testo letterario formato da 45 versi in cinque sezioni.
Il dottor Andrea Garavaglia rileva tuttavia una sostanziale differenza tra il lavoro di Wert e quello di D'India: mentre Wert dà vita ad una melodia polifonica, D'India invece lo mette in musica a voce sola.

Nel secondo libro delle Musiche prevalgono i brani polifonici cantati da due voci: un esempio di ciò è proprio il monologo di Falsirena, lungo ben 64 versi e tratto dall'Adone di Marino.
Falsirena conduce Adone nel suo palazzo e, dopo che egli si assopisce all'interno di una delle stanze, lei inizia a interrogarsi su ciò che prova. I primi versi del brano dicono infatti: "Ardo, lassa o non ardo?"
Il brano contiene anche dei suggestivi passaggi melismatici. Chiarisco che il melisma (dal greco μέλος, ovvero, "aria, canto") è una tecnica musicale che consiste nel caricare un gruppo di note su una sola sillaba testuale. Per cui, nell'ultima parola "amore", le due voci totalizzano ben 112 melismi!

Il terzo libro è la prova evidente del fatto che questo compositore musicava componimenti compresi in un arco cronologico piuttosto ampio: in questa raccolta infatti troviamo sonetti di Petrarca, di Bembo, di Gabriello Chiabrera; un passo dell'Aminta, favola pastorale di Tasso, alcune ottave della Gerusalemme Liberata e alcuni brani tratti dall'Adone.
Petrarca è stato operativo nel Trecento, Marino invece nel Seicento.
Nel terzo libro tra l'altro, appaiono dei dialoghi messi in musica attraverso vari espedienti: alternanza delle voci, sovrapposizioni vocali, eco, contrasto.

E arriviamo agli ultimi due libri, che presentano una singolare novità: nel quarto libro ci sono i lamenti di Orfeo e di Apollo, nel quinto invece il lamento di Giasone.
Ed è proprio questo l'aspetto più originale e più innovativo di D'India!
I testi dei tre lamenti, come asserisce Bianconi, sono "frutti dichiarati della Musa poetica del musicista". In parole meno ridondanti: i testi sono stati scritti dal compositore stesso, che ha dato poi anche un'impostazione musicale.
Prima di allora, nessun musicista aveva mai scritto dei lamenti che poi metteva in musica.
Il Lamento di Arianna ad esempio è stato messo in musica da Monteverdi, ma il testo è di Rinuccini.

Inoltre, i lamenti di Sigismondo D'India risultano svincolati da un ampio contesto narrativo: sono brani a se stanti, non sono inclusi all'interno di un'opera teatrale.
Dal momento dunque che si tratta di testi indipendenti, questi lamenti rendono l'atto del lamentarsi come l'emblema della condizione ontologica di chi prova dolore e angoscia.

I LAMENTI MASCHILI:

Non ci sono noti i motivi per cui D'India abbia voluto soprattutto dei personaggi maschili per i suoi lamenti.
Tra l'altro, il genere letterario del lamento prevedeva esclusivamente delle figure femminili, secondo le convenzioni sociali dell'epoca.
L'ho trascritto in altri post: per molti secoli, sin dall'antichità e più che mai nel periodo dell'antico regime (Seicento), il ruolo fondamentale dell'uomo consisteva soprattutto nel farsi garante dei valori culturali e morali dell'epoca. Non gli è quindi consentito piangere e disperarsi per vicende di vita privata. Non può assolutamente farlo: il pianto lo porterebbe a distrarsi dai suoi importanti compiti sociali.
Vi riporto qui due opere della classicità che ben riflettono questa mentalità che è perdurata per millenni: l'Economico di Senofonte, dialogo tra Socrate e l'aristocratico Isomaco in cui gli uomini, in quanto dotati di maggiore forza fisica e ardimento, sono tenuti a partecipare attivamente alla vita politica, alle leggi e agli eventi sociali, mentre le donne invece devono mostrarsi madri amorevoli e mogli fedeli, fedeli soprattutto all'ambiente domestico.
Ovidio invece, nel primo libro della sua Ars Amandi, afferma che la "libido" femminile è sfrenata e rovinosa, mentre quella maschile "rispetta i confini della legge".

Era assolutamente necessario inoltre, all'interno della seconda parte della mia trattazione, evidenziare che il lamento è un genere diverso dalla follia.
Sono entrambe delle rappresentazioni teatrali che riguardano la sofferenza amorosa ma, mentre la follia implica l'enfasi dei gesti, il lamento invece si focalizza in particolar modo sull'interiorità degli individui sofferenti, che si rivolgono idealmente alla persona che li ha fatti soffrire.

D'India elabora il genere del lamento in modo del tutto curioso!
I lamenti da lui scritti e musicati sono in realtà cinque: oltre a quelli menzionati sopra, bisogna tener conto anche del Lamento di Didone e del Lamento di Olimpia, anch'essi fatti pubblicare nel 1623.
Didone e Olimpia sono donne abbandonate dai loro amanti.
Orfeo invece, perde Euridice per sempre dal momento che ha violato le leggi imposte da Plutone, sovrano dell'oltretomba.
Apollo, dal canto suo (e questo è davvero insolito!), è una divinità che si dispera a causa della trasformazione di Dafne in alloro.
Il testo di Giasone è notevole per un altro motivo: egli non soffre per amore. Giasone è un padre straziato dal dolore dell'improvvisa perdita dei suoi tre figli, massacrati dalla terribile e vendicativa moglie Medea che non accettava la loro separazione e soprattutto, detestava il fatto che il marito avesse intenzione di sposarsi con un'altra.

Prima che io vi dica qualcosa su ogni lamento maschile di questo autore vi invito a farvi una domanda: pensate a personaggi della tradizione letteraria italiana. Avete individuato mentalmente un personaggio maschile che piange per amore e che desidera morire e che si lamenta?!
Non rispondetemi "Orlando" di Ariosto, per favore. Non vale!
Orlando è furioso, non è malinconico. E' disperato sì, ma non si lamenta: impazzisce e, per l'appunto, si infuria! Inizialmente si rifiuta di credere che Angelica, la donna di cui è perdutamente innamorato, abbia preferito di gran lunga Medoro a lui ma poi, quando gli si palesa davanti agli occhi la realtà dei fatti, urla, si strappa i capelli e con la sua spada taglia i tronchi di tutti gli alberi che gli si trovano davanti.

IL LAMENTO DI ORFEO:

Quattro secoli fa, l'immagine di un Orfeo languente era già molto radicata in Italia.
Il testo di questo lamento inizia con una serie di domande che ben rispecchiano l'iniziale disorientamento del personaggio:

Lamento di Orfeo, vv. 1-9:

Ohimé che veggio, che miro?
Chi lasso mi ti toglie, 
Euridice, mio bene?
Chi mi ti invola, ohimé,
cara degli occhi miei luce e pupilla?
Chi dunque del mio core, 
chi dell'anima mia lasso mi priva?
Ah, che non vegg'io, 
ch'alcun ponga soccorso al dolor mio!

Dal punto di vista musicale, queste domande iniziali vengono musicate secondo un andamento melodico ascendente, fino all'esclamazione "Ah", in cui si raggiunge la nota più acuta.
A partire da "che non vegg'io" inizia una sequenza melodica discendente, finalizzata a evidenziare lo sconforto di Orfeo.
Di poco successiva alle domande, l'autore inserisce una memoria recente nella storia personale di Orfeo: egli in effetti ricorda come la morte terrena di Euridice sia avvenuta in un momento di serenità.

Lamento di Orfeo, vv. 10-12:

Ohimé, come su l'alba 
delle delizie mie, delle mie gioie,
cadde repente l'espero de' mali!

 Da notare che in questo punto l'andamento melodico diviene tranquillo e asseconda così la fase riflessiva, in contrasto con la concitazione precedente.

Nel corso dell'esecuzione del componimento, Orfeo prega le divinità infernali di restituirgli Euridice e si lamenta a proposito della severità delle norme dell'oltretomba.
Ma la supplica si volge presto in disperazione e accentuazione del dolore a causa dei quali il protagonista si sente morire. 

Alla fine del lamento, Orfeo sviene a causa del dolore.

 Lamento di Orfeo, vv. 61-67:

A così grave duol già cede l'alma,
perde la lena il cor e'n guisa d'angue,
che giace a terra, moribondo langue.
Tremando agghiaccio, freddo il viso e smorto;
privo di moto, tramortito io resto.
Già cede al duolo il cor già stanco e lasso,
io vengo meno e resto immobil sasso.

Garavaglia osserva che questo lamento sembra presentare per lo più i caratteri di un lamento femminile: il protagonista infatti, subito dopo aver infranto le condizioni di Plutone per vedere se Euridice lo segue, si rende conto che l'amata è improvvisamente scomparsa. Ma la causa di questa sparizione consiste proprio nell'errore di Orfeo: nel voltarsi infatti egli infrange le regole dell'oltretomba, vìola le leggi del sistema socio-culturale e dunque si rivela certamente fragile con questo atteggiamento poco maschile.

IL LAMENTO DI APOLLO:

Nel testo di D'India Apollo appare un dio molto addolorato a causa di un amore non corrisposto.
Si era mai visto prima un componimento il cui protagonista, essere di natura divina, si lamentasse per la metamorfosi dell'amata??! Mai!
Come nel lamento di Orfeo, anche qui D'India inserisce all'inizio del testo delle domande che Apollo rivolge a sé e idealmente all'amate scomparsa:

Lamento di Apollo, vv. 1-8:

Che stringo? Ah, dove sono e in qual parte?
Dove sei dileguata,
dove sei tu sparita,
anima mia gradita?
Come senza il tuo giorno
in tenebre di duol sepolta vivi?
Ed io non meno e spiro e parlo e sento?
Ahi, che moro al gioir, vivo al tormento.

Tuttavia, nella sezione centrale del lamento, Apollo riflette su se stesso e, immaginando le disastrose conseguenze della sua morte per l'umanità intera, riprende coscienza del suo ruolo divino.
Senza Apollo infatti, l'umanità verrebbe privata della luce, fonte indispensabile per la vita.

La consapevolezza del suo ruolo divino implica il prevalere della ragione sul dolore per cui, quando alla disperazione si sovrappone la razionalità, la struttura metrica del lamento diviene regolare, in versi organizzati in quartine con uno schema delle rime ABBA/CDDC:

Lamento di Apollo, vv. 17-24:

Non fia ch'in seggio assiso errando intorno                              A
con l'eterna mia luce il mondo avvivi,                                        B
ma di vita le piante e i fiori privi                                                 B
darò tenebre eterne e notte al giorno.                                        A


E di lugubre manto il ciel vestito                                                 C
in eclissi perpetua, in nube oscura,                                             D
nel primo stato tornerà natura,                                                  D
ché più bel sol di me vegg'io sparito.                                          C


Prima invece, nella sequenza iniziale che ho ricopiato, si nota chiaramente l'alternanza tra endecasillabi e settenari sciolti.

Un ultimo particolare non trascurabile sta nel fatto che Apollo, alla fine del lamento, non sviene ma parte, dal momento che ha superato il dolore: "da te, caro tesoro/da te parto, cor mio, parto e non moro!"

IL LAMENTO DI GIASONE:


E passiamo a quello che ha più diritto degli altri di lamentarsi e di disperarsi!

Giasone non è come Orfeo e Apollo, prima di tutto perché si trova costretto, davanti ai cadaveri lacerati dei figli, a prendere atto in modo traumatico di ciò che è accaduto.
Quindi, qui non ci sono delle domande iniziali di disorientamento o di ricerca dell'oggetto d'amore.
E poi, l'autore inserisce tre versi endecasillabi struggenti, in cui traspare già il desiderio del personaggio di morire:

Lamento di Giasone, vv. 1-3:

Ancidetemi pur, dogliosi affanni,
poiché non trovo loco al mio languire.
Trafiggetemi pur, ch'io vuò morire!

Ho trovato molto affascinante il paragone che Garavaglia ha istituito con il Lamento di Arianna di Rinuccini.
Garavaglia in pratica dice che l'esordio di questo lamento di D'India richiama alla mente i primi cinque versi del lamento musicato da Monteverdi:

Lamento di Arianna, vv. 1-5:

Lasciatemi morire.
E che volete voi che mi conforte,
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire.

D'India, come Rinuccini, tende a ripetere a fine strofa il verso iniziale. Ma non è una ripetizione letterale come nel Lamento di Arianna, bensì concettuale: "ancidetemi" (uccidetemi) e "morire" sono semanticamente vicini. Inoltre, il soggetto di "trafiggetemi" è sempre "dogliosi affanni".
Forse D'India non ha ritenuto giusto riproporre la ripetizione letterale del verso perché non la riteneva adatta ad esprimere la continua mutevolezza dell'animo umano.
Anche se la ripetizione sarebbe di norma nelle forme testuali destinate alla musica.

Da considerare però che D'India replica più volte all'interno di questo monologo il distico (coppia di versi) che fa: "Ancidetemi pur, doglia e martire!/ Trafiggetemi pur, ch'io vuò morire!"

Questo lamento prevede più interlocutori ideali: i figli morti e la moglie Medea, non presente in scena.
La molteplicità di interlocutori permette di rilevare i sentimenti antitetici di Giasone: l'odio verso la ex moglie e l'affetto verso i figli.

Lamento di Giasone, vv. 27-31:

Medea, spietata e dura,
perché non ti privai di vita allora
quando eri mia? Crudele!
Perché dal petto non ti trassi il core?
Perfidissima fiera! Ohimé, ch'io spasmo!

Proprio in questo punto in cui Giasone maledice Medea, l'andamento melodico diviene gradualmente ascendente e il ritmo accelera man mano che il cantante-interprete emette le parole.

Naturalmente, anche nella tragedia di Euripide, Giasone manifesta un forte astio verso la moglie, la chiama, a buon diritto: "abominio".

Nella seconda parte del lamento, D'India sviluppa una situazione drammatica davvero molto particolare: nell'istante successivo in cui il protagonista dichiara di voler rinunciare al potere regale, crede di essere prossimo alla morte, dal momento che la sua è una sofferenza indicibile.
In realtà, si tratta soltanto di un piccolo cedimento.

Lamento di Giasone, vv. 48-59:

Ma qual sent'io, qual duolo
m'imgombra il petto e l'alma!
Ahi, che finir mi sento,
già sento palpitarmi 'l cor nel seno,
già manco e moro, ahi lasso, io vengo meno!

Non moro dunque? E vivo e spiro ancora?
Mori, morto al dolore!
Mori, morto mio core!
Non più, non più trofei!
Non più ornamenti e fregi!
Squarcisi il ricco manto e a terra cada
la gemmata corona e 'l reggio scettro!

 Gli ultimi tre versi appaiono molto espressivi, sia dal punto di vista verbale che dal punto di vista musicale:

Lamento di Giasone, vv. 60-62:

Figli, se morti siete, io più non vivo,
non più v'abbraccio, v'accarezzo e adoro,
ma dolente già manco e spiro e moro.

 
Nel collasso finale, la voce ascende gradualmente di toni fino alla parola "spiro" (dove raggiunge il fa diesis, la nota più acuta di tutto il lamento), per poi precipitare improvvisamente prima di tacere.
Queste intonazioni mettono ben in risalto tra l'altro il climax discendente dell'ultimo verso: "manco, e spiro e moro". 

Un'ultima considerazione: avrete sicuramente notato che D'India, oltre che musicista, è un letterato molto colto dal momento che ricorre a termini ed espressioni tipiche di autori medievali, che dunque già nel Seicento erano considerate un po' antiquate, come: "lasso" (=povero), "veggio" (=vedo, e qui vi ricordo gli stilnovisti con il verso "veggio negli occhi de la donna mia"), "ancidetemi" (=uccidetemi, tipico anche questo dell'italiano del Duecento), "duol" (=dolore), "guisa" (modalita' dell'italiano antico per dire "e in questo modo, e così"), langue (=soffre, languisce).

Da notare infine alcuni latinismi, come "cor" (dal latino cor, cordis), "miro (dal latino "mirare", vedere), fiera (parola latina per indicare "belva"), alma ("anima").

Oltre a ciò, richiamo alla mente anche alcune somiglianze letterarie: Orfeo chiama Euridice "mio bene", proprio come fa Tasso in un madrigale amoroso che inizia con le parole: "amatemi, ben mio".
E infine, il verso del medesimo lamento: "tremando agghiaccio, freddo il viso e smorto" ricorda alcune parole del sonetto di Petrarca "Pace non trovo et non o' da far guerra": "et temo et spero et ardo e son un ghiaccio". 
Il freddo, il ghiaccio, nella nostra tradizione letteraria fa riferimento ad un dolore e ad un tormento che in un certo senso "raggela l'anima", toglie la voglia di ridere e di vivere serenamente.


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