25 luglio 2014

"Philomena", film sulla forza del perdono

 

Ho visto questo film al cinema qualche mese fa. Mi è piaciuto molto e sono rimasta affascinata dalla personalità della protagonista. 

Il film è ambientato inizialmente negli Stati Uniti, dove Philomena Lee, donna anziana di origini irlandesi, confida alla figlia di essere rimasta incinta da adolescente a causa di una relazione avvenuta con un giovane che conosceva appena. Per questo motivo, la famiglia l'aveva cacciata di casa. Philomena allora si era rifugiata in un convento di suore, dove aveva partorito il figlio con parto podalico e senza antidolorifici. Il bambino era stato chiamato Anthony. Nel convento, Philomena era stata costretta, come molte altre ragazze madri, a svolgere lavori pesanti.
Pochi anni dopo, il figlio le viene sottratto dalla madre superiora (la suora direttrice del convento), che decide di darlo in adozione senza consultare Philomena.
Ricordo molto bene quella scena straziante in cui due signori ben vestiti fanno salire il povero bambino (piccolo piccolo, avrà avuto al massimo 4 anni al momento dell'adozione) su una carrozza, mentre Philomena urla disperata aggrappandosi alle sbarre del cancello del convento per non svenire dal dolore. Tutte le volte che ci penso mi vengono i brividi...



Nonostante siano passati molti anni, Philomena non vuole rinunciare all'idea di ritrovare Anthony e sua figlia le promette di aiutarla. Quest'ultima incontra casualmente in un bar il giornalista Martin e gli propone di aiutare la madre nella ricerca.
Martin incontra dunque la donna e inizia a farle molte domande sul suo passato e sul tipo di vita condotto dalle ragazze madri nel convento. Proprio su questo punto, emergono dalle memorie di Philomena particolari sconvolgenti e sconcertanti che fanno indignare il giornalista.
Martin è coltissimo dal punto di vista storico, pessimista riguardo alla vita umana, dichiaratamente ateo e Philomena invece dispone soltanto di un'istruzione elementare e coltiva un forte e sincero sentimento di fede religiosa. 
Mi ha molto sorpresa il fatto che due persone così diverse tra loro sapessero instaurare un profondo dialogo improntato sul rispetto reciproco, sulla solidarietà e sulla benevolenza.
E' importante rilevare che Philomena, pur non essendo colta, si dimostra davvero equilibrata e intelligente dal momento che riesce, pur vivendo un dolore lacerante, a non confondere Dio con coloro che credono di praticare i suoi precetti e di rappresentarlo manifestando in realtà comportamenti autoritari e indelicati.
E qui mi permetto di aprire un' importante parentesi: non mi piace il fatto che molta gente critichi troppo duramente i religiosi e i sacerdoti. Certo, soprattutto nelle epoche passate sono esistiti esponenti della Chiesa che, oltre a mancare di pietà cristiana, hanno manifestato un carattere duro e intollerante; ma non è giusto generalizzare.
Nel nostro presente i religiosi non sono tutti rigidi, incoerenti e inflessibili. Non proprio tutti. Affermo questo per esperienza personale: conosco ormai bene Don Giorgio Costa, parroco di Bussolengo, un paese vicino al mio. Don Giorgio è un'anima grande: è molto gentile, sensibile, sempre sorridente, aperto al dialogo. Tra l'altro, padroneggia bene la letteratura (pensate solo al fatto che di tanto in tanto cita Foscolo!). E' un sacerdote che sa trasmettere gli insegnamenti di Gesù con molto entusiasmo e con convinzione. Con me è sempre stato buonissimo: in effetti, per tutte le volte che gli chiedevo un colloquio, si è sempre dimostrato disponibile e non ha soltanto chiarito molti miei dubbi ma mi ha dato anche alcuni preziosi consigli. Gli devo davvero molto!!
Citerei anche Padre Ermes Ronchi, teologo di grande intelligenza, progressista  (e in effetti vorrebbe che anche alle donne venisse concesso il sacramento del sacerdozio). Dagli occhi di Padre Ermes traspaiono dolcezza, serenità, amore sincero verso il prossimo.
E comunque anche mio zio Don Attilio è un bravo parroco perché sa instaurare un buon rapporto con i giovani e inoltre non ha mai mancato di rispetto a nessuno dei suoi parrocchiani.

Dunque, dapprima Martin e Philomena si recano nel convento irlandese in cui la donna aveva dimorato per qualche tempo. Però, le religiose sostengono di non disporre di informazioni utili riguardo alle adozioni avvenute in passato dal momento che, secondo quanto riferiscono, i registri sarebbero stati incendiati casualmente molti anni prima. 
Ma, con il passare dei giorni, i due protagonisti apprendono da altre fonti che l'incendio non sarebbe stato affatto casuale e che in realtà i bambini, più che essere stati dati in adozione, erano stati venduti a famiglie benestanti.
Martin allora, grazie alla sua dimestichezza con i mezzi informatici, riesce a scoprire non soltanto che Anthony era stato adottato da due coniugi borghesi con il nome di Michael ma anche che era diventato un avvocato di successo, che era di orientamento omosessuale e che nel 1995, era morto di AIDS. Quest'ultima notizia crea una grande afflizione nell'animo di Philomena, la quale però, anziché prendere l'aereo per ritornare negli Stati Uniti, desidera cercare e incontrare tutte le persone che conoscevano suo figlio: tra queste, Mary, sorella di Michael che riferisce a Philomena quanto i loro genitori amassero Michael e quanto incoraggiassero la sua brillante intelligenza e il compagno di Michael, che riferisce il desiderio di quest'ultimo di conoscere le sue vere origini familiari.

Martin decide allora di ritornare al convento con Philomena e lì, i due protagonisti litigano con una suora molto anziana, convinta del fatto che Philomena meritasse di "pagare per il suo peccato" con la perdita del figlio. Martin si agita, arrossisce, urla contro la suora; ma Philomena riesce, con una pazienza e una mitezza ammirevoli, a calmarlo e poi dichiara il suo perdono alla religiosa. 
Ho trovato molto commovente la scena finale: Philomena trova la tomba del figlio nel giardino del convento e, tra amare lacrime, legge l'iscrizione riportata sulla lapide.

 

Capite ora il motivo per cui ho ammirato la protagonista? Nonostante la grave ingiustizia subìta, ha trovato la forza di perdonare coloro che le avevano fatto del male. Nel film la vediamo spesso sorridere e godere delle piccole cose quotidiane (per esempio, di un caffè al bar, della lettura di un romanzetto rosa) e ci accorgiamo che piuttosto frequentemente sorride tra le lacrime.  Il film mi ha insegnato che perdonare non significa "fare finta di non avere subìto dei torti". Quando qualcuno si impegna a perdonare propone a se stesso di non vendicarsi contro coloro che gli hanno fatto del male e di reprimere il rancore. Nel perdonare, Philomena è riuscita non soltanto ad alleviare il suo enorme dolore ma anche a vivere il resto della sua esistenza senza covare risentimenti. Ammirevole, davvero ammirevole!! Il perdono però richiede una grande forza d'animo. Una forza d'animo che anch'io vorrei avere. Faticare a perdonare è sempre stata una mia fragilità. Le relazioni sono difficili, è vero, ma in esse, quello che io trovo più difficile é imparare a perdonare. Poi è chiaro che il perdono non elimina le ferite dell'anima e non fa dimenticare un passato doloroso, ma permette a chi lo applica, di non alimentare né rabbia né odio verso chi gli ha fatto del male. Il perdono quindi è una gran cosa e fa stare meglio l'individuo. La rabbia e l'odio invece fanno molto male. In pratica, l'uomo che cova odio e rabbia vede il sangue che fuoriesce dalla propria ferita, sente il dolore e, di fronte a ciò, è capace soltanto di lamentarsi, mentre invece l'uomo che perdona è in grado soprattutto di pensare al modo in cui fasciare e cicatrizzare la ferita sanguinante. Non so se riuscite a capire...

Dopo la visione del film, ricordo che ero uscita dalla sala del cinema con gli occhi sbarrati e in auto con mia mamma per la strada del ritorno a casa, non ero in grado di formulare un commento, non sapevo cosa dire (cosa davvero insolita da parte mia, perché alla fine di un film o di un libro trovo sempre le parole per commentare ciò che ho visto o letto).  Certo mi rendo conto del fatto che le suore si sono comportate veramente male con le ragazze madri e con i loro figli; hanno agito da persone malvagie e insensibili. Ma mi ero indignata ancora di più per il comportamento dei familiari di Philomena: ma come si fa a cacciare di casa una ragazza incinta??!! Anche loro hanno mancato di carità cristiana e, soprattutto, di solidarietà e di rispetto verso una nuova vita. E la povera Philomena, a mio avviso, ha pagato troppo cara la sua "scappatella",dal momento che ha dovuto sperimentare molti travagli e molto dolore. Praticamente la sua adolescenza (la sua epoca spensierata) è terminata proprio con il concepimento del figlio. Come ho già detto anche in altri post, io credo che, da parte delle famiglie e della società, sia doveroso aiutare le ragazze madri e accogliere la vita che dimora in loro.



18 luglio 2014

Maturità: interessante articolo sugli esiti e riflessioni di una neo "maturata"

Quindici giorni fa sono usciti gli esiti finali degli esami di maturità. 
Recentemente, mio zio Attilio ha trovato sul quotidiano "Avvenire" un interessante articolo relativo a questo argomento. Leggendolo, l'ho trovato molto interessante e così ho deciso di pubblicarlo sul mio blog.

Ecco quanto dice:

"Caro "maturato" guarda oltre il voto
(lettera aperta a un candidato deluso)

​Sei dispiaciuto, lo so. Hai portato a casa meno di quello che speravi. Tutti i tuoi calcoli – i crediti accumulati nel triennio, sommati ai voti certi degli scritti e a quelli presunti degli orali – sono stati sconfessati: sul tabellone finale ti sei ritrovato meno di quanto ti aspettavi. E sei deluso. Succede, sai. Succede che il voto di maturità non rispecchi effettivamente il lavoro fatto durante i cinque anni e neanche l’impegno che ci hai messo. Potrebbe darsi che l’esame che hai sostenuto non sia stato davvero una buona prova e che le tue aspettative non fossero realistiche. Ti si offre in questo caso l’occasione buona per ripensare a cosa è successo e imparare a valutarti meglio, senza sovrastimarti o incolpare sempre gli altri. È questa una tentazione spesso presente in noi che non ci permette di riconoscere gli errori e quindi correggerci.
Potrebbe però essere intervenuto anche quello che potremmo chiamare il "fattore C", che questa volta non porta bene: il fattore commissione. La commissione infatti può essere inquinata da una serie di pregiudizi, in entrambe la sue componenti. I tuoi prof possono essere arrivati a questa tappa finale con l’immagine che si sono fatti di te e magari hanno guardato alla tua prova con occhi vecchi, senza valorizzare gli sforzi e coglierne magari l’originalità.  Quelli venuti da fuori, da parte loro, possono avere avuto i loro motivi per fare i duri: i pregiudizi sulla scuola che hai frequentato, l’incompatibilità con i colleghi che ti hanno accompagnato, la loro interpretazione del ruolo di commissario secondo uno schema un po’ troppo rigido. E tu ti sei trovato in mezzo. E magari è accaduto davvero che entrambi non ti abbiano dato quella soddisfazione che cercavi anche da loro. Adesso però non ti scoraggiare. Quella manciata di punti in meno, che oggi brucia, fra qualche anno diventerà un aneddoto da raccontare. Ma non è solo questo, conviene cercare anche il guadagno nascosto nell’esperienza che stai vivendo. Hai toccato con mano che non fai tutto tu da solo. Un esame, come moltissime altre cose nella vita, forse persino tutte, è fatto con un altro. Noi ci mettiamo la nostra parte, ma l’altro deve metterci la sua. E l’altro può anche mettercela male, deludere, non essere all’altezza.  Che ciò non ti sia di scandalo. L’altro, che diventa così importante nei nostri risultati, allora va propiziato, va messo in condizione di poterci capire e apprezzare. Non si tratta affatto di una attività manipolatoria, un gioco da furbetti che la sanno più lunga, quanto di imparare a saperci fare, a tenere l’altro dentro il nostro orizzonte. Perché si dia desiderio occorre infatti un altro, così come perché vi sia successo. E le volte che non sarà all’altezza, dopo aver valutato come lo abbiamo trattato in primis noi, ci toccherà ripartire con un rinnovato slancio per cercare qualcuno migliore.
Ecco, sta qui la soluzione. Ripartire. Guardare a ciò che verrà, ancora tutto da costruire. Non permettere che la delusione di oggi copra con un velo di scetticismo le scelte di domani. Adesso c’è da pensare al lavoro o all’università. C’è da pensare al futuro. Pensalo, allora. Dentro la consapevolezza che lo costruirai assieme agli altri che incontrerai, quelli che ti sceglierai tu stesso come compagni e quelli che ti verranno imposti dalle circostanze. Non poter fare a meno di loro non è una condanna, è una risorsa piuttosto. Falla fruttare.
Ma hai ragione, prima c’è da pensare alle vacanze. Si dice che l’estate della maturità sia indimenticabile, forse ancor più dell’esame stesso. Libero dai compiti, per una volta, goditi il tempo, senza sprecarlo. Rafforza i rapporti significativi, stringine altri interessanti, coltiva i tuoi interessi e le tue passioni. Magari leggi (persino) un libro. Sarà ancora più bello ripartire dopo l’estate. Senza strappi. Perché d’estate o d’inverno noi siamo sempre noi."


(L. Ballerini) 


Io condivido appieno l'opinione del giornalista. Mi piace soprattutto la seconda parte della lettera, dove esorta il suo ipotetico destinatario a progettare il futuro e quindi a prepararsi per ciò che lo attende nei prossimi anni, ad affrontare con entusiasmo nuove esperienze formative, a valorizzare la presenza delle altre persone nella vita quotidiana.
Apprezzo anche l'affermazione:" Noi ci mettiamo la nostra parte, ma l'altro deve metterci la sua".
I rapporti con gli altri sono difficili, soggetti spesso ad equivoci e incomprensioni.
Noi siamo protagonisti della nostra vita. Tuttavia, in ogni singola esperienza della nostra esistenza, dobbiamo impegnarci sia per raggiungere apprezzabili obiettivi sia per dare agli altri la migliore immagine di noi stessi. La buona riuscita di una prova o il conseguimento di una meta dipendono anche dai comportamenti che le altre persone assumono nei nostri confronti.


Io però, a queste teorie aggiungerei anche dell'altro: il voto di uscita è importante, ma relativamente. Non lo dico per sminuire il lavoro dei docenti o per disprezzare la figura del Presidente della Commissione o perché sono insoddisfatta del mio voto.
Sono passata con 81, quindi non posso proprio lamentarmi. Ho preso quello che meritavo e sono contenta così.
Affermo l'importanza relativa dell'esito finale essenzialmente per i seguenti motivi:

A) Qui parlo per esperienza personale: ultimamente mi capita spesso di incontrare i cugini di mia mamma, gli amici di famiglia e conoscenti. Ho notato questo: non appena io dico loro che sono una neo maturata, la stragrande maggioranza di queste persone mi fa domande di questo genere: "Che facoltà hai scelto?" "Dove andrai all'Università?" "Sei stata soddisfatta della tua esperienza al liceo?" e poi proseguono: "Ma sei proprio un'appassionata di lettere!!" "Buon inizio università!" "L'importante è che tu intraprenda un percorso di studi conforme ai tuoi interessi, poi per il posto di lavoro non preoccuparti; magari tra alcuni anni la situazione migliorerà!". Sono in pochi a chiedermi con quanto sono uscita. Da ciò ne consegue che l'importante è innanzitutto riuscire a diplomarsi. Un punteggio molto alto, per quanto elogiabile, costituisce esclusivamente una soddisfazione personale. 

B) Infatti il mio ragionamento è questo: il voto finale scaturisce soprattutto dai risultati dei tre scritti e dell'esame orale. Ma quello che un neo diplomato dovrebbe considerare attentamente è soprattutto quanto questi cinque anni di scuola superiore lo hanno aiutato a crescere mentalmente e culturalmente. Mi riferisco non soltanto all'adesione di uno studente ad alcune attività organizzate dalla scuola in orario extra-curricolare che gli hanno permesso di valorizzare i propri talenti ma anche alle uscite didattiche, al rendimento scolastico attraverso il quale ha potuto comprendere le proprie attitudini... 
Inoltre, bisogna attribuire importanza alle lezioni svolte in classe, alle figure significative e intelligenti di alcuni insegnanti che hanno saputo guidare la crescita spirituale di uno studente coniugando, durante le spiegazioni, la cultura scolastica con la vita reale e con l'etica. E poi ci sono stati anche i compagni di classe che non sono stati scelti dallo studente poco prima di iniziare il quinquennio: è utile valutare e ricordare non soltanto le avventure vissute con i più simpatici e con i più vivaci tra loro, le chiacchierate avvenute con quelli particolarmente dotati di una grande capacità di ascolto e di una notevole apertura mentale, ma anche i litigi con persone profondamente diverse da noi che non condividevano le nostre opinioni o che ci riservavano una vera e propria avversione e invidia.
Tutte le esperienze che questo quinquennio ha riservato ad un giovane dovrebbero rimanere impresse nella memoria, anche le più negative. Tutte le esperienze del liceo dovrebbero costituire dei preziosi insegnamenti di vita e di convivenza con gli altri. 
Io in quest'ultimo periodo ripenso, ora con gioia, ora con rabbia, ora con indignazione, ora con soddisfazione a molti episodi che ho vissuto in questi anni intensi. E devo ammettere di aver imparato molto anche dagli avvenimenti negativi.


Ora sta per iniziare "l'estate della mia vita", ovvero, la giovinezza dopo l'adolescenza, seguita poi dall'età adulta. E non intendo sprecare nemmeno un istante di questa vita, vorrei godere di ogni attimo (questo mi ha insegnato Orazio!!)

Ma ora è proprio meglio che pensi a godermi l'estate. Ed è quello che già sto facendo, perché le mie giornate sono piene, piene di attività e di piacevoli passatempi...


11 luglio 2014

SREBRENICA,1995: PER NON DIMENTICARE MAI...


DICIANNOVESIMO ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI SREBRENICA:

 
L'11 luglio del 1995, Ratko Mladic, comandante delle truppe serbe, penetrò nella città di Srebrenica e fece arrestare l'intera popolazione maschile. 
In quel giorno vennero massacrati 8372 uomini, di cui 4792 giovani ragazzi di età compresa tra i 14 e i 25 anni.  Proprio in loro onore ho scritto una poesia che, nel giugno 2014, ha ricevuto il secondo premio al Concorso "Valeggio Futura".



ADDIO RAGAZZO!

Addio, ragazzo!

I tuoi grandi occhi

luminosi

come le stelle

che rischiarano la notte,

non vedranno

mai più

i dolci colori del tramonto,

i delicati petali

di piccoli fiori,

gli amabili volti

delle persone care.




Addio, ragazzo!

Il tuo corpo

ora trema

come una foglia

scossa

con violenza

da un gelido vento autunnale

e subisce

le ingiurie

di mani impietose e implacabili.




Addio, ragazzo!

Le tue braccia

non potranno

mai più

stringere

le persone che ami.




Addio, ragazzo!

Del tuo limpido sorriso

non godrà più

la brillante luna

che risvegliava

i tuoi innocenti desideri.





Addio, ragazzo!

I tuoi sogni

svaniranno

per sempre

come una leggera nube

di fumo

che si solleva

verso l'alto cielo

e si dilegua nell'aria.



Addio, ragazzo!





Ecco il commento che la Giuria del Concorso ha scritto per la mia lirica:
"Il testo ripercorre il dramma della Strage dei giovani di Srebrenica attraverso l'annientamento degli occhi, del corpo, delle braccia, del sorriso e infine dei sogni. Il ritmo cadenzato dell'ostinata denuncia "Addio ragazzo" accompagna lo spegnersi della vita".

 Vi esorto caldamente a ricordare questa terribile strage al fine di progettare un mondo migliore,  fondato sui valori della giustizia e della pace. 



5 luglio 2014

"Sostiene Pereira": una dura critica alle dittature


"Sostiene Pereira" è un avvincente romanzo ambientato a Lisbona durante il terribile periodo del regime dittatoriale salazarista.

Mi sento ora in dovere di aprire una breve parentesi storica a proposito della dittatura portoghese.

All'inizio degli anni trenta, il Portogallo era governato da politici liberali, che, nonostante avessero instaurato un governo democratico, non erano in grado di sanare la disastrosa situazione economica del Paese e si dimostravano incapaci di placare violente rivolte sociali.
In questo contesto, il generale Antonio Salazar, dirigente di un piccolo partito nazionalista, sollecitò le truppe del suo esercito a  ribellarsi contro il governo. I militari riuscirono a rovesciare le istituzioni e il loro generale divenne dunque capo assoluto del governo. Il periodo della sua dittatura durò dal 1932 al 1968. Salazar, simpatizzante dell'ideologia fascista, introdusse diverse strutture già create da Mussolini, quali:il corporativismo, la propaganda, il saluto romano, l' inquadramento della società in organizzazioni paramilitari, la limitazione della libertà di stampa e l'abolizione della libertà di opinione. Salazar istituì anche la polizia segreta, ovvero, la PIDE (Polizia Internazionale di Difesa dello Stato) incaricata di arrestare e di assassinare gli oppositori e i presunti ribelli.

Dunque, il romanzo è ambientato nel 1938 e il protagonista è il signor Pereira, giornalista incaricato di curare la rubrica culturale di un quotidiano chiamato "Lisboa".
Nei primi capitoli del romanzo, Pereira appare come un uomo mediocre, privo di senso critico, indifferente nei confronti della situazione politica del suo paese. La sua vita è monotona, priva di amicizie, caratterizzata soltanto dal lavoro alla redazione, dai lauti pasti al Café Orquidea (che tra l'altro sono la causa principale della sua obesità e della sua cardiopatia!) e dal triste ricordo della moglie, morta qualche tempo prima di tubercolosi. Pereira parla tutte le sere al ritratto della moglie, confidando i suoi pensieri e chiedendo consigli.
All'inizio del terzo capitolo, viene raccontata brevemente la gioventù di Pereira. Egli, da ragazzo e da studente universitario alla facoltà di lettere, suonava la viola durante le feste studentesche, era attraente, magro e agile, e perdutamente innamorato di una ragazza (quella che poi era divenuta sua moglie) che scriveva poesie ed era gracile e pallida.


Una mattina Pereira legge un interessante articolo che contiene delle riflessioni sulla morte e, incuriosito dal contenuto, decide di contattare l'autore per offrirgli un posto come collaboratore esterno della pagina culturale del "Lisboa". Lo scrittore dell'articolo, di nome Francesco Monteiro Rossi, giovane neo laureato in filosofia e di origini italiane, accetta con entusiasmo il nuovo posto di lavoro.
Pereira però gli affida uno strano compito: scrivere dei necrologi anticipati di celebri letterati ancora in vita; in modo tale che siano subito pubblicabili in caso della loro morte improvvisa.
Monteiro scrive dapprima il necrologio di D'Annunzio, contestando duramente la sua adesione al fascismo. Il giovane scrive poi altri necrologi nei quali contesta le posizioni politiche di altri scrittori. 
Pereira giudica impubblicabili i suoi necrologi, dal momento che esprimono una forte avversione verso il regime. Ma Monteiro, influenzato anche dallo spirito rivoluzionario della sua fidanzata Marta, contesta la sua neutralità e la sua indifferenza nei confronti della violenza dittatoriale. 

Grazie alla conoscenza con Monteiro e Marta, Pereira inizia a dubitare del suo stile di vita. Nasce dunque dentro di lui un forte conflitto interiore, dal momento che è combattuto tra il desiderio di aiutare i giovani antifascisti e la preoccupazione di ritrovarsi coinvolto in pericolose questioni politiche.

Qualche tempo dopo Pereira si reca in ferie presso una clinica talassoterapica, per cercare di curare la sua cardiopatia. Proprio in quel luogo incontra il dottor Cardoso, che gli consiglia di fare i bagni alle alghe. Tra i due uomini si instaura un buon rapporto di amicizia: Pereira confida al dottore il suo travaglio interiore. Il dottore pensa che l'inquietudine di Pereira potrebbe dare origine ad un grande cambiamento nella sua vita.

Man mano che il tempo scorre, il protagonista diviene sempre più consapevole del clima intimidatorio creato dal regime, della violenza, delle sanguinose lotte sociali, della pesantissima censura di stampa. E, proprio per questo, decide infine di aiutare Monteiro, che nel frattempo ha partecipato agli scontri tra repubblicani antifascisti e salazaristi. Pereira infatti accetta di ospitarlo e di nasconderlo nella sua dimora, per proteggerlo dal momento che il giovane è ricercato dalla polizia salazarista.
Una notte, due individui aggressivi, dichiarandosi uomini della polizia politica, entrano con la forza in casa di Pereira e lo picchiano a sangue. Poi, scoprono Monteiro e lo uccidono brutalmente.

Sconvolto da questo atroce omicidio, Pereira scrive per la pagina culturale del Lisboa il necrologio di Monteiro Rossi, accompagnato da un articolo di palese denuncia verso le atrocità del regime e, con un astuto stratagemma riesce a farlo pubblicare. Dopo aver preparato in fretta le valigie, decide di fuggire immediatamente dal Portogallo.
Alla fine del libro, l'autore racconta che Pereira è vissuto in Francia fino alla metà degli anni novanta e che là ha continuato a praticare la sua attività di giornalista.

Il finale rivela proprio la metamorfosi del protagonista: da individuo indolente, passivo ed esasperatamente abitudinario a uomo ribelle, coraggioso e promotore di giustizia.
  • PRECISAZIONE: Il sintagma "Sostiene Pereira" viene ripetuto molte volte nel corso della narrazione, come se l'autore avesse scritto il romanzo con Pereira presente e come se dovesse rilasciare la deposizione del personaggio protagonista.



LA CONCEZIONE DELLA LETTERATURA DEL PROTAGONISTA: Lo so, mi sta venendo un post chilometrico, come al solito d'altronde, ma ritengo giusto soffermarmi anche su questo aspetto del libro.
 Dunque in questa vicenda traspare anche la concezione della letteratura del protagonista che, nella prima parte del libro, afferma: «non è facile fare del proprio meglio in un paese come questo … io non sono Thomas Mann». Queste sono parole di rassegnazione, di passività e, potremmo anche dire, di automortificazione. Con questo discorso Pereira è convinto che sia impossibile attuare processi di ribellione da parte degli intellettuali verso il governo. 
Però, dopo la metà del romanzo, per il nostro giornalista la letteratura diviene parte integrante della storia. Egli infatti asserisce: «Se loro (i salazaristi) avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso aver studiato lettere a Coimbra e aver sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione, non avrebbe senso più nulla ed è di questo che sento il bisogno di pentirmi...». Qui invece il protagonista è consapevole del proprio ruolo di coscienza critica della società e in queste parole, valorizza la letteratura come attività che valuta scrupolosamente gli eventi storici per poi far riflettere il lettore sul presente.