29 febbraio 2020

Giorgio Perlasca, eroe italiano:

Questo è un post che riassume la biografia di Giorgio Perlasca, figura estremamente positiva e lodevole che molti ragazzi delle scuole superiori e molti giovani non conoscono. 
Nel 2002 è stato girato un  film, a mio avviso ben fatto, su quest'uomo e sui suoi  avvincenti tentativi di salvare gli ebrei ungheresi.
Il percorso politico, ideologico ed etico di Perlasca è davvero interessante.
1. Le origini e la giovinezza:
Giorgio Perlasca era nato a Como nel 1910. Era ancora un bambino quando il padre Carlo aveva deciso di trasferirsi a Padova per motivi di lavoro.
Da giovanissimo Giorgio aveva aderito con entusiasmo al Fascismo. Nutriva una forte ammirazione per D'Annunzio, al punto che, nel sostenere le idee nazionaliste di questo nostro letterato, si era scontrato con un suo insegnante che condannava invece l’impresa di Fiume. 
Nel 1930, terminata la maturità, aveva deciso di aderire alla Camicie Nere.                                Per questo ragazzo, gran parte degli anni Trenta sono caratterizzati ancora da una grande fedeltà verso il fascismo: Giorgio si era arruolato come volontario prima nella guerra coloniale d'Etiopia, nel '36, e poi, nel '37, aveva deciso di partecipare anche alla guerra civile spagnola, naturalmente dalla parte del dittatore Francisco Franco. 
Fra il '37 e il '39, oltre a ricoprire nelle battaglie il ruolo di artigliere, aveva avuto modo di avvicinarsi alle tradizioni spagnole.  
Però nel '39, rientrato in Italia e venuto al corrente delle leggi razziali, Perlasca inizia ad allontanarsi dal fascismo e a distaccarsi da interessi politici. Non ha mai condiviso le idee antisemite del nazi-fascismo. Nel 1940 si era sposato con una donna triestina.
2. Gli anni a Budapest e il salvataggio di migliaia di vite:
Inizia poco dopo il secondo conflitto mondiale. 
Giorgio Perlasca era allora stato inviato come commerciante di bestiame nei paesi dell'Est. E infatti, nel 1942 approda in Ungheria a Budapest, in qualità di agente venditore per una ditta di Trieste di importazione di bovini.Nel giorno dell'armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) , Perlasca si trovava ancora a Budapest. A causa del suo rifiuto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, era stato ricercato e arrestato dai tedeschi. Ma era riuscito a fuggire e a trovare rifugio presso l'ambasciata spagnola (a Budapest c'era una sede dell'ambasciata spagnola). 
Grazie a un attestato che provava la sua partecipazione alla guerra civile spagnola e che gli garantiva assistenza diplomatica, Giorgio era riuscito ad ottenere dall'ambasciata una cittadinanza fittizia e un passaporto spagnoli. In questo modo era riuscito a diventare "Jorge Perlasca" e così, durante i suoi tentativi di proteggere e di salvare gli ebrei ungheresi, si spacciava per un "console di Spagna".  Gli ebrei scampati alla deportazione grazie a Perlasca venivano poi ospitati in case protette, soggette all'extra-territorialità per  copertura diplomatica. Da rilevare inoltre anche che Perlasca, con l'aiuto di alcuni diplomatici ungheresi e spagnoli anti-nazisti, era riuscito a creare migliaia di documenti falsi per poter permettere alle famiglie ebree di trasferirsi in Svizzera o negli Stati Uniti. Ha salvato 5218 ebrei!
Nel 1944 la situazione in Ungheria era peggiorata. Avevano preso il potere le Croci Frecciate, dei violenti militari ungheresi di idee naziste e fortemente antisemite. Il film che vi ho indicato sopra l'ho visto pochi giorni fa; e ho notato una differenza tra i soldati tedeschi nazisti (che in quegli anni erano dappertutto in Europa) e i soldati ungheresi: i generali tedeschi fanno del male "con il muso lungo", visto che in quel film appaiono duri ma al contempo piuttosto provati. I componenti delle Croci Frecciate mi sono sembrati  invece decisamente più crudeli: violentano, picchiano e uccidono sempre con risate diaboliche e sprezzanti, per il puro gusto di farlo. 
Negli ultimi due anni di guerra c'erano delle caserme di tortura a Budapest, riservate a ebrei e dissidenti politici. Non c'erano soltanto a Budapest, ma ciò che avveniva al loro interno era veramente orribile. Perlasca, quando si reca in una caserma di tortura a Budapest per liberare una donna ebrea, madre di una bambina piccola, vede cadaveri ammucchiati, alcuni ancora sanguinanti, altri con volti tumefatti o bruciacchiati.
A questo proposito penso a un romanzo, che vi consiglio vivamente. E' di Renata Viganò, che è stata infermiera e partigiana bolognese. Si intitola "L'Agnese va a morire". Già il titolo contiene il finale del libro. Comunque, Agnese è una donna di mezz'età che, una volta rimasta vedova (il marito, in quanto comunista, era stato arrestato e deportato dai fascisti ed era morto), decide, a partire dall'autunno '43, con il suo dolore e la sua solitudine, di aiutare i partigiani. Il romanzo è ambientato nelle campagne emiliane e, se acquistate o vi fate dare in prestito l'edizione Einaudi, apprendete bene bene quella fondamentale parte di storia del Novecento compresa tra '43 e '45, che a scuola, purtroppo e abbastanza spesso, si approfondisce poco. Scoprite ad esempio che la Todt era un'impresa di costruzioni fondata da un ingegnere tedesco (Fritz Todt) al fine di ridurre la disoccupazione in Germania negli anni '30. Durante la guerra però, la Todt era divenuta un'organizzazione che costruiva esclusivamente fortezze militari lungo il Mediterraneo, l'Atlantico e l'Adriatico. 
Quanti di voi sanno cos'è il proclama di Alexander, generale americano?! Mi riferisco all'ottobre del '44, momento in cui americani, inglesi e sovietici prevedevano la sconfitta della Germania e dell'Italia. Gli Alleati sapevano benissimo che nell'Italia del Nord c'era una situazione di guerra civile e che i partigiani lottavano sì, ma lasciavano per sempre mogli e figli perché molti di loro morivano in modo terribile, sotto tortura oppure attraverso delle fucilazioni. Ma hanno aspettato a liberare il nord Italia, hanno fatto i loro comodi: "Qui in Italia noi stiamo bene, abbiamo la vittoria in mano. Per questo rimanderemo la vostra libertà alla primavera del '45." 
Ad ogni modo, ho voluto citare "L'Agnese va a morire" per il fatto che in quest'opera si accenna anche di torture e di persecuzioni, ma non in modo patetico bensì in un modo realistico, in cui emerge la volontà di "combattere e morire per la libertà".
3. Il ritorno a casa di Perlasca:
Nel '45, dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, Giorgio Perlasca era stato fatto prigioniero. Liberato dopo qualche giorno era rientrato finalmente in Italia passando per la Turchia.
Aveva poi scritto un memoriale sulle attività svolte che aveva inviato al Governo italiano e all'Ambasciata spagnola. Dopo la guerra, per molti anni, Perlasca aveva condotto uno stile di vita semplice, senza che nulla mai gli venisse riconosciuto e premiato.

4. Gli anni Ottanta: emerge la figura di un "giusto":

Arriviamo agli anni '80. Alcune donne ebree ungheresi, adolescenti all’epoca della Shoah, attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest, avevano chiesto notizie a proposito di un diplomatico spagnolo che durante la seconda guerra mondiale le aveva salvate. 
E' stato così che l'operato di Perlasca era riemerso dal silenzio e dall'alone grigio dell'indifferenza.
Le testimonianze delle sopravvissute sono numerose. Perlasca stesso accetta di recarsi in alcuni istituti scolastici per raccontare il suo generoso e rischioso periodo ungherese. 
Il 23 settembre 1989 viene proclamato dallo stato d'Israele "Giusto fra le Nazioni".  
Anche a Budapest, nel cortile della sinagoga, il nome di Perlasca appare in una lapide che riporta l'elenco dei Giusti. 

Questo signore è morto il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova.

24 febbraio 2020

Fake, misure protettive, letture e riflessioni letterarie in tempo di Coronavirus:



Il Coronavirus adesso è anche qui, nel Nord Italia. 
Sotto Natale e per tutto gennaio, i casi relativi a questa nuova infezione si registravano soprattutto in Cina e in Giappone. 
Venerdì scorso, giornali e telegiornali ci hanno informato a proposito di due focolai italiani Cov-19: uno a Codogno (provincia di Lodi) e l'altro a Vo' Euganeo (Provincia di Padova).
Sarebbe decisamente stupido paragonare il 2020 con il 1630, anno di feroce epidemia di peste bubbonica nel nord Italia. 
Anche perché il Corona è una malattia simile all'influenza e non prevede la comparsa di bubboni.
Oltre a ciò,  siamo in un'epoca completamente diversa, in cui le superstizioni sono state sostituite dalle fake news, e vi assicuro che qui in provincia di Verona ne circolano diverse a proposito del Corona-virus. Qui a Verona non c'è (almeno per adesso) nessun caso.
All'ospedale Pederzoli di Peschiera del Garda non è stato rilevato nessun caso di Coronavirus e anche qui, sulle colline moreniche, non sta succedendo nulla di eclatante.
Gli untori del XVII° secolo erano delle "suggestioni di terrore" del popolo ignorante. La razionalità storica lo chiarisce.
Gli "untori" di Cov-19 pare proprio che non esistano: ricordatevi che i cinesi che recentemente non sono stati in Cina sono esposti allo stesso nostro rischio. 

Ciò che spaventa, di questo Coronavirus, non è il tasso di mortalità (decisamente basso, al 2%) quanto piuttosto il fatto che in alcune zone della Lombardia e nelle province di Padova e di Venezia un certo numero di persone si sia ammalato senza aver mai frequentato dei cinesi e senza mai aver compiuto un viaggio in Cina.
Come è arrivato qui in Europa questo virus? Perché il numero di infetti continua a salire in Italia, soprattutto nelle zone della Lombardia occidentale? E' qualcosa che sfugge al nostro controllo, per questo scuole, università, biblioteche e centri sportivi sono chiusi per tutta questa settimana.
Anch'io sarei dovuta andare a lezione stamattina, invece sono a casa che mi porto un po' avanti con lo studio e con le letture, già in vista degli esami di giugno. 
"Le città invisibili" è una bella scoperta per me, lo sto leggendo, mi piace: originale, fantasioso e al contempo post-moderno e disincantato (le città di Maurilia e di Leonia soprattutto sono dei  tristi simboli di consumismo e di industrializzazione).

In tempi di Coronavirus si fa comunque bene a rileggere e alcuni estratti del romanzo di Manzoni.


Quando ho dato, in triennale, Letteratura italiana II, la prima domanda dell'esame orale è stata sull'inizio del capitolo 33, ovvero, il momento in cui Don Rodrigo scopre di essere ammalato.

CAP. XXXIII:
Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.

Il fedel Griso... Il fedel Griso da premio fedeltà!! Leggerete fra poco di quali grandi e lodevoli sacrifici è capace la fedeltà del Griso!
Per quel che riguarda Don Rodrigo, è veramente di pessimo gusto scherzare su un parente defunto. Don Rodrigo, in questo contesto, è decisamente insensibile... quale profondo rapporto c'era con un cugino che si ritrova a deridere? Don Rodrigo sembra uno studente universitario immaturo e sbandato, come ce ne sono diversi anche oggi: si diverte con dei "compagnoni" (compagnoni, non amici, è ben diverso) e uno dei suoi scopi principali di vita è quello di stordirsi. Don Rodrigo non è uomo né di pensiero né di azione. E' un viziato, un capriccioso, un debole che delega. Fa pietà in tutti i sensi questo signorotto. Fa pietà come nobile tiranno, perché vive in un palazzo con alcune crepe e con degli avvoltoi morti appesi all'ingresso, fa pietà come uomo, perché non vive veramente e non sa veramente amare, e infine fa pietà anche come malato, come appestato: perché è a partire da questo capitolo che egli si ritrova solo, di fronte alla propria condizione miserabile e sventurata.
Andiamo avanti con altri estratti:

Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico. “Sto bene, ve’,” disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. “Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca... mi dà una noia...!”              “Scherzi della vernaccia,” disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. “Ma vada a letto subito, chè il dormire le farà bene.”                                                                                  “Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta’ attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume,” riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. “Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!”. Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.

Partiamo da quel non aprì bocca, per tutta la strada. Partiamo da questa frase per copiare un'osservazione di Luigi Russo: "In questo paragrafo, non c'è soltanto la descrizione fisiologica della peste che cova nell'organismo, ma c'è anche il sentimento morale di un disagio, di una preoccupazione che, senza dichiararsi, va al di là del semplice malessere. Noi non ci sentiamo lontani dal sofferente, come avverrebbe, mettiamo, in una descrizione di tipo dannunziano volta tutta alla parte fisica. Il Manzoni ci ha avvicinato cristianamente a Don Rodrigo, anche se, sull'esempio dello scrittore, noi stessi assecondiamo e approviamo il corso fatale della malattia." Però Don Rodrigo, almeno in questo punto, cerca di dissimulare la gravità dei suoi sintomi, anche se sa di essere inserito in un periodo storico (Il Seicento) in cui le condizioni di vita erano già dure e molto precarie anche senza peste. Don Rodrigo è vittima della falsità e del sarcasmo del Griso, che gli dice: “Scherzi della vernaccia”. In realtà "il suo fido" si è già accorto del fatto che il nobilotto è appestato.

(...) 
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il 
caldo, cresciuta la smania.  Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, chè non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. “Largo canaglia!” gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorchè una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.

Una volta che l'ammirevole Griso ha lasciato la stanza del signore, quest'ultimo inizia ad agitarsi nel sonno. E c'è la descrizione di un sogno inquietante, che riconduce prima di tutto all'atteggiamento che Don Rodrigo ha avuto in vita, nella sua realtà quotidiana nei confronti della gente umile, del popolo: un atteggiamento scostante, di superiorità, di prepotenza e di minaccia “Largo canaglia!” (particolare importante: Don Rodrigo minaccia sempre attraverso i bravi, mai in prima persona). Nel sogno appare anche Fra' Cristoforo. Riporto ancora le parole di Luigi Russo: "La catastrofe del sogno si ha con l'apparizione di fra Cristoforo, la descrizione del fantasma del frate è di un umorismo tragico. Il frate, in principio è semplicemente un non so che di liscio, di convesso, di luccicante. (...) Poi diventa una testa pelata.(...) Tutti i particolari fisici del frate sono esasperati, di proposito, sono avviati quasi verso il grottesco. (...) Il fantasma di fra' Cristoforo non è tanto fra Cristoforo quanto la rifrazione dei sentimenti, del malessere, dei sospetti, delle paure di Don Rodrigo."  E io aggiungo soltanto che questo punto esatto del romanzo è riconducibile al finale del colloquio-duello Don Rodrigo-Fra' Cristoforo del capitolo VI°. In quel dialogo l'atmosfera è molto tesa e, ad un tratto, entrambi i personaggi perdono il controllo. Fra' Cristoforo urla: "Verrà un giorno", sventolando il rosario con il teschio, simbolo del "memento mori". E il giorno, o meglio, la notte, è arrivata, anche per Don Rodrigo. 

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
“Griso!” disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: “tu sei sempre stato il mio fido.”
“Sì, signore.”
“T’ho sempre fatto del bene.”
“Per sua bontà.”
“Di te mi posso fidare...!”
“Diavolo!”
“Sto male, Griso.”
“Me n’ero accorto.”
“Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.”
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.
“Non voglio fidarmi d’altri che di te,” riprese don Rodrigo: “fammi un piacere, Griso.”
“Comandi,” disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita.
“Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?”
“Lo so benissimo.”
“È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va’ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa’ la cosa bene, che nessun se n’avveda.”
“Ben pensato,” disse il Griso: “vo e torno subito.”

L'uomo si vede, ad un tratto, perduto, vicino alla fine, come accennavo anche prima. “tu sei sempre stato il mio fido.”, “T’ho sempre fatto del bene.”, “Di te mi posso fidare...!”, “Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.”... Patetico, veramente patetico! L'uomo, non l'aristocratico. Perché, come diceva anche Parini, siamo tutti uguali davanti alla morte. L'agonia e le tombe annullano le differenze tra le classi sociali. Don Rodrigo muore in un lazzeretto, come migliaia di altri popolani. E Fra' Cristoforo, tre capitoli dopo, invita Renzo ad avere compassione. Da qui capiamo che perdonare non significa dimenticare. Renzo e Lucia (ex appestati ma guariti), non potranno mai dimenticare che i capricci di Don Rodrigo hanno ritardato le loro nozze di quasi due anni. Ma in quei due anni Renzo è cresciuto, è divenuto più maturo. Certo, Renzo e Lucia non dimenticheranno, e questo lo testimonia anche il finale, quando si dice che i due coniugi, soprattutto lui, racconteranno le loro peripezie ai figli. I guai vengono da sé, ma con la fede in Dio si riesce ad affrontarli, sempre. Anche "in un mondo tristo". E senza provare odio per chi ci ha fatto del male, altrimenti facciamo del male a noi stessi. Sdraiato su una branda del lazzeretto Don Rodrigo appare, in tutta la sua fragilità e impotenza. Ma è mai stato veramente potente? 
(...) Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.  “Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato!” grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: “ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!”
“Tienlo bene, fin che lo portiam via,” disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.
“Scellerato!” urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. “Lasciatemi ammazzar quell’infame,” diceva quindi ai monatti, “e poi fate di me quel che volete.” Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perchè l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
“Sta’ buono, sta’ buono,” diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: “fate le cose da galantuomini!”
“Tu! tu!” mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, 
“ Tu! dopo...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! ” Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.
“ Tienilo forte, ” diceva l’altro monatto: “ è fuor di sé. ”
Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.

Avete capito fin dove si è spinta la fedeltà del Griso? Questa parte si spiega da sola. Dico soltanto che il Griso la paga cara presto. L'avidità è sempre severamente punita nella ferrea logica morale di Alessandro Manzoni. 
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Come tutti, mi ritrovo questa settimana senza impegni. Per via di giuste misure cautelari, tutti i miei programmi sono andati a rotoli, compresi i tre giorni di viaggio già prenotati in un centro termale trentino. Non credo proprio che a Levico mi/ci vogliano, visto che sono veneta e che in proprio in Veneto c'è uno dei due focolai italiani del virus. Sono stati da poco portati in ospedale tre lombardi, risultati positivi al Coronavirus, che in questi giorni soggiornavano in Trentino. Vorrà dire che probabilmente avrò un po' più di tempo per scrivere un secondo post entro la settimana.

19 febbraio 2020

"Le tre del mattino", Carofiglio:

Questo citato nel titolo è la mia più recente lettura.
Non è un romanzo di grande profondità ma è un'opera contemporanea italiana che io ritengo decisamente positiva per i contenuti e le tematiche che propone.


La trama, ambientata negli anni Ottanta, è molto semplice: Antonio, protagonista del romanzo, è un liceale senza amici che soffre di epilessia. A scuola non manifesta alcuna passione o particolare predisposizione per qualche materia. 
A dire il vero, all'inizio del percorso scolastico Antonio era un bambino brillante, soprattutto in disegno e in matematica. Ma il suo rendimento ha subito un forte calo dopo la separazione dei suoi genitori, avvenuta quando aveva nove anni. Per molto tempo, il protagonista ha nutrito un risentimento latente nei confronti della figura paterna.
Il ragazzo, a causa della sua malattia, è seguito dal signor Gastaut, un singolare neurologo francese, marsigliese per la precisione.
Una mattina di giugno, quando il padre accompagna il figlio a Marsiglia per una visita di controllo, il medico fa loro una proposta insolita. 
Dice: "All'ottanta per cento Antonio è guarito. Gli esami vanno bene, ma c'è ancora un controllo da fare per essere tranquilli."
Il controllo consiste in un esperimento: Antonio, per due notti consecutive non dovrà dormire (e prenderà delle apposite pillole per restare sveglio). Il dottor Gastaut prescrive questa prova per verificare come reagisce il cervello del ragazzo in condizioni di stress.
Preciso che questa procedura, chiamata "prova da scatenamento", è ora vietata dalla deontologia medica, ma fino a 30 anni fa era in vigore.
Costretti dunque a rimanere a Marsiglia per due giorni e due notti, padre e figlio hanno modo di parlarsi come mai avevano fatto prima per potersi conoscere meglio, sullo sfondo di una città da un lato affascinante per il paesaggio marittimo e alcune opere d'arte, dall'altro però pericolosa, soprattutto nei quartieri periferici, dove la polizia è violenta con gli immigrati.
La narrazione è tutta in prima persona, secondo il punto di vista di una persona che, in fase di crescita, si trova costretta ad accettare e a convivere per un po' di tempo con l'epilessia.

1. INIZIO ROMANZO:

Non so dire quando cominciò. Forse avevo sette anni, forse qualcosa di più, non ricordo con precisione. Da bambino non ti è chiaro cosa è normale e cosa non lo è. In realtà non ti è chiaro nemmeno quando sei adulto, a pensarci bene. 
(...) Insomma, più o meno una volta al mese, mi capitava una cosa strana e anche piuttosto angosciante. Senza preavviso e senza che fosse accaduto nulla, avvertivo un'impressione di assenza, di distacco da ciò che mi circondava e al tempo stesso un'amplificazione dei sensi. 
Di solito noi selezioniamo gli stimoli che vengono dal mondo esterno. Siamo circondati da odori, suoni e da ogni tipo d'entità visibili. Ma non siamo oggettivi (...) 
Il cervello decide quali percezioni portare alla consapevolezza e quali informazioni registrare. Il resto rimane fuori, escluso eppure molto presente.

... Intanto una prima considerazione per le ultime quattro righe... La selezione degli stimoli non è soltanto un concetto medico, anatomico e biologico ma anche linguistico e letterario.
Quotidianamente siamo sottoposti a una valanga di agenti e di fattori esterni percepibili dai nostri cinque sensi. Ma il cervello seleziona, sempre. A ciò allude Leopardi in alcuni passi dello Zibaldone e nel celeberrimo Infinito, quando mette a confronto, soprattutto nei primi versi, la limitatezza delle percezioni umane con la molteplicità e l'immensità della natura: 

"Ma sedendo e mirando, interminati/
Spazi di là da quella, e sovrumani/
Silenzi, e profondissima quiete/
Io nel pensier mi fingo; (...)"

* "di là da quella"= al di là della siepe, che copre una parte di paesaggio, ovvero, la parte più lontana dalla corporeità del poeta.

* "Io nel pensier mi fingo"= io immagino interminati spazi che la siepe nasconde. Il cervello umano immagina e raffigura, con la fantasia, ciò che qualcuno vorrebbe vedere.

Zanzotto è profondamente influenzato da Leopardi. E' un'influenza che si nota soprattutto nel saggio "Il paesaggio come Eros donativo", contenuto nel poeticissimo libro "Luoghi e paesaggi", che non ho potuto non leggere integralmente. 
Per Zanzotto, il paesaggio dovrebbe essere vissuto come dono dagli uomini, come un dono della natura. Lo scambio tra l'orizzonte vasto paesaggistico e l'orizzonte umano, debole e limitato, è come il rapporto tra Pòros (Ricchezza) e Penìa (povertà).


Zanzotto afferma inoltre che il paesaggio è costruito dalle percezioni soggettive, da mille cervelli che, a seconda dei loro vissuti, dei loro stati d'animo e dei loro sguardi, valorizzano alcuni elementi piuttosto che altri. E qui aggiungo un esempio: mi trovo in montagna con un gruppo di amici scalatori che, soprattutto in primavera e in estate, condividono con me l'hobby delle lunghe e faticose (ma sempre ripaganti in termine di bellezza) escursioni.
Siamo saliti sul Baldo, sulla cima di fianco al rifugio Telegrafo. Il panorama che si vede da lì (e siamo a poco più di 2000 mt sul livello del mare) è vastissimo. E' a 360°.
I miei occhi però valorizzano il celeste del lago di Garda che si trova molto più in giù e i riflessi del sole sull'acqua limpida. Gli occhi di qualcun altro magari possono risultare più attratti dalla natura più vicina, ovvero, dai fiorellini che spuntano nei prati, dalla forma rocciosa e articolata del Baldo, dai sentieri scoscesi e ripidi accanto, dalle nuvole che stanno percorrendo il cielo.

2. MA DAVVERO I TALENTI PIU' INCREDIBILI DELLA STORIA DELL'UMANITA' SOFFRIVANO DI EPILESSIA?

E' ciò che sostiene il dottor Gastaut durante il primo incontro con Antonio, quando rivela i suoi intenti di individuare dei possibili legami fra epilessia e talento.

"Moltissimi grandi personaggi erano epilettici. Solo per fare qualche esempio: Aristotele, Pascal, Edgar Allan Poe, Fedor Dostoevskij Georg Friedrich Handel, Giulio Cesare, Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, Isaac Newton, Molière, Lev Tolstoj, Leonardi Da Vinci (...)"

Premetto di non aver mai studiato nel dettaglio le biografie di questi geni europei. Però, questi discorsi, hanno un effetto positivo sull'adolescente che li ascolta:

"L'epilessia, da quando me l'avevano diagnosticata, era stata per me uno stigma di inferiorità, un marchio d'infamia da occultare. Il mio mondo interiore subì un movimento di rotazione attorno al proprio asse, come un passaggio dalla notte al giorno, dopo le parole di Gastaut, dopo aver ascoltato quell'elenco di geni che avevano avuto, a quanto pareva, un problema analogo al mio. Mi ero sentito un reietto e, d'un tratto, per la medesima ragione materiale, mi sentii quasi un eletto, membro di una categoria speciale di esseri superiori".

E in effetti Antonio sarebbe decisamente più intelligente rispetto alla media dei coetanei. 
Anche se è al penultimo anno di liceo scientifico e in matematica se la cava con il 6, a fine romanzo lo ritroviamo adulto e docente universitario di matematica, come suo padre. Riscopre, successivamente alla sua guarigione, il suo talento logico-scientifico. 

Intanto, in quei due giorni a Marsiglia, Antonio scopre che il padre, sin dalle medie, era ben determinato a studiare Matematica all'Università. Di ciò si stupisce. C'è una nota di ammirazione infatti in questo punto del romanzo, per la chiarezza d'idee del genitore.
Io alle medie sapevo soltanto che volevo iscrivermi al Liceo classico per approfondire le civiltà antiche, la storia dell'arte e la letteratura italiana. Ho frequentato non il classico tradizionale ma quello che, nell'ormai lontano 2009 (anno dei miei 14 anni), si chiamava "Liceo classico con storia dell'arte per tutto il quinquennio".
La scelta di iscrivermi poi a Lettere per poter diventare insegnante di letteratura è maturata un pochino dopo, verso i 16 anni quando, in un periodo difficile sia per le relazioni con le mie compagne sia per un problema serio in famiglia (il nonno moribondo, malato di cancro), trovavo dei momenti in cui, mentre studiavo i canti della "Commedia" di Dante i sonetti e gli scritti di Petrarca, mi commuovevo. Da allora la letteratura italiana ha iniziato a piacermi decisamente di più delle lingue classiche.

3. LA "JAM SESSION" DI JAZZ A MARSIGLIA:

Durante la prima notte di permanenza a Marsiglia, Antonio assiste ad un concerto di jazz con il padre, in uno dei quartieri periferici.
Un mese fa ci sono stata anch'io ad un concerto jazz. E' bellissimo, fidatevi. Socchiudi gli occhi immaginando di essere negli Stati Uniti degli anni Venti, nei salotti alto-borghesi con tende, tavolini rotondi e divanetti e... Scott Fitzgerald che da lontano ti sorride.
Ad ogni modo, durante quel lasso di tempo in cui padre e figlio ascoltano i brani suonati dai musicisti, Antonio scopre un lato del padre che non aveva mai notato né conosciuto prima: la passione per la musica e la velleità giovanile di diventare un buon musicista. 

Ad un certo punto infatti il padre gli dice:
"Negli anni di università con tre amici creammo un gruppo: pianoforte, batteria, contrabbasso e sassofono. Ci guadagnammo qualche soldo facendo le serate nelle sale da ballo, o ai matrimoni. Era divertente. Per anni abbiamo anche parlato di incidere un disco nostro. Poi ci siamo laureati e ognuno è andato per la sua strada, che non era la musica. 
(...) "

La "jam session", se non ricordo male, è un evento musicale tipico dei jazzisti: i musicisti si trovano in un locale per improvvisare su un repertorio di canzoni piuttosto conosciute in genere jazz, ad esempio "So what".
"So what" è la canzone che ad un tratto anche il padre di Antonio suona al piano, quando uno dei musicisti chiede al pubblico se qualcuno vuole suonare il piano e sostituire momentaneamente il pianista.


In contesto di jazz, i nostri due protagonisti di questa strana avventura parlano dei loro gusti musicali.
Ad Antonio piace "American Pie", che mi pare sia del 1961. 
Io la conosco, molti miei coetanei no. Ad essere sincera, io musicalmente vivo anche di Novecento oltre che di Duemila. Anche in ambito di romanzi e di opere letterarie: leggo più che altro opere del Novecento e qualcosa degli ultimi anni. 
Comunque, "American Pie" è un brano di Don McLean, cantautore statunitense che, in questo caso, attraverso un linguaggio metaforico allude ad un incidente aereo avvenuto due anni prima, nel '59, a causa del quale avevano perso la vita tre suoi amici musicisti.
Io mi ricordo alcune parti a memoria.
Inizia così: " A long, long  time ago... I can still remember how that music used to make me smile. But february mad me shiver with every paper I'd deliver. Bad news on the doorstep, I couldn't make one more step. I can't remember if I cried when I read about his widowed bride. But something touched me deep inside the day the music die. So bye, bye, Miss American Pie."

Ad ogni modo, anche dal punto di vista musicale risulto una ragazza un po' diversa rispetto ai miei coetanei.
Io dico: "Mille volte meglio James Blunt di Eminem, e in Italia Cremonini vale molto più di Fedez e di Achille Lauro."
Io sono cresciuta, ho voluto crescere più che altro con James Blunt oltre che con la colonna sonora di "Into the Wild".

Di James Blunt mi piacciono le tematiche di molte sue canzoni: 

A) La bellezza di una donna che per un istante colpisce in un mondo global di corse, non- luoghi e sovraffollamento (I saw an angel, of that I'm sure. She smiles me on the subway. She was with another man. I won't loose and sleep all night 'cause I've got a plan. You're beautiful, it's true. I saw your face in a crowded place. And I don't know what to do. Cause I'll never be with you.)

B) Una persona, forte e tenera al contempo, che si sta spegnendo a causa di una malattia ("As strong as you were, tender you go, I'm watching you breathing for the last time").

C) L'alba che sorge ("Beautiful dawn melt with the stars again") e il desiderio di condividere una vita intera con la persona amata ("Will you be my shoulder when I'm grey and older? Promise me tomorrow stars with you, getting hiiiiiigh!")

D) Riconoscere la "luce" della persona amata ogni giorno, e prometterle di starle vicino, di esserci sempre ("It's ok 'cause I know you shine even on a rainy day, I can find your halo, guides me to wherever you fall, if you need a hand to hall, I'll come running because you and I won't part till we die, you should know we see eye to eye, heart to heart").




10 febbraio 2020

"Il disagio di una ragazza per bene"- Articolo del sig. Cattabianchi finalmente uscito!

E' uscito finalmente! E' uscito il 7 febbraio, quando non ci speravo più. 
I contenuti sono molto simili a quelli che ho riportato in un post di dicembre 2019. 

Vi ricordo che mancano due giorni alla mia prossima presentazione.
Incollo qui sotto il volantino che vedete anche in copertina al blog:


Il responsabile del Caffé Venier mi sta aiutando molto con la propaganda.
L'incontro di mercoledì è più che altro pensato per la popolazione di Sommacampagna, ma se verrà anche gente da fuori chiaro che non mi offenderò, anzi... 
Ripeto che per me, poter avere delle occasioni di leggere alcune parti del mio libro e di incontrare lettori (ed eventuali lettori) equivale a dare una testimonianza di vita.

Quella di dopodomani è la quarta presentazione e non sarà certo l'ultima.

La presentazione del 14 giugno, come molti di voi lettori del mio blog sanno, si è svolta sempre a Sommacampagna, ma la maggior parte dei partecipanti proveniva da altri paesi vicini al mio.  
E' andata magnificamente, sia dal punto di vista delle vendite che dal punto di vista del coinvolgimento delle persone che mi ascoltavano: c'erano soprattutto molti colleghi ed ex- colleghi di lavoro dei miei genitori, quindi, tutte persone che da anni lavorano nelle scuole medie e che hanno davvero a cuore tematiche come bullismo ed emarginazione. 
Mi permetto di aggiungere una cosa, e tenete presente che sto parlando per esperienza personale: io credo che i docenti delle scuole medie in genere siano un po' più umani con gli allievi, più sensibili e più attenti a trovare delle soluzioni su come arginare in una classe delle dinamiche complesse e dolorose come le doppie facce, l'emarginazione di qualcuno, i pettegolezzi... 
Poi comunque non nego che alcuni docenti delle scuole superiori possano essere molto validi. Ho conosciuto anch'io di docenti seriamente impegnati.
Non ho avuto un'adolescenza facile, chi mi conosce bene e chi ha letto il mio libro ora lo sa. Per questo, dopo qualche anno alle medie, miro all'insegnamento nelle scuole superiori: perché, nell'età più critica della vita, gli emarginati e le emarginate per il loro modo di essere ci sono ancora (in effetti io non sono stata l'unica), e perché vorrei essere una figura adulta di riferimento seria in un'età difficile, di crescita, spesso contrassegnata da bassa autostima, confusione e facili cambiamenti di umore.
Lo dico e lo scrivo praticamente sempre: il mio compito non sarà soltanto quello di insegnare l'analisi logica, Dante, Manzoni, Pascoli... C'è anche molto altro. 
Io sono responsabile degli alunni che ho in una classe!
Anche se non riuscirò mai a comprendere fino in fondo le personalità dei miei alunni (li vedrò solo a scuola, la mia idea su di loro si basa esclusivamente sul loro comportamento a scuola), mi impegnerò per accorgermi di disagi vari. E opterò per dei seri provvedimenti, non soltanto punitivi, quando sarò in consiglio di classe, con la speranza di avere dei colleghi con un minimo di sale in zucca.
La mia missione quindi non sarà soltanto quella di trasmettere nozioni ma anche e soprattutto quella di formare delle "teste pensanti", per cui devo anche cercare di trasporre alcune delle tematiche contenute nei testi letterari di ottocento, settecento, duecento anni fa nell'attualità. 
Ad esempio, una lezione sul castello dell'Innominato può benissimo, a mio avviso, diventare lo spunto per un tema sulle sfaccettature della solitudine; un approfondimento tematico intertestuale sulla luna tra Tasso, Leopardi e D'Annunzio è un'occasione per poter assumere un atteggiamento critico nei confronti degli autori e, vi dirò di più, può anche diventare una risorsa per un tema sulla malinconia o sul tempo e la memoria.
Per come sono fatta tenderò a unire la parte di letteratura con quella della produzione scritta. I manuali scolastici di antologia e di storia della letteratura secondo me non devono essere considerati "altro" rispetto ai temi scritti.
Con me i cervelli degli adolescenti lavorano. E chi vuole lavorare non solo lavora ma anche, prima o poi, migliora!

Pochi di voi sanno che la sera del 31 agosto dell'estate passata, grazie soprattutto al grande interesse e al sincero supporto del direttore dell'hotel in cui io e alcuni miei familiari alloggiavamo per ferie, ho fatto una presentazione anche a Cavallino Treporti (VE).
Nel cortile dell'albergo, si intende, che tra l'altro è a circa 50 metri dalla spiaggia.
Era ancora estate, il clima era abbastanza caldo.
Anche questa è stata una bella gratificazione!! Le 15 copie che avevo portato sono state vendute tutte e, anche in quell'occasione, ho ricevuto una serie di complimenti.
Il direttore è stato veramente affabile: avendo due figli adolescenti, con lui si è deciso di svolgere la presentazione del mio libro a mo' di intervista.

A Peschiera, circa due mesi fa, è andata meno bene. Per carità, qualcuno c'era e l'interesse anche qui c'è stato, ma se sono riuscita a farmi apprezzare è stato perché sia io che mio zio abbiamo incontrato faccia a faccia diverse persone. Tuttora a Peschiera del Garda continuano a chiedermi copie del romanzo.

E ora il quarto incontro con la ex liceale invisibile è imminente! 

Quel che mi chiedo ora, abbastanza spesso, è la stessa domanda che Zanzotto faceva a se stesso da anziano: "A che valse?" 
Zanzotto se lo chiedeva a proposito delle sue poesie giovanili, io me lo domando a proposito della stesura del mio romanzo, o meglio, come dice anche Lino là sopra, del mio diario-romanzo.
A che valse? Era meglio dimenticare tutto ed evitare di scrivere?
Secondo me no. Era giusto "guarire scrivendo". Ironizzare, sdrammatizzare in alcuni punti era giusto prima di tutto per me stessa. 
Poi anche per essere d'aiuto ad altri che avevano vissuto sulla loro pelle derisioni ed esclusione. E infine anche per sfatare il vecchio e stupido mito del liceo classico, secondo il quale gli studenti che si iscrivono in questo indirizzo sono i più educati, i più bravi e i più volonterosi. Mito che poteva essere vero negli anni Sessanta!
Anche qui, come in tutte le altre scuole d'Italia e del mondo, dipende da chi è all'interno della classe. C'è classe e classe. E la scuola , almeno per come la penso io, la fanno prima di tutto gli insegnanti, con i loro metodi didattici e relazionali. Attraverso i professori gli alunni possono imparare anche dei valori di vita.

Certo, ci sono delle giornate in cui, quando penso ai momenti difficili della mia vita (perché, anche se per la componente adulta di lettori di questo blog, avrò "solo" 24 anni, almeno posso dire che nulla mi è stato regalato e che niente è stato facile) provo anche rabbia e malinconia. 
Ma poi dico a me stessa che non devo lamentarmi, visto che sono sicura delle mie idee e visto che il mio futuro me lo sto costruendo giorno per giorno, mese per mese, pian piano.

Ricordate l'ultimo mio post del mese scorso, quando avrei voluto dilungarmi su esempi positivi di giovani che vivono intensamente e per davvero la loro quotidianità?
Ecco, vi confido che, quando mi capita di pensare che finora la mia vita sia stata piena di delusioni e "di pesci in faccia", a volte mi smentisco e mi correggo: "Solo in parte è stato così". 
E qui mi viene in mente un ragazzo, vicino a me di età, che conosco.
Un ragazzo che, nonostante abbia vissuto alcuni anni fa un periodo veramente brutto, nonostante abbia dentro di sé quotidianamente un dramma che non sono assolutamente tenuta a rivelarvi per il grande rispetto che gli porto, non ha perso il sorriso.
E' simpatico, è genuino, è buono. Come se avesse "il sole dentro". 
Ed è soprattutto questo che credo sia fondamentale nella vita. La vasta cultura non salva l'anima. O meglio, non la salva se non si è né sensibili né appassionati.
Questo ragazzo lo scorso anno, oltre a lavorare, si è dedicato ad una serie di attività di volontariato. Ora ha ripreso gli studi.
Sapete qual'era la sua cena, una volta ritornato tardi a casa?! Una scodella di latte e un paio di toast al prosciutto cotto.

...Che tra l'altro, a proposito di sere, tra impegni vari e incontri con amici e con persone che non vedo da tempo, io questa settimana non ho una sera libera a parte stasera...