13 febbraio 2015

La memoria delle Foibe:


Il 10 febbraio è la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle Foibe, spesso dimenticate dalla nostra società, che pensa soltanto a vivere un presente monotono e frenetico. Molte persone attribuiscono infatti un'importanza molto marginale agli eventi più tragici della storia e, dal momento che sono irrimediabilmente trincerati nel loro egoismo, si rifiutano di pensare al passato per riflettere sul presente per poter poi rendere migliore il futuro dell'umanità. Dispiace affermarlo, ma purtroppo è la verità!...
Fortunatamente, il nuovo presidente della Repubblica mi sembra una persona molto sensibile. Ho davvero apprezzato il fatto che si sia recato in visita alle Foibe per celebrare la ricorrenza di questo atroce massacro. Direi che sono rimasta piacevolmente sorpresa.

 Così si è espresso l'Onorevole Sergio Mattarella:
«(...) Il Giorno del Ricordo è una ricorrenza che contribuisce a sanare una ferita profonda nella memoria e nella coscienza nazionale. Per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia. (...) »

Dunque, partirei innanzitutto con la definizione del termine "foibe" e con la sua collocazione in un preciso luogo geografico e in un precise date storiche.
Le foibe erano profonde crepe del territorio carsico; erano degli "inghiottitoi" naturali, profondi decine di metri, utilizzati dagli abitanti della Iugoslavia per far scomparire rapidamente gli oggetti di cui volevano disfarsi; per esempio; scheletri di animali, sterpi, ramaglie.
Però, nel 1943 e nel 1945, all'interno di queste voragini carsiche, vennero fatti sparire i corpi di alcune migliaia di anticomunisti, soprattutto italiani, a seguito di esecuzioni sommarie su larga scala.
Le foibe si trovavano in diverse aree della Venezia Giulia, della Slovenia e della Croazia.
I massacri erano avvenuti nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945.

 
AUTUNNO 1943:
Nel settembre 1943, subito dopo l'armistizio, erano crollate le strutture dello stato italiano. Per questo motivo, i tedeschi avevano occupato le città di Trieste, Pola e Fiume, ma, per carenza di forze, avevano trascurato l'entroterra istriano.
I comunisti, profondamente legati al Movimento di liberazione jugoslavo, dopo aver preso il potere nell'Istria interna, iniziarono ad arrestare in tutta la regione i gerarchi fascisti, i carabinieri, gli esattori delle tasse e gli ufficiali postali italiani residenti in quella zona, per poi fucilarli e gettarli nelle Foibe. 
I partigiani slavi odiavano i membri dell'amministrazione italiana, caratterizzata soprattutto da fiscalismo e da un aggressivo nazionalismo.

Poi, la repressione aveva assunto anche connotati sociali, e proprio per questo motivo, erano stati eliminati i proprietari terrieri 
italiani, vittime di un antagonismo di classe che contrapponeva i possidenti italiani ai mezzadri croati. E' utile ricordare che i forti contrasti tra contadini e proprietari in Istria risalivano addirittura all'epoca asburgica ma erano stati esasperati dall'avvento del fascismo, ostile verso qualsiasi provvedimento di emancipazione sociale dei contadini slavi.
A poco a poco, gli antifascisti slavi avevano arrestato e ucciso anche commercianti, artigiani, medici e insegnanti, oltre ovviamente ai membri italiani dei Comitati di salute pubblica.
Il loro scopo era, come d'altronde suggeriscono alcune fonti storiche croate, quello di "ripulire il territorio dai nemici del popolo", al punto tale da arrivare ad una vera e propria "pulizia etnica", dal momento che, in quel terribile autunno venivano fatti sparire tutti coloro che non collaboravano attivamente con il Movimento di liberazione, guidato da Tito.


PRIMAVERA 1945:
Nel maggio del 1945, l'esercito jugoslavo, dopo aver occupato tutto il territorio della Venezia Giulia, aveva arrestato, imprigionato e torturato i soldati italiani presenti in quel territorio. Molti soldati erano morti di fame e di stenti nei campi di prigionia (dei quali uno tristemente famoso é quello sloveno di Borovnica), i sopravvissuti, erano stati deportati in prossimità delle foibe per poter essere fucilati e gettati al loro interno. Agli italiani era imputata una "colpa collettiva", che, secondo i comunisti slavi, derivava dall'appartenenza alle forze armate nazi-fasciste. Indubbiamente, fra gli infoibati vi erano anche alcuni fascisti e protagonisti di alcune rappresaglie, ma, ciò che io ritengo sconcertante, è il fatto che la mentalità di fondo degli arresti e degli stermini era fondata su una generalizzazione collettiva e non sull'individualità, secondo il ragionamento, vero solo in parte: "Italiani= fascisti pericolosi". In realtà, vittime della strage erano stati soprattutto ex-squadristi e presunti oppositori politici del regime comunista, dal momento che molti membri del Partito fascista residenti nella Venezia Giulia erano riusciti a fuggire in tempo, poco prima che venissero attuati i massacri.
Ad ogni modo, la IV armata iugoslava si era occupata delle fucilazioni dei soldati italiani, mentre alla polizia politica jugoslava era affidato il compito di arrestare e di deportare i civili.


LE VITTIME:
Gli storici finora non sono riusciti a quantificare esattamente il numero delle vittime, anche per il fatto che governo jugoslavo si è sempre rifiutato di riferire apertamente il numero dei decessi.
Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dai primi anni novanta, subito dopo la fine della guerra fredda, ed è stato rilevato che i cadaveri rinvenuti di "infoibati" veri e propri finora sono più di un migliaio (anche gli uccisi in altre circostanze legate all'avanzata delle forze jugoslave lungo il confine orientale italiano vengono considerati vittime delle foibe).


LE TESTIMONIANZE DI ALCUNI SOPRAVVISSUTI:

"Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentì uno dei nostri aguzzini dire agli altri:"Facciamo presto, perché si parte subito". Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico fil di ferro, oltre quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo solo i pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze.

Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi .Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera.

Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto avvenne il prodigio: il proiettile, anziché ferirmi, spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me.
La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato di nascosto al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo."
 (Dalla rivista "Storia e Dossier", maggio 1997)


"Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gridò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull’orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: era arrivato il momento di morire.
Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mi consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c’è l’umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all’orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano.
Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull’orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più.
(...) Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in un ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Ci fanno uscire e inizia la marcia verso la foiba.
Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", slogan che viene ripetuto ad ogni piè sospinto. Io, appena sento il crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba.
Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All’improvviso le mie dita afferrano una zolla d’erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. (...)" 
(da Arrigo Petacco, "L'esodo. La tragedia negata degli italiani in Istria", Dalmazia e Venezia Giulia)


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