31 ottobre 2015

Il giovanissimo José Sanchez del Rio ha lasciato un segno profondo nella storia:

Questo post vorrei dedicarlo a un ragazzino eccezionale che è ora considerato un valido modello di vita cristiana. Racconto qui sotto gli episodi più salienti della sua breve ma autentica vita, perché ci terrei proprio a farvelo conoscere!

JOSE' SANCHEZ DEL RIO:

José Sanchez del Rio nacque il 28 marzo 1913 a Sahuayo in Messico, da una famiglia benestante che tuttavia non si vantava mai delle sue ricchezze. José era il terzo di quattro fratelli. Andava molto bene a scuola, gli piacevano i cavalli, era benvoluto dai suoi coetanei perché era di ottimo carattere: sorridente, semplice, sincero, gentile e molto affettuoso con la madre. Inoltre, sin da piccolo, José si impegnò a coltivare la sua sensibilità religiosa: pregava con il rosario tutti i giorni. All'età di dieci anni, questo straordinario bambino svolgeva già una sorta di "apostolato" tra i suoi amici, dal momento che insegnava loro a pregare e spesso li accompagnava in chiesa per adorare l’Eucaristia.
Purtroppo José visse in un periodo storico molto difficile per il Messico: nel 1925 salì al potere il presidente anticlericale Plutarco Elias Calles, il quale emanò leggi mirate a cancellare la cultura cattolica della maggioranza della popolazione: la chiusura dei seminari e delle scuole cattoliche, l'esproprio delle chiese, lo scioglimento degli ordini religiosi e il divieto ai sacerdoti di celebrare la Messa. In seguito all'applicazione di queste leggi, si registrarono in tutto il Paese attacchi ai fedeli che uscivano da Messa e disordini durante le processioni religiose, spesso incitati dalle autorità civili.
Nel 1926 scoppiò la "Guerra Cristera". José, sebbene avesse soltanto 13 anni e sebbene sua madre fosse contraria, decise di arruolarsi a fianco dei "cristeros", forze militari che cercavano di contrastare il governo di Calles al fine di ripristinare la libertà religiosa. Entrato nell'esercito del generale Luis Guizar Morfin, gli fu concesso di portare lo stendardo di guerra, motivo per cui i cristeros lo soprannominarono "Tarcisius", proprio come il primo santo cristiano martirizzato nel tentativo di proteggere l'Eucaristia dalla profanazione.
Durante una violenta battaglia, il 6 febbraio 1928, il cavallo del generale Morfin venne ucciso a colpi di fucile. Volontariamente, José gli cedette il suo in modo tale da permettergli di ritirarsi, dichiarando: 
"Mio generale, prenda il mio cavallo e si salvi: lei è più necessario di me alla causa". Poi José, con il fucile in mano, coprì le spalle al suo Generale e sparò contro l'esercito federale del governo, finché non gli finirono i colpi.  
Alla fine della battaglia, le truppe federali riescono facilmente a catturare il ragazzino disarmato e lo rinchiudono nel battistero della chiesa di Sahuayo, ridotta a stalla e a carcere per i prigionieri cristeros.  
Rafael Picazo, funzionario che ebbe in custodia José, gli propose alcune alternative che avrebbero potuto salvarlo dalla condanna a morte: accettare di essere mandato all'accademia militare oppure continuare gli studi negli Stati Uniti. Il ragazzino però rifiutò entrambe le proposte. "Preferisco morire invece di tradire Cristo e la mia patria", diceva.
Nella notte tra il 6 e il 7 febbraio egli scrisse una lettera alla madre, della quale riporto alcune parti in traduzione italiana:
«Mia cara mamma: sono stato preso prigioniero in combattimento quest'oggi. Penso al momento in cui andrò a morire; ma non è importante, mamma. Ti devi rimettere alla volontà di Dio; muoio contento perché sto morendo al fianco di Nostro Signore. Non ti preoccupare per la mia morte, che è ciò che più mi addolora. 
Devi dire agli altri miei fratelli di seguire l'esempio del più piccolo; così farai la volontà del nostro Dio. Abbi forza e inviami la tua benedizione insieme a mio padre. Salutami tutti per l'ultima volta e ricevete il cuore di vostro figlio che vi ama entrambi e avrebbe voluto vedervi prima di morire».
Nei giorni di prigionia, José venne barbaramente torturato. La mattina del 10 febbraio, dopo che gli vennero scuoiate le piante dei piedi, fu costretto dai soldati a raggiungere a piedi il cimitero. Lì, posto davanti alla fossa in cui sarebbe stato sepolto, venne pugnalato dai soldati. Ad ogni pugnalata gridava: "Viva Cristo re!"; fino al punto in cui uno dei militari, innervosito da questo fermo e risoluto grido di fede, gli sparò con la sua pistola. Pochi secondi prima di morire e di essere gettato nella fossa, José riuscì a tracciare una croce sul terreno con il suo sangue.
La memoria del "bambino eroe, soldato e martire" è rimasta sempre molto viva in Messico. D'altra parte, una persona che in vita è stata benvoluta e amata, non muore mai per davvero, perché il suo ricordo è molto vivo nel cuore delle persone che hanno avuto il piacere e la fortuna di conoscerla. Credo che José Sanchez del Rio abbia lasciato un segno profondo nella storia del cristianesimo.
Questo splendido bambino è stato beatificato l'11 ottobre 2005 da papa Giovanni Paolo II.



La storia di José è narrata anche in "Cristiada", opera dedicata proprio alla 
Guerra Cristera (1926-1929).
"Cristiada" è un film molto fedele alla realtà storica, forse anche troppo. L'ho visto più di un mese fa ma ne ho ancora un ricordo molto lucido, come se lo avessi visto ieri. 

D'altronde, la figura di José è davvero molto attraente e, a mio avviso, anche molto eloquente. Di bambini come José ne nascono uno ogni centomila.
Il ragazzino provava un amore appassionato per Cristo. Un signore messicano sopravvissuto alla Guerra Cristera, che all'epoca dei fatti era poco più giovane di José, ha raccontato: "Gesù Cristo fu sempre un grande amico per José, il migliore amico, il suo compagno di avventure e di combattimento. Conversava con Lui in ogni momento del giorno, in modo più naturale di quanto lo facesse con i suoi amici. Gli raccontava i suoi problemi e le sue difficoltà, ma gli piaceva anche trascorrere con Lui i momenti allegri, festeggiare un buon voto a scuola o la vittoria in una partita. Facevano tutto insieme. La fedeltà a questa amicizia, tuttavia, gli costò sangue: pronunciò infatti il nome di Gesù con il proprio martirio."





E' davvero straordinario e ammirevole da parte di una persona così giovane (alle soglie dell'adolescenza!) una così ferrea volontà di trasmettere Cristo, di annunciarlo e di testimoniarlo non soltanto ai suoi genitori, ai suoi fratelli e ai suoi amici ma addirittura anche ai suoi stessi carnefici. Durante la sua prigionia, lo tentarono con ogni tipo di promesse e di ricatti al solo scopo di fargli rinnegare invano la propria fede. 
Insomma, nulla e nessuno potevano convincerlo a tradire la propria coscienza e la propria fedeltà e amore a Cristo. José è stato indubbiamente un cristiano coerente e fervoroso al punto tale che era riuscito a realizzare il suo desiderio di contribuire in modo concreto per difendere la Chiesa, nonostante la sua fanciullezza.
"Non è mai stato così facile guadagnarsi il cielo" disse a sua madre, dopo che lei gli aveva chiesto il motivo per cui voleva andare a combattere con i cristeros.
Nelle lunghe notti della sua prigionia, per consolarsi e vincere la paura, gli piaceva cantare: "In cielo, in cielo voglio andare!".
José era profondamente convinto del fatto che valesse la pena affrontare anche i sacrifici e le sofferenze più tremende per poter godere di Dio per tutta l’eternità. Egli era disposto a morire per la sua fede e, quello che talvolta mi fa piangere, è proprio il fatto che gli sono bastati soltanto 13 anni per vivere la propria esistenza in modo autentico. Questo pensiero mi riempie di emozioni molto forti, che non saprei descrivere in modo chiaro con le parole. 

Per favore, non dite che José era un fanatico! Alcune persone molto sensibili e rare arrivano a sacrificare la propria vita a causa della loro fede e lo fanno con gioia. Per questo divengono eroi agli occhi delle comunità. Molte altre, nella loro vita quotidiana, si impegnano a testimoniare la fede cristiana in modo semplice e poco vistoso. 

Non voglio spendere molte parole per parlare della cattiveria dei soldati che hanno ucciso José. A volte ho l'impressione che la malvagità di certi uomini non abbia limiti, perché non si fermano nemmeno di fronte all'innocenza e alla purezza di un bambino.




21 ottobre 2015

Dante, l'incredibile ricchezza dei messaggi racchiusi nelle sue opere:


L'Università è ricominciata alla grande! Circa due settimane fa, ho partecipato ad un convegno internazionale organizzato dalla mia università e dedicato proprio al Sommo Poeta.
Il ciclo di conferenze è durato tre giorni; è stato molto impegnativo ma al contempo molto illuminante e interessante!
E' stata un'opportunità che mi ha permesso sia di approfondire delle notizie sulla biografia e sulle opere di Dante, sia di conoscere l'approccio che i critici letterari e altri autori italiani dei secoli successivi hanno avuto con la "Commedia" .
Ad ogni modo, non ho intenzione di scrivere qui il riassunto delle conferenze. Mi è venuta in mente un'idea carina; un'idea che, a mio avviso, verrebbe soltanto ad una brava insegnante di italiano: proporvi un sonetto piacevole e spiegarlo in modo tale da farvi apprezzare le tematiche evocate.


 RIME, LII (52):

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vascel, ch’ad ogni vento
per mare andasse col voler nostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio  
non ci potesse dare impedimento, anzi, 
vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi  
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.


Prima di commentarlo, lo contestualizzo.
Dunque, è utile tenere presente che, pochi anni prima dell'esilio, Dante aveva dedicato parte della sua attività letteraria alla composizione di sonetti che appartengono ai generi erotico e realistico-giocoso.
Dante era un poeta molto versatile, dal momento che nel corso della sua esistenza aveva sperimentato vari stili e registri linguistici.
La "Vita Nuova" è stata scritta tra il 1292 e il 1294 e si tratta di un prosimetro, ovvero, di un'opera in cui vengono raccolte alcune liriche e in cui, le parti prosastiche hanno soprattutto un "ruolo di servizio", nel senso che fungono spesso da commenti.
Le "Rime" invece, una cinquantina in totale, sono state raccolte in un codice e comprendono poesie non riconducibili ad un unico genere: ci sono poesie di stampo stilnovistico, rime realistico-giocose, rime comiche e anche "Rime petrose", che prendono il nome dall'espressione "bella petra" con cui il poeta menziona una donna dura e insensibile all'amore.

 In questo sonetto, Dante sembra simulare un discorso diretto in modo tale da rendere partecipe l'amico Guido Cavalcanti (poeta stilnovista) di una strabiliante fantasticheria dal carattere quasi soprannaturale. L'autore infatti immagina se stesso, Guido e Lapo Gianni (altro stilnovista) rapiti per incantesimo "presi per incantamento" e posti, in compagnia delle donne amate (Monna Vanna e Monna Lagia) su un'imbarcazione che si muove soltanto se è guidata dalla volontà dei passeggeri.
Dante dunque sogna una sorta di eterno presente, nel quale può godere del dialogo con le persone amate, la cui vicinanza gli dà indubbiamente un senso di sicurezza. La barca che oscilla pian piano tra le calme acque del mare suggerisce un senso di quiete e di serenità.

Ad ogni modo, Dante qui tenta di descrivere una felice situazione irreale; d'altra parte, non lo sfiora minimamente il pensiero che un temporale, un maremoto o una pioggia battente possano sconvolgere la felicità dei passeggeri sulla barca!
Da notare comunque che l'avverbio "sempre" è ripetuto due volte: al verso 7 e al verso 12.
Probabilmente, il Sommo Poeta recupera un aspetto tipico della tradizione arturiana, in cui il Mago Merlino crea una barca capace di viaggiare per mare senza timoniere.

I due personaggi menzionati da Dante (tra l'altro, la scelta di aprire il componimento con i nomi degli amici è un espediente funzionale a catturare l'attenzione del lettore) sono poeti dediti soprattutto a componimenti di argomento amoroso e il poetare è la loro principale attività quotidiana. E anche questo è un aspetto significativo, perché probabilmente l'autore immagina una "piccola civiltà delle lettere" fondata sull'amore e sulla complicità tra i veri membri.

Sapete che rimando si potrebbe fare in storia dell'arte? Alla "Grenoiullère" di Renoir, dipinto nel 1869.



 Eccolo qui. Renoir ha raffigurato l'isolotto di Croissy, situato nel mezzo della Senna, collegato alla terraferma da un ponte e attrezzato con un ristorante all'aperto sullo zatterone a destra.
Qui il pittore è molto sensibile alle presenze umane, che, nonostante siano state tratteggiate con veloci pennellate, appaiono ben definite.
L'acqua è colorata dai frammentati riflessi della vegetazione. La vivacità della gradazione del verde, l'isolotto gremito di persone, i bagnanti raffigurati all'estrema sinistra e le placide acque del fiume conferiscono una sensazione di gioiosa serenità all'opera. Anche qui, una piccola comunità (costituita, precisiamolo, da membri dell'alta borghesia) si riunisce in uno dei punti più suggestivi della Senna. Le persone sembrano chiacchierare piacevolmente sotto la tenue ombra di un albero.
Questo per constatare che, sia nel componimento di Dante, sia nel dipinto di Renoir sono presenti i temi della gioia, della serenità, della condivisione di un lungo momento presente con delle persone amiche, della natura che, calma e armoniosa in entrambi i casi, alimenta un clima di solidarietà.

E voi?? Semmai vi capitasse di immaginare una situazione irreale come quella evocata da Dante nel suo sonetto, a quale ambiente pensereste? E con chi vi piacerebbe condividere quest'esperienza?
Quel che voglio dire è questo: sognereste anche voi di trovarvi su una barca immobile in mezzo al mare con le persone che vi stanno più a cuore?
Io no, io sono un po' più aristocratica di Dante! :-)  Infatti, per me l'ambientazione ideale sarebbe un castello dalle mura d'argento, posto in cima ad una collina e circondato da un grande giardino con olivi, viti e altri alberi da frutto.
E dedicherei la maggior parte delle giornate a passeggiare nel giardino, a leggere e a scrivere ciò che di bello e di significativo mi passa per la testa. Idilliaco, oltremodo idilliaco tutto ciò.
Però non starei da sola...

Capite come talvolta Dante può risultare piacevole? 
Certo, in alcuni passi della "Commedia" appare, agli occhi degli uomini del Terzo Millennio, piuttosto rigido e bacchettone, come quando, nel IV canto dell'Inferno, colloca nel Limbo i non battezzati o i credenti in altre religioni (è vero, queste anime non sono istigate da alcun demone ma non potranno mai godere della visione di Dio, anche se in vita si sono comportate rettamente), oppure quando, nel XIII canto dell'Inferno descrive la selva dei suicidi (tutti coloro che si sono suicidati  vengono trasformati in piante dai rami nodosi le cui foglie sono mangiate dalle arpìe), oppure quando, nel XV canto dell'Inferno, gli omosessuali sono costretti a camminare sotto una pioggia di lingue di fuoco (in quanto considerati dei "violenti contro la natura"). Che volete farci, era un medievale, un letterato figlio del suo tempo.

Ma Dante è anche e soprattutto un poeta che si è impegnato a esporre e a chiarire tematiche filosofiche e teologiche che ancor oggi sono di grande rilievo, come per esempio la questione del libero arbitrio esposta nel XVI canto del Purgatorio ed espressa da Marco Lombardo (collocato nella cornice degli iracondi), il tema della Trinità Divina che regola gli astri mediante le intelligenze angeliche nel X canto del Paradiso e lo splendore delle anime beate dopo la risurrezione dei corpi nel XIV canto del Paradiso.

Senza contare che anche le "Rime" di Dante potrebbero ricordarci delle situazioni, delle sensazioni e dei sentimenti che abbiamo vissuto. Il sonetto che ho analizzato in questo post era nato sicuramente dal desiderio di un poeta vissuto circa settecento anni fa di evadere dalla realtà. E tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo desiderato evadere dalla realtà e abbiamo immaginato di trovarci in una felice situazione irreale con le persone a noi più care.



12 ottobre 2015

"Corri, ragazzo, corri!", Pepe Danquart:


 “Srulik, non c’è tempo.  Devi essere forte. Devi sopravvivere, è un ordine! Voglio che ascolti bene tutto quello che ti dirò.  Trova qualcuno che ti insegni a farti il segno della croce e a pregare, così che potrai restare da qualche contadino fino alla fine della guerra. Vai sempre dai poveri, sono più disponibili. E non fare mai il bagno nel fiume con altri bambini. Se ti inseguono con i cani entra nell’acqua o nel fango, per far perdere le tracce. E soprattutto, Srulik, scordati il tuo nome, il tuo cognome, tua madre e me. Devi nascondere a tutti chi sei veramente, anche se non devi mai dimenticare che sei ebreo.
Queste sono le ultime parole che un uomo, con voce angosciata e piena di dolore, dice al figlioletto di nove anni. Entrambi si trovano alla periferia di Varsavia, sotto un ponte circondato da soldati nazisti che li stanno cercando.
"Io comincio a correre. Quando i soldati mi correranno dietro, tu scapperai nell'altra direzione. Finché non ce la farai più, non ti voltare. Non smettere mai di correre, ce la farai."
Poi, con un ultimo abbraccio, forte, caldo e straziante, l'uomo inizia a correre. Ma la sua corsa viene fermata dalle pallottole dei fucili dei soldati.
Srulik scappa nell'altra direzione, con il volto bagnato di lacrime.
E' l'estate del 1942.

Con questo tragico episodio iniziano le travagliate avventure di un bambino ebreo polacco che è costretto a nascondere le proprie origini, la propria identità e la propria religione per sopravvivere alla guerra e per non essere catturato dai nazisti.
Dapprima, il povero ragazzino cerca, insieme ad altri bambini fuggiti da un campo di concentramento, di sopravvivere nella foresta. Vivono di caccia e di raccolta e dormono sugli alberi, fino al giorno in cui i soldati nazisti entrano nella foresta armati di fucili.
Vengono arrestati tutti i ragazzini tranne Srulik, che rimane solo proprio quando sopraggiunge l'autunno e le foglie colorate scendono dagli alberi, silenziose come fiocchi di neve; sfiorando il suo corpo magro.
Proprio a partire dall'autunno del 1942,  Srulik decide di vagare di fattoria in fattoria per cercare ospitalità e lavoro, sotto il falso nome di Jurek Stanjack.
All'inizio dell'inverno, viene accolto da una donna povera ma piena di generosità che lo nutre, lo consola dagli incubi notturni e gli insegna a pregare.
Jurek rimane per alcune settimane a casa di questa meravigliosa signora, poi continua il suo faticoso viaggio nelle campagne polacche, fingendosi un orfano cattolico.

E' molto difficile per un ragazzino ebreo cercare di nascondersi in un paese fortemente antisemita, come lo era la Polonia negli anni quaranta. Alcuni contadini lo aiutano, gli offrono un lavoro per qualche tempo, ma altri invece lo tradiscono, consegnandolo alla polizia, dalla quale Jurek fortunatamente riesce a scappare, seguendo uno dei consigli del padre: nascondersi nelle acque delle paludi per non farsi trovare dai cani.

Il protagonista di questo film è un ragazzino molto sveglio, molto tenace, molto maturo (costretto a maturare molto velocemente a causa della crudeltà della guerra) e molto sensibile. In quei durissimi tre anni che lo separano dalla fine della guerra, commette soltanto un errore, ma grave: nei pochi momenti di felicità, quando si accinge a fare il bagno con i ragazzini non ebrei, si spoglia con loro... E' una delle poche ingenuità che il bambino commette; è un atto innocente che purtroppo rivela apertamente la sua identità: d'altra parte, tutti sanno che la circoncisione è praticata soltanto tra gli ebrei. Tuttavia, anche in questi casi, Jurek si difende coraggiosamente, dicendo: "Sono stato operato quando ero piccolo", cosa alla quale però nessuno crede.

IL MOMENTO PIU' TRAGICO DEL FILM:

Durante la sua permanenza in una delle fattorie, Jurek rimane vittima di un incidente di lavoro: una trebbiatrice gli schiaccia la mano. Viene portato immediatamente all'ospedale più vicino con una carrozza, ma una volta giunto, il medico, terribilmente malvagio e convinto antisemita, si rifiuta di operarlo.
Una mia riflessione che confido soprattutto a chi tra i miei lettori ha avuto l'occasione di vedere questo film: notate bene che il medico dice: "Io non opero un ebreo". Nel riferirsi a Jurek, il medico filo-nazista non pronuncia mai le parole "bambino"/"ragazzino". Dice soltanto "ebreo". Come se gli ebrei fossero qualcosa di diverso dagli esseri umani, qualcosa di infimo, un popolo che vale molto meno dei vermi, una "razza" indegna di esistere. Quindi, anche un bambino ebreo gravemente ferito non ha diritto di ricevere cure sanitarie. All'epoca, un bambino ebreo doveva soltanto morire.

Jurek trascorre una notte terribile: in stato di dormiveglia, lotta tra la vita e la morte sussurrando, con ammirevole tenacia: "Te lo prometto, papà, te lo prometto! (=Ti prometto di non morire)".
La mattina dopo, un altro medico, decisamente più umano del suo collega, decide di operarlo immediatamente, commentando con evidente indignazione: "Ieri avremmo potuto salvargli la mano. Oggi invece, dovremmo impegnarci per salvargli la vita."
Jurek sopravvive all'operazione.

E' dura, a soli undici anni, accettare di dover campare senza un braccio. E in effetti Jurek non riesce ad accettarlo subito: è veramente tragico il momento in cui egli si accorge, davanti allo specchio, che gli sono rimasti soltanto la spalla e un breve moncone. Non c'è più nemmeno il gomito.
Nonostante ciò, il nostro protagonista non perde né il suo sorriso, né la sua grandissima determinazione. Anzi, sembra quasi che l'amputazione del braccio alimenti non soltanto la sua voglia di sopravvivere, ma anche il suo desiderio di vivere. E così continua la sua dolorosa fuga verso la libertà.

Poco prima della fine della guerra, quando i sovietici invadono la Polonia, Alina, l'unica figlia di un umile fabbro, offre ospitalità a Jurek. Bionda, carina, genuina e sensibile, la ragazzina si affeziona molto presto a Jurek, il quale diventa praticamente il fratello maggiore che lei non ha mai avuto.

 IL RECUPERO DELL'IDENTITA':

Nell'estate del 1945 però, il direttore dell'orfanotrofio di Varsavia per bambini ebrei rimasti orfani, giunge a casa della famiglia di Alina dal momento che vorrebbe prendere con sé Jurek.
Jurek inizialmente lo segue malvolentieri; dalle sue parole infatti si comprende che egli non vuole assolutamente né essere considerato ebreo, né ritornare ebreo. D'altronde, come può Jurek/Srulik essere orgoglioso delle proprie origini, quando, durante quei tre anni di fuga, la sua identità ebraica ha comportato terribili sacrifici per la sopravvivenza, come soffrire il freddo e la fame, imparare a sopravvivere in una foresta fitta d'alberi e piuttosto inospitale, sperimentare la cattiveria di contadini antisemiti e perdere anche un braccio??!!
La mente del ragazzino aveva attuato una sorta di "rimozione": dal punto di vista storico e letterario, questo termine indica l'atteggiamento di una persona che non vuole ricordare delle angherie terribili subite in passato, oppure di un individuo che si rifiuta di riconoscere la propria identità etnico-religiosa, dal momento che questa gli ha procurato  persecuzioni e innumerevoli disgrazie.

Quando Srulik giunge con il direttore dell'orfanotrofio al ghetto di Varsavia, riaffiorano nella sua mente ricordi felici e momenti di serenità vissuti con i genitori e con i due fratelli. Gli ritornano alla mente anche le ultime parole che il padre gli aveva detto prima di farsi uccidere. E, a quel punto, scoppia in una violenta crisi di pianto.
Così il protagonista della storia recupera la sua identità che aveva voluto dimenticare, che durante la guerra era stato costretto a dimenticare poiché aveva giurato al proprio padre di sopravvivere.

SRULIK, EMBLEMA DELLA LIBERTA':

Ad ogni modo, Srulik può essere considerato l'emblema della libertà e dell'intelligenza che lotta con spirito battagliero contro la crudeltà nazista.
Srulik ha fame di vita; "si aggrappa" alla vita con tutte le sue forze non soltanto per mantenere una promessa fatta al padre, ma anche perché dentro di sé mantiene viva la speranza di potersi costruire un futuro dopo la guerra e di poter riconquistare il suo posto nel mondo. Ecco il motivo per cui il bambino è tremendamente tenace.

ISPIRATO AD UNA STORIA VERA:

"Corri, ragazzo, corri!" è un'opera cinematografica ispirata alla vera storia di Yoram Fridman.
Yoram è un ebreo che, proprio durante la seconda guerra mondiale è stato costretto a separarsi dai genitori e dai fratelli per poter sopravvivere. Ha vissuto per molti mesi nella foresta, ha vagato per le campagne in cerca di ospitalità e di lavoro, fingendosi un piccolo mendicante cattolico.
E ha perso per davvero il braccio, quando aveva appena dodici anni.
Yoram Fridman
Terminata la guerra, a tredici anni Yoram è stato portato in un orfanotrofio, dove ha potuto studiare e laurearsi in Matematica con il massimo dei voti e la lode (per conseguire sia il diploma di liceo sia la laurea ci ha messo la metà del tempo!).
Nel 1962 si è trasferito in Israele e qui ha trovato l'amore di Sonja con la quale si è sposato e ha avuto due figli. Per molti anni, Yoram è stato docente ordinario di Matematica all'Università Ebraica di Gerusalemme. E' in pensione dal 2010.
Quest'anno ha compiuto 83 anni. E' molto affezionato ai suoi sei nipoti.
Potete trovare alcune di queste informazioni sulla vita di Yoram alla fine del film, prima dei titoli di coda.

... Quando penso che un bambino scampato alla Shoah è divenuto un ragazzo incredibilmente intelligente e un uomo realizzato sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista affettivo, allora sono convinta che Dio doni a certi uomini una straordinaria forza d'animo e un'ammirevole capacità di accettare e di elaborare le atrocità della storia.

Anche se credo che per un po' di tempo non vedrò più film di storia, perché nel 99% dei casi narrano grosse disgrazie. Sono avvincenti, è vero, ma decisamente tremendi.
Il ragazzino rimasto senza braccio mi ha davvero impressionata e rimarrà per molto tempo nel mio cuore.



3 ottobre 2015

Le bellezze (e i difetti) dell'Expo:


Giovedì 24 settembre sono andata all'Expo di Milano con i miei zii.
Questa enorme esposizione potrebbe essere considerata una città nella città, dal momento che comprende un'area di 1,1 milioni di metri quadri della zona nord-ovest di Milano e ospita i padiglioni di circa 150 paesi.

Per dar vita a tutto ciò è stato ovviamente necessario il contributo di architetti di fama internazionale che hanno configurato questo centro espositivo alla maniera delle città dell'antica Roma, basate su cardo e decumano, due strade perpendicolari sulle quali si affacciano non soltanto i padiglioni dei paesi partecipanti ma anche aree dedicate alla ristorazione.
Padiglione Italia
I padiglioni nazionali sono stati costruiti a spese dei paesi partecipanti, molti dei quali hanno anche pensato a costruire dei complessi architettonici fedeli a criteri di efficienza energetica: tra questi, è importante considerare il padiglione italiano, ispirato ad una foresta urbana e ricoperto da pannelli fotovoltaici inseriti nel vetro che lo rendono un edificio ad emissioni quasi zero. Inoltre, il cemento bianco di questo palazzo cattura lo smog perché le particelle sporche dell'aria, una volta attratte, vengono depurate chimicamente.

Il Padiglione Zero ospita le Nazioni Unite e racconta la storia dell'umanità attraverso il suo rapporto con il cibo. Il Parco della Biodiversità invece è un grande giardino in cui è riprodotta la varietà degli ecosistemi del nostro Pianeta.
Albero della vita
Ci sono anche degli spazi riservati ai bambini, in modo tale che anche loro possano conoscere le tematiche dell'Expo 2015.
L'Expo di Milano comprende circa 12 mila alberi. Una delle zone che a mio avviso esercitano un particolare fascino sui visitatori è il Lago Arena, con "l'albero della vita" che si erge al centro. Molto suggestivi sono i giochi d'acqua di questa zona.

Lo slogan dell'iniziativa è "Nutrire la vita, energia per il Pianeta". Dunque, l'Expo 2015 rappresenterebbe un'ottima occasione per riflettere sulle contraddizioni che caratterizzano il nostro mondo: se da una parte in molte zone dell'Africa e dell'Asia i bambini sono denutriti perché soffrono la fame, dall'altra, in Europa e negli Stati Uniti, l'obesità è in vertiginoso aumento tra i bambini e i giovani, a causa del troppo cibo. Senza contare che ogni anno vengono sprecate circa 2 miliardi di tonnellate di cibo.
Io ritengo che l'Expo 2015 sia molto più di una vetrina in cui i paesi del mondo mostrano le proprie tecnologie e le proprie risorse agricole.
L'Expo di Milano è soprattutto una piattaforma di confronto tra paesi che, pur coltivando tradizioni alimentari molto diverse, si prefiggono di promuovere innovazioni per un futuro sostenibile e di pensare a delle soluzioni che attenuino il grande divario tra paesi ricchi e paesi poveri.
Ogni paese partecipante interpreta lo slogan di questa manifestazione. C'è però chi lo interpreta bene e chi lo interpreta male, c'é chi ci ha messo l'anima per realizzare il proprio padiglione e chi invece si è impegnato molto poco...
Il Padiglione argentino per esempio, è stata una delusione: un'enorme architettura all'interno della quale nulla era inerente al tema dell'alimentazione: un bar, musica ad altissimo volume e alcuni ballerini di tango; nient'altro.
Carino invece il Padiglione francese, pieno di oggetti da cucina. Proprio qui ho avuto l'occasione di assaggiare anche un antipasto parigino con filadelfia, erba cipollina e chicchi d'uva. Devo ammettere che inizialmente ero piuttosto scettica di fronte a questa singolare combinazione, poi però l'ho davvero apprezzata.
Consiglio anche il Padiglione del Nepal: esso è esteticamente meraviglioso ed elaborato, dal momento che gli intagliatori hanno scolpito a mano le colonne dell'edificio. Oltre alla statua d'oro del Buddha che si trova al centro di una piccola stanza dalle pareti di legno, c'è anche la possibilità di gustare piatti tipicamente nepalesi.
Ghana e Costa d'Avorio invece concentrano la propria attenzione sulle piante di cacao (d'altra parte, non dimentichiamo che la Costa d'Avorio è il secondo produttore mondiale di cacao).
Oggetti da cucina, all'interno del padiglione del Qatar
Meritano moltissimo anche i padiglioni del Qatar e dell'Israele: oltre ad essere dei bei complessi architettonici, hanno anche una particolare funzione didattica, dal momento che al loro interno
vengono spiegati in modo davvero esauriente sia il processo di desalinizzazione delle acque del mare sia i significativi miglioramenti che hanno subito le tecniche agricole qataresi e israeliane.




Ad ogni modo, il mio preferito è il Padiglione cinese: al suo interno vengono spiegate anche le proprietà benefiche dei vari tipi di thé:
-il thé scuro ha proprietà digestive e antitumorali.
Padiglione Cinese
-il thé nero, oltre a rafforzare le ossa, previene le sensazioni di freddo e di stanchezza.
-il thé verde regola il livello di colesterolo nel sangue e protegge dai tumori della pelle.
-il thé giallo ha molte vitamine (A, B2, C e P) e, se assunto alla sera, aumenta la sensazione di relax.
-il thé bianco, oltre a prevenire malattie cardiovascolari, contrasta tutti quei batteri del cavo orale che danno origine a placca e carie.

Ho letto e fotografato tutti i cartellini che descrivevano i benefici del thé: ne farò tesoro, anche perché io sono solita berne moltissimo (arrivo anche a 5 tazze al giorno!) nel periodo novembre-aprile.
E, dopo l'elenco di tutte queste proprietà benefiche non mi resta che dire: "Sono fiera di essere una teinomane"!
Mi sono piaciute anche le statue in argilla e terracotta che mostravano la lavorazione e la cottura dell'anatra.
Poi, all'interno di una grande sala, abbiamo visto un video relativo a una famiglia di poveri contadini delle campagne cinesi che coltivavano con grande impegno delle risaie e che alla sera si riunivano tutti a tavola, esausti ma contenti. Tutto questo mi ha fatto pensare ai "Mangiatori di patate" di Van Gogh, uno dei dipinti che ho dovuto studiare e memorizzare lo scorso anno per un esame di storia dell'arte: anche qui, una famiglia di umili contadini si raduna attorno a un tavolo per godere degli esiti dei propri raccolti. E il messaggio è molto chiaro: la condivisione di quel poco che si possiede genera un clima sereno e alimenta sentimenti di affetto e di devozione verso la famiglia. E questa analogia mi ha commossa.
"Ma da quando in qua si va all'Expo per commuoversi??!" si domanderanno alcuni di voi.
Sono fatta così, ho le lacrime abbastanza facili. E i lettori che mi seguono da un bel po' di tempo ormai lo sanno bene!

Non ho fatto in tempo a visitare il Padiglione dell'Italia, e mi è dispiaciuto molto perché c'era una coda lunga kilometri, prova evidente del fatto che il mondo conosce e apprezza la cucina italiana. Comunque in un'intera giornata non c'è il tempo materiale per poter entrare in tutti i complessi architettonici.

Per concludere, vi confido un aspetto che non mi è piaciuto affatto: la presenza di un ristorante McDonald's vicino al padiglione del Qatar, tra l'altro gremìto di gente!!
Anzi, a dire il vero, McDonald's è uno degli sponsor dell'Expo... Non è un'enorme contraddizione questa??
Dunque, l'Expo mira a valorizzare tematiche quali l'equilibrio alimentare, l'importanza di una vita sana e il rispetto della natura che ci circonda. Invece, la famigerata multinazionale McDonald's prepara un cibo scadente e di pessima qualità, e lo dico per esperienza personale: in un week-end di maggio con un'amica sono stata al McDonald's di Verona in Corso Porta Nuova e, una volta tornata a casa, io sono stata male tutta la notte e anche la mattina del giorno seguente. Il pane, oltre ad essere insipido, aveva l'aspetto delle spugne che si utilizzano per lavare i piatti!
Mai come allora ho rimpianto la cucina dei ristoranti pugliesi!
Credo che la cucina pugliese sia la migliore del mondo. Dieci volte meglio anche di quella veronese (noi veronesi siamo bravi soprattutto nella preparazione di risotti e tortellini).
All'Expo c'é anche l'occasione di gustare prodotti pugliesi: approfittatene; io per esempio ho ordinato una pizza che era la fine del mondo!!

Riporto le parole di Carlo Petrini, presidente di "Slow Food": "Expo sembra trasformarsi sempre più in un campo di battaglia. In un luogo dove i due volti del cibo-il sistema di produzione, distribuzione e consumo industriale e l'agricoltura familiare, i produttori di quel cibo che è davvero in grado di nutrire il mondo-saranno faccia a faccia, l'uno davanti all'altro. Expo 2015 si è posta un obiettivo ambizioso come pochi: interrogarsi su un tema cruciale: come nutrire il Pianeta in futuro. In quest'ottica, la presenza di McDonald's suona più come un autogoal clamoroso che non come un'affermazione del diritto di confrontare liberamente le varie tesi, che Expo vorrebbe garantire".



Padiglione del Qatar

Padiglione del Turkmenistan

Padiglione Ecuador

Padiglione Nepal-una parte della struttura
Padiglione Stati Uniti

Orti verticali-Padiglione degli Stati Uniti