30 ottobre 2014

"Le tasche piene di sassi ", Jovanotti


E' una delle mie canzoni preferite. Penso anche che sia uno dei brani più espressivi della musica italiana contemporanea.
Scritto e interpretato da Jovanotti, il brano è dedicato alla madre Viola, scomparsa nell'estate 2010.
"Le tasche piene di sassi" è un successo del 2011. Il video musicale è stato postato sul canale Youtube di Jovanotti il 24 marzo 2011.
Il cantautore ha descritto così il video: « Lo spettatore che lo vedrà non sentirà quello che io dico e non mi vedrà nemmeno cantare. Vedrà un uomo da solo, al buio, illuminato solo da un occhio di bue che racconta una storia ad un pubblico in penombra, racconta una storia che è la vita, racconta forse la sua vita, forse racconta la vita di quelli tra il pubblico »

E in effetti, questa canzone penetra nelle corde della mia anima, mi fa piangere, racconta anche i miei sentimenti e la mia vita, esprime la profonda malinconia che provo nei momenti "grigi", quando penso a delle persone care che se ne sono andate, quando rifletto su altri eventi tragici e sconvolgenti che non sono capace di spiegare a me stessa... Non riesco proprio ad accettare certe cose, come ad esempio la morte di un ragazzo o la morte di una giovane madre di famiglia. Nel senso che le vivo come due grandi ingiustizie.

Con queste parole inizia la canzone:" Volano le libellule sopra gli stagni e le pozzanghere in città, sembra che se ne freghino della ricchezza che ora viene e dopo va." Ogni volta che penso a questa frase immagino di trovarmi in campagna dove, delle libellule graziose e leggere, sfiorano le fresche acque di un ruscello che scorre accanto ad un campo gremito di fiori.
Le libellule non si preoccupano del denaro, del prestigio personale. Sono, come ho già detto poco sopra, leggere. Volano in mezzo alla bellezza della natura...

Poi, all'inizio della seconda strofa, c'è un'altra bellissima frase: "Sbocciano, i fiori sbocciano e danno tutto quel che hanno in libertà: donano, non si interessano, di ricompense e tutto quello che verrà." Ed è proprio qui che, almeno a me, viene da stabilire un'analogia tra questi fiori che donano senza aspettarsi ricompense e la figura della madre. Anche la madre è come questi fiori: dona se stessa, dedica la sua stessa vita ai figli, li copre quando fa freddo, dà a loro del cibo quando sono affamati, li custodisce e li protegge dai pericoli. Per tutte queste amorevoli attenzioni, la madre non si aspetta ricompense in denaro da parte di coloro che sono "carne della sua stessa carne". Fa tutto questo senza pretendere di essere pagata dai propri figli. 

Donare senza pretendere di ricevere qualcosa in cambio... ecco la legge dell'amore.

Il meraviglioso ritornello:
"Sono solo stasera senza di te, mi hai lasciato da solo davanti al cielo. E non so leggere, vienimi a prendere, mi riconosci ho le tasche piene di sassi. Sono solo stasera senza di te, mi hai lasciato da solo davanti a scuola; mi vien da piangere, arriva subito, mi riconosci ho le scarpe piene di passi, la faccia piena di schiaffi, il cuore pieno di battiti e gli occhi pieni di te."


Canterei anch'io così se mia mamma morisse, se non potessi più vedere il suo luminoso sorriso, se non potessi più ascoltare i suoi ottimi consigli, se non potessi più confidarle tutto quello che mi passa per la testa... Lei è troppo importante per me, davvero, forse non immagina nemmeno il gran bene che le voglio. 
Comunque ci si sente così, quando una persona cara se ne va per sempre: ci si sente soli e smarriti di fronte all'immensità del cielo, incapaci di affrontare il futuro, indifesi di fronte agli  "schiaffi" e alle "bastonate" della vita.



E i nostri occhi, disperati e tristi, portano il ricordo di quella persona che non c'è più...



22 ottobre 2014

... In onore di Paolo VI



Domenica 19 ottobre è stato beatificato Paolo VI, pontefice dal carattere mite e riflessivo, dotato di una notevole apertura mentale. Avrei tanto voluto conoscerlo...
Colgo l'occasione per scrivere un post sugli avvenimenti più significativi della sua vita.

Giovanni Battista Montini nacque nel 1897 a Concesio, un piccolo paese in provincia di Brescia. Suo padre, Giorgio Montini, era un avvocato.
Nel 1916, dopo aver ottenuto il diploma di maturità classica presso il liceo statale "Arnaldo da Brescia", si iscrisse al seminario della sua città.
Negli anni venti collaborò con il periodico studentesco "La Fionda", pubblicando diversi articoli dai contenuti profondi ed eloquenti. Scrisse, ad esempio, a novembre del 1918:

«Guai a chi abusa della vita. Quando la mano creatrice di Dio delineava 
in un ordine meraviglioso i confini della vita, poneva altresì custode 
di questi confini la morte, vindice di quanti li avrebbero 
varcati in cerca di vita più ampia, di felicità maggiore.»

Il 29 maggio 1920 venne ordinato sacerdote nel duomo di Brescia e, pochi mesi più tardi si trasferì a Roma, dove, nel 1925, conseguì ben tre lauree: in Filosofia alla Sapienza, in Diritto Canonico (ambito relativo alle norme giuridiche formulate dalla Chiesa, funzionali a regolare l’attività dei fedeli) e in Diritto Civile alla Pontifìcia Università Gregoriana.
Nel 1958 venne eletto papa Giovanni XXIII. Durante il pontificato di quest'ultimo, Montini venne attivamente coinvolto soprattutto nei lavori preparatori del Concilio Vaticano II, aperto con una solenne celebrazione l'11 ottobre 1962. 
Nel giugno del 1963, alla morte di papa Roncalli, il Conclave elesse Montini, che assunse il nome di Paolo VI. Di fronte ad una realtà sociale che tendeva sempre più a separarsi dalla spiritualità e a contestare il tradizionalismo della Chiesa Cattolica, il nuovo papa seppe mostrarsi aperto alle novità, proponendo degli ottimi valori quali: la difesa della vita, il bene comune, la solidarietà, la pace, la concordia e l'umiltà. Basti pensare che, nel 1964, egli rinunciò all'utilizzo della corona papale. Infatti, la vendette allo scopo di aiutare, con il ricavato, i più bisognosi.
Proseguì il Concilio Vaticano II, promuovendo molte iniziative a favore della modernizzazione della chiesa. Sempre nel 1964, viaggiò in Terrasanta non soltanto per visitare i luoghi in cui Cristo era vissuto, ma anche per incontrare il patriarca ortodosso Atenagora I. Dal loro incontro scaturì la
"Dichiarazione Comune cattolico-ortodossa", documento che favorì la riconciliazione tra cattolici e ortodossi, precisando che lo scambio di scomuniche avvenuto fra Papa Leone IX ed il patriarca Michele Cerulario nel 1054, doveva essere inteso valido soltanto fra le due persone interessate e non fra le due Chiese. Tale scambio di scomuniche non doveva infrangere la comunione ecclesiale.
Nel 1966 Paolo VI abolì "l'indice dei libri proibiti" (l'elenco delle pubblicazioni proibite dalla Chiesa Cattolica, esistente già nel 1558 per opera di Paolo IV).
Il 1 gennaio 1968 istituì la "Giornata Mondiale della pace", dedicata alla preghiera e alla sensibilizzazione per favorire la pace nel mondo.
Nello stesso anno, venne divulgata l'enciclica "Humanae Vitae", dedicata ai temi della procreazione, dell'aborto e della contraccezione. Questa enciclica era stata frutto di molte riflessioni di carattere morale da parte del papa stesso, che, tra l'altro, aveva deciso di avvalersi anche dell'aiuto di una Commissione di Studio. Dopo molti mesi di discussioni, Paolo VI formulò la sua teoria nell'enciclica, affermando che il significato unitivo e quello procreativo sono strettamente legati in un rapporto coniugale ed esprimendo il suo dissenso nei confronti di alcuni metodi funzionali alla regolazione della natalità, quali l'aborto e la sterilizzazione.

Ecco qui una parte dell'enciclica:
« Richiamando gli uomini all'osservanza delle norme della legge naturale, 
 interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi 
atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita. 
[...] In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e 
cristiana sul matrimonio, dobbiamo ancora una volta dichiarare 
che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione 
delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato.  
È parimenti da condannare, come il magistero della Chiesa ha più volte 
dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, 
tanto dell’uomo che della donna. È altresì esclusa ogni azione che, 
o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello 
sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o 
come mezzo, di impedire la procreazione. »
(Paolo VI, " Humanae vitae")

Naturalmente, queste idee suscitarono numerose critiche da parte dei laici e di molti cattolici.  Ma egli seppe rispondere prontamente alle contestazioni:
«Noi portiamo il peso dell'umanità presente e futura. Bisogna pur comprendere che, se l'uomo accetta di dissociare nell'amore il piacere dalla procreazione (e certamente oggi lo si può dissociare facilmente), se dunque si può prendere a parte il piacere, come si prende una tazza di caffè, se la donna sistemando un apparecchio o prendendo ‘una medicina’ diventa per l'uomo un oggetto, uno strumento, al di fuori della spontaneità, delle tenerezze e delle delicatezze dell'amore, allora non si comprende perché questo modo di procedere (consentito nel matrimonio) sia proibito fuori dal matrimonio. La Chiesa di Cristo, che noi rappresentiamo su questa terra, se cessasse di subordinare il piacere all'amore e l'amore alla procreazione, favorirebbe una snaturazione erotica dell'umanità, che avrebbe per legge soltanto il piacere.»

Il 16 aprile 1978 scrisse una lettera alle Brigate Rosse, implorando la liberazione del politico Aldo Moro... purtroppo però, le sue parole furono vane, perché lo statista venne assassinato dopo una lunga prigionia. Il 13 maggio nella basilica di San Giovanni in Laterano partecipò, addolorato e sconvolto, alla Messa in suffragio dello statista assassinato, pronunciando una solenne preghiera:
"Signore, ascoltaci! Chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l'incolumità di Aldo Moro, di quest'uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Fa', o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale, e noi tuttora viventi, in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. La nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! (..) Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell'Infinito Iddio, noi li rivedremo! (...) O Signore, fa' che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l'oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo uomo carissimo e a quelli che hanno subito la medesima sorte crudele (...)"
Il 6 agosto 1978,  morì a causa di un edema polmonare.
Volle un funerale sobrio, senza riti particolari. Lasciò scritto, infatti, circa i suoi funerali:
 «[...] siano funerali pii e semplici. La tomba: amerei che fosse 
nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e
 inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me.»
(Paolo VI, Testamento)

La sua bara era priva di decori, deposta a terra sul sagrato di Piazza San Pietro. Sopra di essa, venne collocato un Vangelo aperto e sfogliato dal vento. Fu la prima volta che il funerale di un Pontefice si svolse con un rito così sobrio.


16 ottobre 2014

"Il mio compagno di banco", racconto che illustra l'attaccamento morboso tra due adolescenti


Circa due anni fa, la mia insegnante di storia e filosofia aveva consigliato ai ragazzi che partecipavano al "Circolo Firmino" un libro intitolato "Dentro" e composto da tre lunghi racconti, scritti da Sandro Bonvissuto, autore romano che io ho avuto anche il piacere di conoscere e di intervistare durante un incontro culturale.
Il racconto che mi ha colpita di più è stato il secondo, intitolato "Il mio compagno di banco", i cui protagonisti erano due ragazzini poco più giovani di me.
In questi giorni, mentre lo rileggevo, ho provato le stesse impressioni di due anni fa.

CONTENUTO DELLA STORIA:

Dunque, è il primo giorno di liceo e un ragazzino, che è la voce narrante, si appresta ad entrare nella sua nuova classe. Una volta varcato l'ingresso dell'aula, egli avverte una sensazione di disagio dovuta al fatto che, per un istante, i suoi compagni interrompono le loro chiacchiere e lo scrutano con aria interrogativa.  "... mi guardavano tutti. E così li guardai anch'io. In una temporanea bolla di silenzio. Come quando entri nella sala d'attesa di uno studio medico e c'è altra gente. Arrivi e tutti ti guardano con aria sorpresa, interrogativa. Pensano chi sei, che vuoi. E che comunque loro ci stavano prima di te. E tu pure li guardi mentre ti guardano e pensi che non dovrebbero guardarti così perché non stai facendo niente di strano e ragionevolmente sei lì per lo stesso motivo. (...) Quella però non era la sala d'attesa del dottore ma l'aula di un liceo, e non importava chi fosse arrivato prima e chi dopo. (...) "
Una volta appoggiatosi sulla parete in fondo all'aula, il protagonista rimane immobile ad osservare la gioia che manifestano i suoi compagni e pensa a un quadro di Renoir che raffigura "delle persone allegre che stanno in un posto a fare qualcosa. Dopo un po' che le osservi, ti rendi conto che l'immagine è effettivamente bella e serena, ma capisci che purtroppo tu non sei lì con loro. Sei in un altro posto. Li guardi da spettatore. E perciò, dal momento che non sei nel dipinto, non c'è nessuna ragione che tu sia spensierato e allegro. E' come se il fatto stesso di non essere parte del quadro ti escludesse dall'emozione raffigurata."
Quando ho riletto queste righe, ho pensato subito a uno dei dipinti di Renoir intitolato "Le Moulin del la Galette", che ritrae un ballo popolare all'aperto nei pressi di un vecchio mulino situato in un quartiere di Parigi. In quel quadro vengono raffigurate moltissime persone: alcuni danzano al suono di una piccola orchestra, altri chiacchierano seduti attorno a un tavolino, altri ancora volgono gli sguardi in una certa direzione... nessun personaggio risulta isolato, proprio perché è inserito in un determinato gruppo. Lo spettatore osserva il clima festoso e sereno ma naturalmente è al di fuori del contesto.
Chissà se Bonvissuto, nel momento in cui scriveva queste frasi, pensava davvero al "Le Moulin de la Galette"o ad altre opere di questo grande pittore impressionista...
Il racconto prosegue con l'ingresso in classe di un insegnante, che ordina ai ragazzi di sedersi immediatamente. "Erano proprio tutti seduti, ognuno accanto ad un compagno. Anch'io."
Il protagonista osserva incuriosito il suo compagno di banco dagli occhi "scuri e pieni che scintillavano come sanno fare soltanto le cose scure". I due ragazzini iniziano a conoscersi e alla fine delle lezioni tornano a casa con lo stesso autobus. Con il passare dei mesi, i due ragazzini diventano sempre più una cosa sola: prendono gli stessi mezzi di trasporto per raggiungere l'istituto scolastico, si dividono i libri, stanno sempre seduti uno vicino all'altro e, alla fine dell'anno, si fanno rimandare proprio nelle stesse materie, "Una sola cosa a scuola sembrava costituire per noi un serio pericolo: la scuola stessa. Era lei che voleva costringerci a prendere strade diverse, spingendoci a manifestare le nostre attitudini personali. (...) Così, quando fu chiaro che non avevamo lo stesso rendimento nelle singole materie e che uno solo dei due sarebbe stato rimandato, decidemmo che si sarebbe fatto rimandare anche l'altro..."
All'inizio del secondo anno di liceo, quando la classe viene messa in una nuova aula, i due ragazzi portano con loro il banco dietro al quale si erano seduti l'anno precedente. " quel banco era per noi come il terzo escluso. La prima cosa oltre noi due. (...) Per noi era una placenta gemellare."    Un giorno però, il loro banco viene rimosso dall'aula e ammucchiato nel deposito dei rottami della scuola, in quanto vecchio e brutto. Senza quel banco i due ragazzi si sentono demotivati e decidono di smettere di frequentare la scuola, passando le loro mattine in una struttura ricreativa o nei giardini delle ville comunali. Alla fine dell'anno entrambi vengono bocciati.




COMMENTO:

"Doveva essere stata proprio quella vicinanza coatta dal primo giorno di scuola, quella prossimità, che ci aveva imbevuti l'uno dell'altro, in una misura irreversibile e quindi già subito definitiva. Esiste un meccanismo fisico che potrebbe spiegare ciò che era successo. Si chiama "osmosi". Ma è possibile che si sia trattato di una cosa più radicale, come quando prendi due bottiglie piene, le svuoti dentro a un secchio e poi le riempi di nuovo con il contenuto del secchio. Non appena hai  finito, ti sembra di aver rimesso tutto come era prima, ma non è vero, perché adesso il contenuto delle due bottiglie è fatto di qualcosa che si è mischiato per sempre.
(...) Insomma, a forza di stare l'uno vicino all'altro avevamo smarrito inconsapevolmente e per sempre le nostre rispettive identità a vantaggio di una dimensione duplice e collettiva."


Proprio dopo aver letto per la prima volta questo punto, due anni fa, ho pensato:
"Due solitudini che si incontrano, due fragilità che annullano le loro personalità e una sconcertante mediocrità che domina la vita di due adolescenti infelici." Questo si potrebbe dire per riassumere ciò che accade ai due protagonisti. Non è amicizia ciò che unisce i due ragazzi. E' piuttosto un attaccamento malsano, morboso, dannoso. L'attaccamento presume non soltanto che due persone stiano sempre vicine l'una all'altra ma anche che esse siano fortemente condizionate l'una dall'altra. La vera amicizia, invece, sa accettare anche la lontananza. Un autentico rapporto di amicizia non sminuisce le caratteristiche individuali, ma le fa emergere e permette a ciascun individuo di confrontarsi con un altro. Gli amici condividono ideali, sogni; si scambiano consigli e opinioni; tra loro c'è un legame di stima reciproca.
Il vero amico è una persona disposta ad ascoltarti e ad aiutarti nei momenti di difficoltà.
Il vero amico è colui che ti abbraccia spontaneamente ogni volta che ti incontra, è colui che ammira i tuoi talenti e che perdona le tue mancanze, è colui che, con il suo comportamento dolce e gentile, ti sprona a credere in te stesso. Un amico è un tesoro prezioso, più prezioso di un diamante.
Da precisare anche che in questo racconto, scritto con un linguaggio scarno e asciutto, i due ragazzini non hanno un nome e, ad un tratto, non è più possibile distinguerli l'uno dall'altro. Vi sono infatti pochi dialoghi all'interno della storia e, in quelle poche conversazioni, il lettore non riesce a comprendere chi dei due pronuncia una determinata frase.



9 ottobre 2014

"Storia di una ladra di libri"



E' un romanzo meraviglioso! E' molto lungo, ma è talmente coinvolgente che lo si legge nel giro di pochi giorni.

La vicenda si svolge in Germania nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e la protagonista è una ragazzina di nome Liesel.
L'inizio è molto drammatico: nel gennaio del 1939, Liesel, sua madre e suo fratello Werner, un bambino di appena sei anni, stanno viaggiando su un treno diretto a Monaco. Ma ad un tratto, dopo alcuni violenti colpi di tosse, Werner muore tra le braccia della madre.
"Ci fu un violento accesso di tosse. Un accesso quasi ispirato. E subito dopo... più niente. Quando la tosse cessò, non era rimasto più nulla se non l'assenza di vita animata da un respiro o un sussulto silenzioso."
Durante la sepoltura del fratello, avvenuta in un campo innevato, Liesel si accorge di un libro abbandonato sul sentiero e lo raccoglie incuriosita, anche se non lo sa leggere.
Poco dopo, la bambina viene separata dalla madre e data in affido a una coppia residente a Molching, una piccola città vicina a Monaco. Liesel era figlia di genitori membri del partito comunista. Hitler e i suoi collaboratori non tolleravano tutto ciò che era diverso dalle loro convinzioni perverse e, proprio per questo, i figli dei tedeschi non nazisti venivano talvolta strappati dai genitori e affidati ad altre famiglie, in modo tale che venissero "rieducati".

Liesel però è "fortunata": in effetti, viene affidata ad Hans e Rosa Hubermann, coniugi poveri, umili e contrari al nazismo, anche se cercano di nascondere il loro astio verso Hitler.
Hans si rivela un ottimo padre adottivo, dal momento che fin da subito riesce a comprendere profondamente il dolore della ragazzina, angosciata per la morte del fratellino e tormentata da incubi notturni. Hans le sta accanto tutte le notti, sempre pronto ad abbracciarla e a consolarla per alleviare le sue crisi di pianto.

Hans Hubermann è anche la prima persona che le insegna a leggere e ad appassionarsi ai libri.

Proprio con il suo padre adottivo, Liesel inizia a leggere il libro che aveva preso nel giorno della sepoltura del fratello, intitolato:
"Il manuale del Necroforo".
"Rendendosi conto della difficoltà del testo era ben consapevole che, per Liesel, un libro siffatto era tutt'altro che l'ideale. C'erano parole che creavano problemi anche a lui, per non parlare dell'argomento macabro. La ragazza, dal canto suo, aveva un così impellente desiderio di leggere che non provava neppure a capire. In un certo senso, forse voleva essere sicura che suo fratello fosse stato sepolto a dovere."
Hans Hubermann aveva un cuore d'oro. Una volta, mentre un corteo di ebrei fatti prigionieri dai soldati tedeschi stava attraversando le vie di Molching, si era azzardato a porgere un pezzo di pane ad uno di loro e per questo era stato frustato in pubblico.

Rosa Hubermann, all'inizio del libro, sembra una persona molto dura e polemica, ma in realtà è dotata di un'anima grande e generosa. Le doti di Rosa emergono soprattutto nelle pagine successive, dove è evidente il suo affetto profondo verso la ragazzina, soprattutto quando i bombardamenti sulla Germania da parte degli alleati iniziano a farsi sempre più frequenti.
"La notte del 19 settembre alla radio risuonò il cucù, seguito dalla voce profonda dell'annunciatore: Molching sarebbe stata uno dei possibili obiettivi. Ancora una volta la Himmelstrasse si riempì di gente. Un'aria stregata li seguì fin giù nello scantinato dei Fiedler. (...) Persino dalla cantina riuscivano ad udire confusamente il boato delle bombe. (...) Rosa stringeva forte una mano di Liesel. I bambini singhiozzavano."
Piuttosto spesso, Rosa soprannomina affettuosamente la figlia adottiva: "Saumensch", che, tradotto dal tedesco all'italiano, significa "Porcellina". Ma Rosa soprannominava "Porcellina/o" ("Saumensch /Saukerl") tutte le persone alle quali voleva bene, compreso il marito.

Un' altra figura che compare verso la metà del romanzo è Max Vandenburg, un giovane ebreo che, confidando nella leale amicizia degli Hubermann, chiede a loro ospitalità e rifugio per non essere catturato dai gerarchi nazisti. Max Vandenburg soggiorna nella cantina degli Hubermann per quasi due anni. Tra Max e Liesel nasce un'amicizia profonda... Anche il giovane ebreo, "dai capelli come le piume", (così lo definisce Liesel la prima volta che lo vede), è tormentato da incubi notturni:

"Dimmi, Max, cosa vedi quando dormi?", "Vedo me stesso che si volta e dice addio" "Anch'io ho degli incubi" "Che cosa vedi?", "Un treno e mio fratello morto" "Tuo fratello?" "Morì prima di arrivare qui, durante il viaggio."

Nel corso del tempo, Max crea con le sue stesse mani due album di disegni con storie di sua invenzione e li regala a Liesel, appassionata lettrice. Per ricompensarlo dei regali, Liesel gli descrive ogni giorno il tempo atmosferico, specificando la forma delle nuvole e facendo riferimenti alla luminosità del sole; una volta addirittura, porta in cantina un po' di neve per costruire con Max un pupazzo.
Per Max, costretto a vivere nascosto e sempre sopraffatto dal terrore di essere scoperto, Liesel rappresenta la speranza, la bellezza della natura e la voglia di continuare a vivere.

Un altro personaggio che mi è piaciuto moltissimo è Rudy Steiner, coetaneo e compagno di scuola di Liesel. Rudy è il secondogenito dei sei figli di un umile sarto. E' un ragazzino simpaticissimo, il migliore della classe e anche dotato di notevoli qualità atletiche.
Nonostante la guerra, i bombardamenti, la povertà e la fame, Rudy è pieno di vita e di speranze verso il futuro (in effetti, si allena di continuo nella corsa per poter diventare come Jesse Owens, il suo mito). Il ragazzino detesta il nazismo e la "Gioventù Hitleriana" di cui purtroppo è costretto a fare parte, anche se fa di tutto per far infuriare il suo caporeparto.
"Steiner, quando è nato il nostro 
Fuhrer?"   "... a pasquetta".

Rudy è innamorato di Liesel e piuttosto spesso, insiste affinché lei gli dia un bacio.
 "Che ne diresti di un bacio, Saumensch?" "Neanche tra un milione di anni." "Un giorno, Liesel, morirai dalla voglia di baciarmi".
Quanto mi è dispiaciuto che sia morto alla fine del libro!! Rudy, come d'altra parte Hans e Rosa Hubermann, muore nel sonno a seguito di una terribile pioggia di bombe.

L'unica sopravvisuta a quel bombardamento dell'estate 1943 è Liesel, che durante la notte era rimasta in cantina per scrivere su un quaderno la storia della sua vita.

La mattina seguente, dopo essere stata aiutata da alcuni uomini ad uscire dalla cantina, la ragazzina scopre il cadavere straziato di Rudy, oltre a quelli dei suoi genitori adottivi:
"Rudy svegliati... svegliati Rudy! Rudy ti prego.." Le lacrime si inseguivano sul suo viso. "Rudy per favore, dannazione, svegliati, ti amo. Su Rudy, dai, Jesse Owens, non lo sai che ti amo, svegliati, svegliati..."
Ma il ragazzo era morto. Incredula, Liesel affondò il viso nel petto di Rudy. Afferrò il suo corpo inerte, tentando di impedire che tornasse ad afflosciarsi, finché dovette lasciarlo cadere sul pavimento devastato, con dolcezza. (...) Poi si chinò sul volto senza vita. Liesel baciò il suo migliore amico Rudy Steiner sulle labbra, con tenerezza e disperazione. La sua bocca aveva un sapore dolce, di polvere. (...)"
Povero Rudy... una guerra atroce gli ha rubato il futuro! La morte di Rudy è uno degli episodi più drammatici del romanzo.

Un'altra figura degna di considerazione è la moglie del sindaco di Molching, Frau Ilsa Hermann, che di tanto in tanto permette a Liesel di entrare nella sua biblioteca, dandole così l'opportunità di coltivare la passione per la lettura.
Liesel ruba di nascosto alcuni libri di Ilsa, entrando dalla finestra della biblioteca. La moglie del sindaco è una donna di poche parole, distrutta dal dolore per la perdita del figlio, morto durante la prima guerra mondiale. Ilsa nutre simpatia nei confronti di Liesel e la perdona quando si accorge dei suoi furti di libri.
I signori Hermann, alla fine del libro, adottano Liesel, rimasta sola al mondo dopo quel terribile bombardamento.

Il libro inizia con la morte di un bambino e termina con il ritrovamento di un ragazzo: alla fine della guerra, nel novembre 1945, Liesel e Max, che nel frattempo è sopravvissuto al campo di concentramento, si ritrovano e si abbracciano piangendo.

Merita di essere visto anche l'omonimo film! Il regista ha fatto un ottimo lavoro: lo sviluppo del film è sostanzialmente fedele a ciò che è scritto nel libro e la ragazzina che interpreta Liesel è stupenda!




1 ottobre 2014

"Come fossi solo", romanzo terribilmente realista


"Come fossi solo" è stato scritto da Marco Magini, giovane autore di origini toscane, laureato in Politica Economica alla "London School of Economics".

Il libro racconta la guerra in Bosnia e la Strage di Srebrenica del 1995, episodi drammatici che, da qualche mese a questa parte, mi stanno molto a cuore. Ho letto questo romanzo con molta attenzione e con grande interesse, apprezzando inoltre la capacità espressiva dell'autore.
I protagonisti del romanzo sono tre uomini: Dirk, casco blu olandese di stanza a Srebrenica, colpevole di non aver impedito il massacro, Romeo, magistrato spagnolo che, insieme ad alcuni colleghi, si ritrova impegnato a svolgere il processo dei colpevoli della strage presso il Tribunale penale Internazionale e Drazen... Quest'ultimo, più che un uomo, è un ragazzo che all'epoca dei fatti aveva vent'anni, realmente esistito e tuttora vivente.  
E' proprio la tragica storia di Drazen a suscitare un forte coinvolgimento emotivo nel lettore.

Nello svolgimento della recensione di questo romanzo, preferirei concentrarmi prevalentemente sulle vicende del ragazzo esponendo anche delle riflessioni riguardo alle atrocità che il genere umano ha commesso in determinati periodi storici.

Dunque, prima che Slobodan Milosevic diffondesse le sue ideologie insensate relative alla superiorità del popolo serbo, gli adolescenti residenti nel territorio Jugoslavo erano molto più interessati alle produzioni discografiche dei Police che alla politica. Alla fine degli anni ottanta infatti, molti giovani Jugoslavi non pensavano nemmeno che di lì a poco tempo sarebbe scoppiata una guerra violenta e sanguinosa, che si sarebbe conclusa con la disgregazione della Repubblica Jugoslava e con la formazione di tre stati indipendenti. 
"... in fondo, a chi dovrei fare la guerra io? Io che dovrei essere considerato un vero Iugoslavo, un pezzo quasi unico. Sono nato nella parte a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina da genitori croati. Non che questo facesse una grande differenza per me. La mia generazione non si è mai domandata se la ragazza con la quale uscivamo fosse Serba o Croata, o se il compagno di squadra fosse musulmano.", queste sono le constatazioni di Drazen.
 
Ma un evento sconcertante li aveva costretti in qualche modo ad accorgersi di ciò che all'epoca stava accadendo nel loro paese: alcuni tifosi croati avevano invaso il campo e il capitano di una squadra chiamata "Dinamo Zagabria" aveva aggredito un poliziotto serbo.
"Fu, credo in quell'occasione, che molti dei miei compagni si scoprirono croati o meglio figli della nazione croata, come li definiva in quel periodo il nuovo ministro Tudman. Ricordo come si sentirono toccati nel profondo anche se, con gli occhi di adesso, mi pare di poterlo interpretare come un'infatuazione giovanile, come il desiderio di definirsi attraverso una presunta diversità piuttosto che una vera e propria convinzione politica.", racconta il giovane stesso e poi afferma, poche pagine più avanti: "Non ero certo un sostenitore della disgregazione del paese dove ero nato, non vedevo alcun motivo per cui gli sloveni si fossero all'improvviso riscoperti tali, ma lo ero ancora meno di una qualsiasi forma di conflitto, soprattutto di quella che da subito mi apparve come una guerra fratricida. Se la maggior parte dei Croati o degli Sloveni voleva proprio andarsene, doveva avere la possibilità di farlo, senza che per questo ci sparassimo tra di noi."
Ma queste sono le parole di un ragazzo privo di pregiudizi e di ideologie razziste... 
C'é, nei ragazzi come Drazen, un sorta di purezza che li rende in qualche modo incapaci di comprendere i futili motivi per cui gli uomini a volte si fanno guerra tra di loro... Drazen era infatti un serbo diverso dai suoi coetanei che si erano incattiviti a causa dei fermenti indipendentisti.
Io continuo a pensare al nazionalismo esasperato di Milosevic. Talvolta me lo sono immaginato in mezzo alle piazze delle città serbe, di fronte a una moltitudine di persone, a pronunciare discorsi dalla forma impeccabile ma dai contenuti assurdi. Credo che sia Milosevic, presidente serbo, sia Tudman, presidente croato, fossero dotati di un'ottima abilità retorica... altrimenti, come avrebbero potuto manipolare le menti di molti cittadini? Senza la retorica, come avrebbero potuto far credere alla propria etnia che la disgregazione e il conflitto fossero i mezzi migliori per raggiungere lo scopo dell'indipendenza? E poi, nel discorso di Drazen c'è un'espressione che mi colpisce moltissimo: "guerra fratricida". Il ragazzo aveva azzeccato in pieno! La Jugoslavia era un territorio molto misto dal punto di vista etnico. Ed è scoppiata una guerra terribile, che non ha fatto altro che alimentare l'odio, la paura e il sospetto verso coloro che fino a poco tempo prima erano considerati fratelli, amici, vicini di casa.
Drazen Erdemovic, 20 anni
Drazen si era sposato giovanissimo con una ragazza serba e dalla loro unione era nata una bambina, Sanja. Ma, nel momento in cui la guerra era scoppiata, Drazen era stato costretto ad arruolarsi nell'esercito serbo. Infatti, il protagonista non aveva mai creduto alle ideologie sulla superiorità del popolo serbo, ma aveva deciso di combattere per poter mantenere moglie e figlia. Infatti, all'inizio degli anni Novanta, la Serbia soffriva di una gravissima crisi economica che era la causa di un altissimo livello di disoccupazione giovanile. Drazen non trovava lavoro e non aveva nemmeno il denaro necessario per poter emigrare con la sua famiglia al di fuori di una Jugoslavia devastata dalle bombe.
Drazen viene quindi assegnato al "Decimo Battaglione Sabotaggio". Il suo compito consisteva per lo più nell'assicurare sempre il giusto rifornimento di munizioni al momento giusto.
Ma intelligentemente, il nostro ragazzo asserisce: "Il fatto di avere dei compiti ben determinati e di ripeterli in maniera sistematica e metodica, aiuta i soldati ad eliminare ogni connessione causa-effetto. Tutto viene così percepito come necessario, come un compito indiscutibile che essi sono chiamati ad eseguire. Consegniamo munizioni come ci è stato chiesto, ma per quanto ne sappiamo, potrebbero avere la stessa funzione di viveri e medicinali."
La guerra non stimola gli uomini a pensare a ciò che fanno. Compiono azioni meccaniche e, nel gran trambusto di fucili e cannoni, non hanno il tempo di pensare alle mostruosità che attuano. La guerra fa dimenticare agli uomini la loro umanità. Non solo. Fa dimenticare loro di essere dotati della facoltà di pensare.

Molte pagine del libro sono poi dedicate ad episodi raccapriccianti e sconvolgenti; tra questi, viene descritta la scena in cui alcuni soldati serbi, compagni di Drazen, violentano a morte una donna bosniaca. Mentre gli altri soldati, ubriachi fradici, ridono, Drazen è sopraffatto da conati di vomito.
"Il briciolo di umanità che cerco di mantenere mi sembra un fardello. (...) Vesto la terza divisa della mia vita senza mai essermi sentito un soldato."

In quell'esercito, Drazen era un cigno in mezzo alle oche. Un ago in mezzo a migliaia di fili di paglia. Una perla in mezzo a un milione di ostriche. Drazen è l'unico soldato che si appella ancora ai valori morali, è l'unico componente del suo battaglione che è ancora in grado di distinguere il bene dal male, è uno dei pochissimi giovani serbi che conserva la sua umanità, la sua delicatezza e la sua sensibilità. (Precisazione: nel suo battaglione, è l'unico che si rifiuta di ubriacarsi.)

Nelle ultime cinquanta pagine, viene raccontato dettagliatamente ciò che è accaduto l'11 luglio 1995.
Il battaglione di cui Drazen fa parte si dirige nei dintorni di Srebrenica, in mezzo a campi incolti, pronto a fucilare migliaia di uomini bosniaci. Drazen si ribella più volte agli ordini del tenente, si rifiuta di uccidere i suoi coetanei bosniaci. Li vede piangere e tremare. Ma, proprio a causa della sua ostinata ribellione, viene picchiato a sangue. Per un istante lo sfiora l'idea di mettersi in fila con i civili bosniaci per essere ucciso piuttosto che uccidere. Ma poi: "Sanja... Irina... Mi fermo; cosa ne sarebbe di loro se io morissi, ucciso per non aver eseguito un ordine? Tutti lo saprebbero, tutti... e allora diventerebbero la figlia e la vedova di un traditore mezzosangue... Non posso far loro questo... Non posso morire, non posso farlo per mia moglie e per mia figlia, perché avere un papà pieno di rimorsi è sempre meglio di averne uno sepolto in una fossa comune, martire di una strage che non è riuscito comunque ad evitare." (...)
 
(...) "Chiudo gli occhi e appoggio la guancia sul pavimento nel retro della camionetta. E' freddo, metallico. (...) La mia vita inizia oggi, la mia vita con il mio nuovo me, un me che avrei preferito non conoscere, non incontrare. Ogni mia azione, ogni mio pensiero, ogni mia decisione d'ora in poi saranno una conseguenza del ricordo di questa giornata. Solo così potrò non dimenticarli, solo così potrò non ucciderli di nuovo, solo così forse, un giorno, potrò tornare ad essere umano."


Il romanzo si conclude con queste ultime frasi pensate da Drazen. Quanto ho ammirato la sua bontà, la sua sensibilità, il suo profondo disgusto verso la guerra, l'affetto sincero che prova verso la moglie e la figlia... e quanto ho apprezzato la sua onestà. Alla fine della guerra infatti, il ragazzo aveva deciso di presentarsi di fronte al Tribunale penale Internazionale per costituirsi e per poter di nuovo guardare negli occhi la moglie e la figlia.  
Drazen Erdemovic ha trascorso sette anni in carcere ed è tuttora l'unico membro del suo battaglione ad essersi costituito e ad essere stato processato.