29 ottobre 2018

La conversione dell'Innominato (III):

                 
Dobbiamo festeggiare con un banchetto il suo ritorno, 
perché questo mio figlio era per me come morto e ora è tornato in vita, 
era perduto e ora l'ho ritrovato.
               
(Lc 15, 23-24)

... Dopo una notte tormentata e dopo il sorgere del sole, l'Innominato decide andare dal cardinal Federigo Borromeo.
Salto il 22° capitolo, dato che si tratta soprattutto di una digressione relativa alla personalità del cardinale e alla sua storia passata.

Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato. 
(Promessi sposi, cap. XXIII°)

Queste prime due righe e mezzo probabilmente non vi sembreranno meritare una spiegazione approfondita. "E' tutto chiarissimo", starete pensando.
In realtà dovrei fare un parallelismo con il capitolo VIII° del romanzo.
Nel caso in cui vi capitasse di prendere in prestito oppure addirittura di acquistare l'edizione quarantana dei Promessi Sposi dotata di illustrazioni realizzate dall'incisore sabaudo Francesco Gonin, incaricato peraltro da Alessandro, vi accorgereste anche voi di questa vignetta, che si trova a sinistra della pagina:



Il personaggio dell'illustrazione è proprio il cardinal Federigo, assorto nella lettura.
Al capitolo VIII°, si trova invece l'immagine di Don Abbondio:


Carneade... Chi era costui? Questo si domanda il curato di Pescarenico, mentre non immagina minimamente che poco dopo Renzo e Lucia gli compariranno davanti con Tonio e Gervaso, in modo tale da poter attuare il piano di Agnese del matrimonio a sorpresa.
Notate che è seduto sulla lettera "C".
Don Abbondio è ritratto di profilo con la mano sulla guancia, Federigo è invece frontale e con una mano sulla fronte chinata verso il libro.
E' facile per i lettori immaginare Federigo seduto davanti a una scrivania o a un tavolo.
Di Don Abbondio, l'autore dice che era seduto su un "seggiolone".
C'è soltanto una cosa che li accomuna: entrambi leggono.
Però che cosa?!
Don Abbondio legge un libricciolo, Federigo sta studiando, come è solito fare nei momenti di tempo libero.
Ricordate che il verbo studiare deriva dal latino studeo, studere e quindi "applicarsi a, dedicarsi con zelo a"... alla cultura! L'arcivescovo sta leggendo forse un trattato di teologia o di filosofia morale.
Il termine libricciolo sta ad indicare un libro di poca importanza.
Modestamente: sono uscita con 8 dal Liceo Classico, mi sono laureata in Lettere Classiche con 105 ma non so se Carneade fosse stato filosofo o storico o letterato... Non so nemmeno se fosse stato greco o latino!! Di Carneade non me ne frega una mazza in effetti...
Gli autori rilevanti e significativi sono ben altri.
Ad ogni modo, la versione online del romanzo illustrata da Gonin la trovate anche a questo link:
https://it.wikisource.org/wiki/I_promessi_sposi_(1840)/

Il cappellano annuncia a Borromeo la visita dell'Innominato.

“Lui!” disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: “venga! venga subito!”
“Ma...” replicò il cappellano, senza moversi: “vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso...”
“E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?”
“Ma...” insistette il cappellano: “noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però, quando viene il caso, mi pare che sia un dovere... Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro...”
“E che hanno fatto?” interruppe il cardinale.
“Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato...”
“Oh, che disciplina è codesta,” interruppe ancora sorridendo Federigo, “che i soldati esortino il generale ad aver paura?” Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: “san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.”
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)

Ho sottolineato con un viso animato e interruppe ancora sorridendo.
Un viso animato è un viso che risplende di gioia, un viso che reagisce a una "scossa del cuore". Una scossa provocata da qualcosa di bellissimo che si vede o si sente.
E ho collegato il sorriso di Federigo alla tematica dell'alba.
In latino il verbo sorgere è il deponente orior, da cui le espressioni oritur risus, "nasce un sorriso",  e gli ablativi assoluti orta luce, ovvero, "al mattino" e orto sole "spuntato il sole".
E' vero, è già giunta l'alba di un nuovo giorno.
Ma, se per l'Innominato, questa alba è anche interiore, dal momento che da quella mattinata egli deciderà di cambiare completamente il proprio stile di vita, deciderà di farsi conquistare dalla luce del bene, per Federigo quest'alba sarà memorabile, dal momento che le lacrime e il tormento di questo vero convertito gli toccheranno l'anima.
Ecco dunque che un'ordinaria mattinata di tranquillità e di studio diviene lo sfondo temporale di una gioia inaudita: il criminale del secolo che giunge, contrito e affranto, alle porte della sede di un cardinale.
Federigo si richiama all'esempio di San Carlo, suo cugino.
Nel capitolo precedente in effetti si era detto che: Federigo fanciullo e giovinetto aveva cercato di conformarsi al contegno e al pensiero di un tal superiore.
Questo suggerisce la maestà morale del cardinale che sta per incontrare l'Innominato.

Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)

Con le braccia aperte corrisponde al latino aliquem in sinu et complexu recipere.
("abbracciare qualcuno forte e tenerselo ben stretto al cuore". No. Su nessun vocabolario si trova qualcosa del genere accanto ad un'espressione. Solo io lo scrivo, io che a volte interpreto un po' liberamente questa lingua! Accanto a questa frase latina si trova solo la traduzione: "a braccia aperte" ).
In questa scena, l'Innominato è ancora inquieto, anche se si sta piegando alla mitezza.
Del cardinale invece si mettono in luce i pensieri contemplativi e la purezza.
Certo, nell'Innominato c'è ancora un moto d'orgoglio. Pentito, sottomesso e miserabile formano un climax ascendente.
Luigi Russo, nell'analisi di questo passo, osserva che: La descrizione dello stato d'animo dell'Innominato procede per coppie di sostantivi o di azioni: desiderio e speranza confusa, stizza e vergogna, confessarsi in colpa e implorare un uomo.
 
Altro elemento, utile nella mia ricerca degli oggetti: la semplicità della porpora.
Con questo si allude alla veste del cardinale, bella sì, maestosa, ma indossata da un uomo semplice e umile.
Nel primo capitolo trovate pezze di porpora. 
Le pezze non sono oggetti reali dal momento che sono inserite in una similitudine. 
La luce del sole già scomparso si riflette sui massi del paesaggio, come delle inuguali pezze di porpora. 
E' Alessandro narratore che ammira questo suggestivo quadretto della campagna lombarda, come omaggio ai suoi luoghi di gioventù. Don Abbondio non si accorge di nulla. Don Abbondio è un abitudinario come Kant, nel senso che fa sempre la stessa passeggiata alla stessa ora e negli stessi luoghi. Non coglie più, o forse non è mai stato in grado di cogliere, la bellezza del paesaggio.

 “oh!” disse: “che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”
“Rimprovero!” esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
“Certo, m’è un rimprovero,” riprese questo, “ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.”
“Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?”
“E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi.”
L’Innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. “E che?” riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: “voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”
“Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.”
“Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo,” rispose pacatamente il cardinale.
“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”
“Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?”
“Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?” 
 Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: “cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. (...)
(Promessi sposi, cap. XXIII°)

Addirittura la visita dell'Innominato è un motivo di rimprovero per Borromeo!
Borromeo sembra qui il padre misericordioso della parabola di Gesù narrata nel Vangelo di Luca:
nonostante il figlio che ha consumato tutta la parte di eredità con le prostitute sia ancora lontano dalla porta di casa, egli gli corre incontro e lo abbraccia.
Borromeo inoltre è pacato, è una pacatezza questa che invita l'Innominato a  confidarsi sempre più, a proseguire quel dialogo.
Non dovete vedere questo incontro come se fosse un colloquio tra un religioso consacrato e un peccatore, bensì come uno scambio verbale tra due uomini, con tutta la loro umanità di creature fragili e assetate di Infinito.
“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?” è forse una delle esclamazioni più drammatiche di tutto il romanzo.
Due capitoli prima, lo stesso Innominato considerava Dio come l'illusoria soluzione di salvezza dei deboli. Ora invece, il debole è lui e si sente talmente debole che teme di non poter mai arrivare a vederlo e a sentirlo.
Con questa esclamazione, egli ammette a se stesso di essere stato lontano anni luce da Dio, per gran parte della sua vita.
Tenete presente che il lettore intuisce che l'Innominato è più o meno coetaneo di Fra' Cristoforo.
Al momento della conversione, l'Innominato ha circa 59 anni, non 19!
Questo lo intuiamo nel punto in cui Alessandro inserisce, a fine cap. XIX°, una breve descrizione del suo aspetto fisico.
La sua giovinezza e gran parte della sua adultità se ne sono andate... se ne sono andate, prive di azioni positive ed edificanti.
Non è mai troppo tardi per convertirsi a nuova vita, anche se credo che, a 59 anni, una vita di nefandezze e di delitti pesi parecchio sulla coscienza.
L'Innominato cambia vita, e questo è indubbiamente un bene, ma il passato non si cancella mai.
Un passato come il suo è motivo di vergogna ma anche incentivo a riparare torti e a commettere azioni oneste e giuste.
La vita di un diciannovenne può comunque essere contrassegnata o segnata dal male.
Non certamente da una catena di delitti ma magari soprattutto dal male patito... patito per colpa di adulti o insensibili o inconsistenti o superficiali o tutte e tre le cose insieme. 
Diamo dei valori a questi diciannovenni che fanno tenerezza! Sosteniamoli nella loro formazione umana innanzitutto! (Potrebbero essere i miei fratellini! Perché io non ho tanta più vita di loro...) 
Eviteremmo così la loro futura infelicità!
Io sono più o meno come loro. Come loro mi sto costruendo, con impegno e fatica, un futuro.

A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.
“Dio grande e buono!” esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio!” Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’Innominato.
“No!” gridò questo, “no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.”
“Lasciate,” disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, “lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.”
“È troppo!” disse, singhiozzando, l’Innominato. “Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete... con chi!”
“Lasciamo le novantanove pecorelle,” rispose il cardinale: “sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto.” Così dicendo, stese le braccia al collo dell’Innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)

Molto umano, questo pianto dell'Innominato. E' proprio il tipico pianto liberatorio.
“Dio grande e buono!” Ecco. Questa esclamazione dell'arcivescovo non è che mi piaccia poi troppo...  Con tutto quello che ne segue in quello stesso discorso tra virgolette: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio!”
Cioè, che cavolo di bisogno hai di fare l'oratore, che bisogno hai di fare della retorica apostrofando Dio Padre quando di fronte a te c'è un peccatore che piange e che avrebbe un gran bisogno di una carezza, di un abbraccio, di ulteriori parole che possano stimolare e incentivare i suoi propositi di bene?
Poi è vero che l'abbraccio glielo dà ed è vero che l'Innominato se ne ritiene indegno, ma... perché non darglielo subito, al primo singhiozzo? 

Nemmeno questa vignetta mi piace! 
Perché Alessandro non ha detto a Gonin di disegnare l'abbraccio tra i due personaggi, anziché quelle mani da retore di Federigo rivolte al cielo?!


Una bella trovata è stata invece quella di inserire il riferimento alle novantanove pecorelle.
Anche questa parabola si trova nel Vangelo di Luca. Cito i versetti:

 Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
(Lc 15, 3-7)

L’Innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”
“È un saggio,” disse Federigo, “che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!”
 “Me sventurato!” esclamò il signore, “quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.”
Federigo si mise in attenzione; e l’Innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello...
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)

Anche qui... erano veramente necessarie le esclamazioni dell'Innominato: “Dio veramente grande! Dio veramente buono!"?

Dice Luigi Russo di questo passo: Sono queste parole troppo piccole per la grandezza dell'avvenimento e per la grandezza dell'uomo stesso che le pronunzia. E' questo uno dei momenti ineffabili, tradotto un po' pedestremente: la preoccupazione edificatoria raffredda le parole. 

"(...) io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso (...)"
Questa parte di discorso invece mi ricorda alcuni versi del salmo 50, composto da re Davide.
Egli fa scrivere: Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di Te, contro Te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto, perciò sei giusto quando parli, retto nel Tuo giudizio.

Allora, la prof. Bonato, cioè mia mamma, non arriva mai a spiegare i contenuti dei salmi della Bibbia.
Affronta San Paolo, affronta la Genesi, affronta parti dell'Esodo, ai "primini" spiega le forme di religiosità preistorica per passare poi ad alcuni testi di Vangeli (la sua tesi di Magistero in Scienze Religiose era sul tema del banchetto nel Vangelo di Luca) ma mai i salmi.
Comunque, per quale motivo Davide si considerava così peccatore? Era re d'Israele e un giorno, passeggiando, aveva visto Betsabea, giovane donna, fare il bagno.
L'aveva desiderata, pur sapendo benissimo che era sposata con Uria l'Ittita, uno dei suoi soldati.
Non passa molto tempo, e Betsabea rimane incinta di re Davide, mentre il marito si trova in guerra.
A seguito di questo evento, per poter sposarsi, Davide ordina di mettere Uria in prima fila nello schieramento dell'esercito. Questo inevitabilmente causa la morte del soldato.
In seguito, il profeta Nathan giunge da re Davide per rimproverarlo.
Solo allora Davide si pente. E il figlio che Betsabea partorisce nasce morto.
Un dettaglio rilevante: Davide e Betsabea divengono poi i genitori del perspicace Salomone.

Ad ogni modo, concludo la mia rassegna di post sulla conversione dell'Innominato: egli manifesta di fronte a Federigo Borromeo l'intenzione di liberare Lucia.
Il cardinale allora fa chiamare Don Abbondio che, accompagnato da una donna di Pescarenico, moglie di un sarto (entrambi "innominati" anche loro, cioè privi di nome proprio), sale con l'Innominato al castello.
Notare che il mediocre e pavido curato di Pescarenico nutre continuamente dei dubbi sulla conversione dell'Innominato.
Nel capitolo successivo, una Lucia pallida e stremata dal digiuno e dal terrore, esce dal castello.
Per alcuni giorni rimane nella casa della famiglia della moglie del sarto, poi verrà affidata ad una frivola e superficiale Donna Prassede.




20 ottobre 2018

La conversione dell'Innominato (II):


Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo. 
Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 
Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti 
e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi.
(Ezechiele 36, 26-27)


Alcuni giorni fa ero arrivata alla fine del ventesimo capitolo. 
Ora riassumo la prima parte del ventunesimo, oggetto della trattazione di questo post.
La vecchia, obbedendo all'Innominato, conduce una Lucia impaurita e atterrita all'interno del castello, nella propria stanza. 
Poco dopo, il Nibbio si confida con l'Innominato a proposito dell'esito della spedizione. 
Stranamente parla di compassione, cosa che stupisce il suo padrone.

"(...) è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo".
 (dal discorso del Nibbio, capitolo 21)

L'Innominato, profondamente scosso da questo discorso, va a visitare Lucia, dopo aver ordinato il riposo al Nibbio. 

"Voglio vederla.... Eh! no.... Sì, voglio vederla."
E d’una stanza in un’altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all’uscio con un calcio.
“ Chi è? ”
“ Apri. ”
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l’uscio si spalancò. L’Innominato, dalla soglia, diede un’occhiata in giro; e, al lume d’una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio.
“ Chi t’ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? ” disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
“ S’è messa dove le è piaciuto, ” rispose umilmente colei: “ io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c’è stato verso. ”
“ Alzatevi, ” disse l’Innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
“ Alzatevi, chè non voglio farvi del male.... e posso farvi del bene, ” ripeté il signore.... “ Alzatevi! ” tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano. 
(Promessi Sposi, capitolo 21)

E' vero, l'Innominato picchia la porta della stanza con un calcio, e questo dimostra tutta la sua selvatichezza, ma un pochino traspare, in quel cipiglio iracondo, uno sprazzo di rispetto e di pietà per la vittima Lucia. 
Egli infatti si arrabbia con la vecchia: Chi t’ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata?
Sacco di cenci. Oggetto che compare in similitudine. 
Nel capitolo secondo, Don Abbondio è bianco e floscio come un cencio che esce dal bucato, quando Renzo gli chiede: Chi è quel prepotente che non vuole che io sposi Lucia?
Anche qui, il cencio compare in similitudine, quindi non è un oggetto realmente presente nella narrazione.
In questo passo vi farei notare soltanto un altro aspetto: i tre imperativi alzatevi
Il primo, pronunciato dal signore nel momento in cui si avvicina a Lucia, ha un qualcosa di imbarazzato. E' l'imbarazzo che pervade solitamente un animo che da troppo tempo non prova più tenerezza né compassione e che probabilmente non ha ricordi di averle mai sentite in vita propria.
Il secondo alzatevi è accompagnato da un'intenzione non voglio farvi del male e anche da una promessa: e posso farvi del bene.
Il terzo alzatevi, pronunciato a voce decisamente più alta, è come un tuono che risuona in una notte buia, nuvolosa e senza vento. E' un alzatevi pronunciato da una persona che si sta pian piano avviando verso il bene e che si adira quando vede che gli altri non gli riconoscono questo sforzo.
 
Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito in ginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: “ son qui: m’ammazzi. ”
“ V’ho detto che non voglio farvi del male, ” rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore.
“ Coraggio, coraggio, ” diceva la vecchia: “ se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male.... ”
“ E perché, ” riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, “ perché mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?.... ”
“ V’hanno forse maltrattata? Parlate. ”
“ Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché?
perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio.... ”
“ Dio, Dio, ” interruppe l’innominato: “ sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi....? ” e lasciò la frase a mezzo.
“ Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a ***, dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui.... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! ”
(Promessi Sposi, capitolo 21)

Lucia appare del tutto disarmata: son qui: m’ammazzi, dice al suo tiranno. 
L'Innominato ripete la sua intenzione: v’ho detto che non voglio farvi del male. 
Alessandro però scrive una precisazione: con voce mitigata. Vale a dire che, a partire da questo preciso istante, i ruoli, almeno dal punto di vista psicologico-morale, si invertono: l'Innominato diviene più debole, più fragile, sempre più sconcertato dinanzi alle parole della sua vittima, umile, semplice, piangente eppure dotata di una gran forza interiore, proveniente da una salda fede in Dio.
Quel mi fa patire le pene dell’inferno è passato nel nostro linguaggio quotidiano senza un particolare riflesso religioso. Ma, in quell'attimo, le pene dell'inferno si trovano nell'animo dell'Innominato, che urla, non tanto a Lucia, quanto piuttosto a se stesso: Dio, Dio, sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato.
Per di più, egli lascia l'ultima frase a metà, per non pronunciare il termine compassione
L'ho già scritto altre volte: compassione deriva da "cum"+ "patior": soffrire con, sentire con l'altro.
E' sostanzialmente un sentimento di partecipazione ai dolori e alle angoscie altrui.

 “ Non iscacci una buona ispirazione! ” proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. “ Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!.... Forse un giorno anche lei.... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene....! ”
(Promessi Sposi, capitolo 21)

Vedete che Lucia parla di buona ispirazione? Ha intuito un certo intenerimento nel suo interlocutore.

Vado avanti di alcune pagine, perché quello che interessa è anche e soprattutto il travaglio interiore dell'Innominato.
Successivamente, l'Innominato lascia la stanza. 
Lucia, con grande semplicismo religioso, prima di addormentarsi sfinita, recita il rosario e promette alla Madonna la castità permanente. Ma il suo sbaglio è quello di offrire a Maria la volontà di un altro, al quale era già stata promessa, come dirà poi Fra Cristoforo al capitolo 36.
L'Innominato trascorre una notte insonne, in preda a miriadi stati d'animo.
E' l'unico individuo sveglio all'interno del castello.

— Che sciocca curiosità da donnicciola, — pensava, — m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?
E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava invece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. — È viva costei, — pensava, — è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi.... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via! — disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: — via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa. —
(Promessi Sposi, capitolo 21)

Inizialmente, l'Innominato rimprovera se stesso e anche gli altri: la sua è stata una pura curiosità da donnette, il Nibbio è un bestione, uomini e donne strillano, le donne belano... a leggere i suoi pensieri sembrano pecore.
Sapete che le pecore sono animali che nelle favole, almeno in quelle che leggevo io, vengono spesso sopraffatte e sacrificate. 
L'Innominato brontola tra sé e sé, brontola a causa di un fortissimo sgomento interiore, causato anche dal disagio di aver intuito il proprio animo che va ammorbidendosi.
Già pensa di chiedere perdono a Lucia, già pensa di liberarla... ma prima di fare tutto ciò che egli effettivamente farà al 24° capitolo, è assolutamente necessario e prioritario svolgere un doloroso esame di coscienza, è assolutamente necessario e prioritario quindi mettere in discussione ogni cattiva azione compiuta.

Scrive Luigi Russo a questo proposito: Qui Manzoni non descrive soltanto la crisi di uno scellerato che si converte al bene, ma la crisi di un uomo in universale, quando egli si distacca dal suo passato, da una passione che riempiva tutta la sua vita, mentre ora tutti i miti di una volta si disabbelliscono, si scolorano, impallidiscono, diventano gelo e morte.
 
Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
— La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo? — 
(Promessi Sposi, capitolo 21)

Eh bravo: ma chi è Don Rodrigo? Il pascià delle Indie orientali per caso?! 
Per l'Innominato, ormai convertito al bene, il signorotto che esercita la propria prepotenza a Pescarenico è sempre più un elemento di fastidio.
Al di là delle mie scherzose allusioni all'Oriente: Alessandro, quando fa menzione della dimora di Don Rodrigo, dice spesso palazzotto. E' l'accrescitivo di palazzo.  
Don Rodrigo è un irresponsabile, un capriccioso, un viziato, un immaturo, un egoista, un delegante.
E' un nobile ma è decisamente un uomo mediocre, di poca intelligenza.
Poi è vero che fa anche pena quando si pensa al modo in cui è morto: appestato e solo, abbandonato da tutti.
Ma ricordatevi che senza il suo stuolo di bravi obbedienti e fedeli ai quali viene delegato e affidato ogni compito, senza le insistenze e le provocazioni del Conte Attilio, Don Rodrigo non sarebbe nessuno. Il palazzotto è l'abitazione di un tiranno certamente prepotente, ma debole... un debole che si impressiona alla minaccia di un frate: verrà un giorno.

A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’Innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico.
(Promessi Sposi, capitolo 21)

Capite adesso il motivo per cui ho inserito, come introduzione al post, la citazione di Ezechiele? 
L'ho tratta dal mio breviario, da un cantico che conosco bene a memoria.
Nella mente del personaggio corrono, come masse di nubi vaporose e scure, i ricordi di ogni omicidio, di ogni scelleratezza.
Coscienza e memoria si risvegliano entrambe nello spirito dell'Innominato, che per un istante non sopporta quei ricordi che in passato erano motivo di gloria e di vanto, ma che ora sono come una terribile vergogna, una macchia nera.

Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire.
(Promessi Sposi, capitolo 21)

... Subito però riaffiora il desiderio dell'Eterno... 
Eccolo qui:

... gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia... E se c’è quest’altra vita...! — A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! — E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza.
(Promessi Sposi, capitolo 21)

 ...e se ci fosse davvero l'altra vita, cioè la vita eterna? 
E' proprio questo che gli fa cadere la pistola dalle mani.
Vi rivolgo due domande significative: che cos'è la misericordia?! 
Può essere sinonimo di compassione?
Non sono sicura di averla nemmeno io, questa risposta. So l'etimologia però: da miserere + cor, cordis.
E tengo presente bene anche la formula, riferita al sacrificio di Cristo: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.

...Termino il resoconto e l'analisi di questo suggestivo capitolo dicendo che ormai è giunta l'alba...
L'Innominato si affaccia ad una delle finestre del castello. Vede molta gente che passa e che si avvia tutta quanta nella stessa direzione, tutti vestiti a festa.
Il signore si chiede che cosa stia succedendo: Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?

L'Innominato è pervaso da rimorso, pentimento, disgusto di sé... non sta affatto bene interiormente. Il suo animo non è predisposto alla festa e alla gioia. Ma questo è il suo ultimo discorso brusco all'interno del romanzo.
E intanto continua a osservare le persone che camminano, e si incuriosisce. 
Desidera soltanto sapere che cosa le spinge ad andare con tanto entusiasmo tutti quanti dalla stessa parte.
Un bravo gli riferisce che gli abitanti dei paesi vicini al castello accorrevano tutti quanti dal cardinale Federigo Borromeo. 




17 ottobre 2018

La conversione dell'Innominato (I):


Come un'aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali 
(Deuteronomio, 32:11-13)

Sia questo sia i prossimi due post sono il frutto di molteplici e numerose riflessioni che scaturiscono dalla mente di una ragazza che dal punto di vista della fede religiosa è in ricerca, è in cammino, da sempre. 
Non vorrei mai dare l'impressione di quella che "è già arrivata" e che non ha più bisogno di apprendere nulla, perché non è affatto così. 
Ho imparato molte cose, ma me ne restano almeno altre mille da apprendere! 
Mi sento una marinaia su una nave in mezzo a un vasto mare che continua a viaggiare tra le onde, desiderosa di scoprirne le varie e infinite gradazioni di colore che assumono in precisi momenti della giornata e in precise zone.

La parte del romanzo manzoniano che comprende la presentazione e la conversione dell'Innominato  è compresa tra i capitoli 19-24. In questo post parto dalle ultime tre pagine del diciannovesimo per giungere alla fine del ventesimo, nel prossimo invece mi concentrerò in particolar modo sul travaglio interiore del personaggio, descritto bene al capitolo 21, nel terzo termino con dialogo tra l'Innominato e il cardinal Borromeo, tutto compreso nel 23°.

Prima però mi conviene contestualizzare il 19°, partendo da ciò che accade un po' prima.
Il 17° si conclude con l'arrivo di Renzo a Bergamo nella dimora del cugino Bortolo. 
Nel 18°il narratore annuncia subito che nel territorio di Lecco arriva un dispaccio, ovvero, un mandato di cattura contro Renzo, inviato dal Capitano di Giustizia di Milano. 
A Pescarenico si diffonde un sentimento di stupore: com'è possibile che un bravo ragazzo come Renzo abbia dei guai giudiziari?!
Nel frattempo, Fra Cristoforo è inviato a Rimini dal Padre Provinciale, su esortazione del Conte Zio.
Il frate è un elemento di grande fastidio per Don Rodrigo e per il Conte Attilio. Quest'ultimo tra l'altro, da persona che è nobile soltanto di sangue e non d'animo, calunnia il religioso di fronte allo zio, dicendo che "quel frate è una testa calda "ha una carità permalosa verso una sua creatura (Lucia)" e che "era un plebeo che, dopo aver ucciso un nobile, per sfuggire alla forca, si è fatto frate". 
Ma noi sappiamo bene invece che Lodovico ha scelto il convento, l'umiltà e la povertà per vera vocazione. Questo lo hanno capito tutti, compresa la famiglia del nobile assassinato.
Il dialogo tra il Conte Zio e il Padre Provinciale si svolge in buona parte nel capitolo 19°, in cui si manifesta anche la decisione di Don Rodrigo di ricorrere a un certo personaggio per vincere la sua scommessa con Attilio.
Ecco di chi si tratta:

Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l'identità de' fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. (...) Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. «Riferirò», dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, «il caso d'un tale che, essendo de' primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse...» (...)

Fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. 
L'Innominato, incisione di Gonin
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Nel Fermo e Lucia era il Conte del Sagrato, nei Promessi è l'Innominato. Era così cattivo e così terribile che all'epoca, soltanto a sentirne il nome, si tremava di terrore. Non era nemmeno nominabile, da tanto che era deleterio!

Nel Fermo, la figura del Conte del Sagrato è molto legata al mondo greco-romano.
Vi faccio due esempi:
A) L'autore dice che egli si gloriava e si compiaceva del suo soprannome. Cito il passo:

(... ) forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di Scipione l’Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com’essi il nome dal luogo illustrato da una grande impresa.  
(Fermo e Lucia, tomo secondo, capitolo VII, 1823)


Vi faccio notare che l'espressione grande impresa è decisamente ironica.
Immagino che voi conosciate poco o nulla il Fermo, ma vi assicuro che è il romanzo più anti-romano che sia mai stato scritto nella storia della letteratura italiana. I paragoni con i personaggi dell'Antica Roma vengono impiegati per lo più in punte d'ironia e di amaro sarcasmo.
Forse vi starete chiedendo: ma che bisogno aveva Manzoni di scrivere un romanzo anti-romano?
Pensate al secolo in cui è vissuto: il XIX°.
Bene, l'Ottocento è il secolo in cui il romanticismo, movimento culturale di matrice artistica, filosofica e letteraria, si interroga sul passato, in particolar modo, sull'antichità. Il Manzoni romanziere risulta molto più vicino al romanticismo che non al neoclassicismo.
Mentre, nel secolo precedente, i neoclassicisti tendevano a esaltare le personalità politiche dell'Antica Roma e le loro abilità militari, i romantici invece riuscivano, con acutezza, a vederli per quello che erano stati: degli assetati di potere spesso insensibili ai reali bisogni dei cittadini.

B) Pare inoltre che il Conte del Sagrato fosse dotato di una grande abilità oratoria. Alessandro infatti lo abbina addirittura a Demostene: 

La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel picciolo popolo selvaggio.
(Fermo e Lucia, tomo terzo, capitolo II, 1823)

Questa frase è riferita al punto in cui il Conte, poco dopo essersi convertito, ritorna al suo castello, raduna tutti i bravi al suo servizio e dice loro di aver intenzione di cambiare stile di vita.
L'Innominato è un personaggio storicamente esistito.
Si trattava in effetti di Francesco Bernardino Visconti, vissuto a cavallo tra XVI° e XVII° secolo.
Francesco Visconti viveva isolato con i suoi servitori in un castello svizzero, per evitare di venire catturato dalla giustizia lombarda.
Per molti anni, egli aveva ordinato ai suoi bravi di saccheggiare le campagne venete. Egli stesso si era macchiato di diversi omicidi. Si tramanda che da giovane uccidesse le sue vittime davanti alle chiese.
La conversione di Visconti è reale: si dice infatti che nel 1619 egli avesse incontrato il cardinale Federigo Borromeo. Dopo un colloquio di due ore, era uscito dalla sede del cardinale con le lacrime agli occhi.

Prima di passare al paragrafo successivo, vorrei considerare che l'Innominato dei Promessi Sposi è una figura che appartiene alla sfera delle leggende popolari: è infatti protagonista di storie orribili, tramandate oralmente. 
Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione, d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia.  
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Anche qui, due cose:
1) Perché Manzoni, per raccontare la storia della Monaca di Monza, impiega circa due capitoli (il nono e il decimo del Promessi), mentre, nel narrare la storia dell'Innominato, risulta vago e rapido, perché impiega soltanto le ultime tre pagine del capitolo 19?!
E pensare che nel Fermo egli racconta in modo più dettagliato la vita di questo pessimo bandito.
Considerando che l'Alessandro narratore dei Promessi Sposi è più equilibrato e meno sdegnoso (c'è infatti un equilibrio perfetto tra ironia, senso morale e compassione cristiana), io penserei ad una sorta di scelta psicologica: la preferenza cioè di attribuire più importanza alla conversione del personaggio che non ai misfatti di cui si è macchiato per gran parte della sua esistenza.

 2) Stateci attenti a questa "età dell'adolescenza", perché è l'età in cui si consolida il carattere, e questo vale per tutti. Forse Alessandro non ci ha fatto caso più di tanto, ma, all'interno di questo romanzo, ha anche dato un'importanza particolare a questa fase della vita, che corrisponde tra l'altro a quello che Conrad chiama "la prima giovinezza".
L'adolescenza, che inizia alle scuole medie con una serie di cambiamenti fisici, è "l'età del discernimento", cioè l'età in cui si riesce a distinguere ciò che è buono e giusto da ciò che non lo è. Pensate a Genesio. Il mese scorso ho elaborato un post su questa figura. Egli sa che suo padre commette il male, per questo lo detesta con tutto se stesso. E da figlio costretto a vedere violenze in casa, ha un certo istinto protettivo verso la madre.
Intorno all'età del discernimento, Don Abbondio si rende conto di essere un vaso di terracotta vicino a molti vasi di ferro. Fin da giovanissimo, Lodovico manifesta un'indole violenta e al contempo onesta, visto che sin da ragazzino provava una profonda avversione verso i prepotenti.
L'Innominato, sin da adolescente, è attratto dal male.


 «Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era come un'officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall'omicidio: le mani de' ragazzi insanguinate». Oltre questa bella famiglia domestica, n'aveva, come afferma lo stesso storico, un'altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de' due stati sul lembo de' quali viveva, e pronti sempre a' suoi ordini.
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Casa qui sta per castello. Comunque, vi autorizzo a immaginare le cose più schifose e più cruente: servi che decapitano altri servi per motivi futili, magari perché si è esitato per qualche secondo ad obbedire a un ordine del padrone e altre violenze della peggior specie...
Nella prima pagina del capitolo XX° si descrive il castello dell'Innominato:

Castello dell'Innominato, incisione di Gonin
Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piùttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E anche d'una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de' giovani si rammentava d'aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
(Promessi Sposi, capitolo 20)
 
Il luogo è come un nido d' aquila in cui il criminale vive in completa solitudine. Quel castello è  una fortezza inespugnabile dove l'Innominato fa e comanda tutto ciò che vuole senza voler considerare un'autorità superiore (non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto).
E' una solitudine selvaggia.
E' una solitudine superba, come quella del suo spirito, commenta il critico Momigliano.

Che cos'è la solitudine? 
C'era una traccia alla maturità di quest'anno, ma, un po' per l'impegno da responsabile del grest e un po' per la laurea imminente non ho avuto il tempo di pensarci e di cercarla.
No piuttosto: pensavo che tra le tracce dei temi uscisse Umberto Saba, ma invece hanno messo Giorgio Bassani, sconosciuto anche a molti laureati in Lettere (tra cui la sottoscritta) e a molti insegnanti, oltre che agli studenti. Ma qualcosa come Calvino, Buzzati, Leopardi o Pirandello no, eh?!

Quando e per quali motivi una persona può essere considerata sola? ... Domanda che non voglio approfondire più di tanto, adesso come adesso. Vi lascio soltanto qualche "opzione causale":

-Uno è solo perché è lacerato da un grande dolore, un dolore tragico che nessuno potrebbe riuscire a comprendere... a meno che non riesca a incontrare una persona che ne ha vissuti di simili sulla propria pelle, oppure qualcuno che, dotato di una particolare sensibilità, possa stringerlo forte per ricucire il suo cuore spezzato. Ed è difficile con i tempi che corrono.
Sapete che cosa sto capendo io? Non è difficile relazionarsi, non sarebbe difficile: basterebbe avere la capacità di ascoltare. Ma non sappiamo né ascoltare né ascoltarci!! 
Questo vale per gli adulti e per i giovani! Che cavolo di esempio di umanità potremmo dare allora noi educatori a dei ragazzini in piena fase di crescita, se non ci sforziamo di migliorarci sotto questo punto di vista, e soprattutto, se noi per primi non ci diciamo le cose in faccia??!

-Uno è solo perché preferisce trascorrere le proprie serate da solo, coltivando i propri interessi, senza alcuna voglia di mescolarsi con un'accozzaglia di deficienti che lo deridono o che mettono in giro cattive voci sul suo conto.

-Uno è solo perché ha deciso di vivere una vita in solitudine, con contatti molto ridotti con il mondo esterno. Però non vorrei che pensaste soltanto a suore e frati: loro fanno del bene, fanno molto volontariato alle mense Caritas ad esempio.

Scorro velocemente questo capitolo: Lucia, attraverso le oscure trame di Egidio, Gertrude e i bravi dell'Innominato, viene catturata e imbavagliata con un fazzoletto in una carrozza.
Che biechi, poverina! Le chiedono la strada per Monza e quando lei si gira un istante per indicare la direzione giusta, la prendono con la forza.
La carrozza sulla quale viaggia Lucia rapita giunge a destinazione. Il Nibbio, servitore fedelissimo al crudele padrone, è stato mosso a compassione nell'assistere alle reazioni disperate di Lucia.
L'animo dell'Innimonato, già dominato da una sorta di fastidio per quel compito che Don Rodrigo gli ha affidato, inizia una guerra contro se stesso.
Dapprima chiama una vecchia serva per dirle di fare compagnia a Lucia.
Tu vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell'occhiaie.
- Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c'è... ci dev'essere... una giovine. Se c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non...
- Oh! - disse la vecchia. 
- Ma, - continuò l'innominato, - falle coraggio. 
- Cosa le devo dire? 
- Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va'. 
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzò al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso. 
(Promessi Sposi, capitolo 20)

Farsi dare lezioni di umanità dall'Innominato!!! Incredibile, vero??

Scrive Luigi Russo: Questo colloquio è la prima esplosione esteriore dell'Inquietudine che lo tormenta, quella sua iracondia improvvisa è una forma di scontroso pudore del suo più intimo sentimento. Egli, per impedire che il sentimento trabocchi, si rivolta contro se stesso, nello sforzo della dissimulazione.



12 ottobre 2018

La maternità nei Promessi Sposi:


Ho riletto il romanzo in quest'ultimo periodo, visto che devo prepararlo per un esame.
Ho notato che in quelle pagine il tema della maternità compare più volte e assume, a seconda del contesto nel quale è incasellato, o un afflato dolce e struggente, o un realismo abbastanza crudo, o una sfumatura di tenerezza.
Faccio una cosa molto strana, visto che di indole sono anche un po' matta: analizzo gli episodi relativi a questo argomento partendo da uno degli ultimi capitoli per arrivare quasi all'inizio della storia. 

CAPITOLO 34:


Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. 
Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. 
E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

Nel trentaquattresimo capitolo del romanzo manzoniano, Renzo giunge in una Milano devastata dalla miseria e dalla peste per cercare Lucia, con la speranza di poterla ritrovare sana e viva.
Riassumo brevemente ciò che è accaduto nel capitolo precedente, giusto perché abbiate un po' di contestualizzazione: Don Rodrigo ritorna a casa da una festa nella quale, scherzosamente, ha recitato un elogio funebre dedicato al cugino Conte Attilio, morto due giorni prima (però, che bene che gli voleva!), scende dalla carrozza, si fa accompagnare dal Griso (il suo bravo più fedele) in camera e già, durante la notte, avverte i sintomi della peste. Dopo un sonno molto agitato, scopre di avere già qualche bubbone. Per questo vorrebbe che il Griso chiamasse un chirurgo.
Proprio in questo frangente, il bandito al suo servizio si rivela traditore e deludente: invece di portare un chirurgo, egli ritorna al palazzotto di Don Rodrigo affiancato da due monatti che trasportano il suo padrone nel lazzeretto.
Il Griso si impadronisce di una cospicua parte di denaro di Don Rodrigo ma...il giorno successivo si ammala e muore dello stesso male. (Manzoni condanna l'avidità e la disonestà. E nutre una profonda ripugnanza verso il Griso).
Nel capitolo 34, l'autore riprende la vicenda di Renzo il quale, dopo essere rimasto per più di un anno e mezzo nella Repubblica di Venezia dal cugino Bortolo, ritorna a Pescarenico dove regnano morte e devastazione.
Per una sera, si ferma a cena da un amico di infanzia rimasto completamente solo al mondo perché l'epidemia di peste bubbonica gli ha sterminato la famiglia.
Nel suo paese natale non trova né Lucia né Agnese. Chiede notizie di loro a un don Abbondio piuttosto disinformato e ancor più pavido dopo essere sopravvissuto al "gran flagello".

Giunto nuovamente a Milano, i suoi occhi osservano un oggetto singolare di pietà.
Il giovane protagonista vede infatti, sul varco della porta di una casa, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa.
Avanzata ma non trascorsa. 
Provate a ipotizzare l'età anagrafica della signora. Io dico intorno ai 38 anni, periodo della vita in cui si è ancora giovani ma non troppo. 
E' il periodo della vita in cui può ancora esserci in una fisionomia umana, maschile o femminile, un bel volto e un corpo slanciato e forte. Però non è strano che verso i 40 anni compaiano i primi capelli bianchi. 
Non è affatto la terza età quella di questa donna; ma è il transito dalla giovinezza alla maturità adulta, fisica e mentale. Poi è verissimo anche che esistono degli adolescenti e alcuni ventenni che ragionano molto meglio dei "nearly 40", come li chiamo io, ma questa è una faccenda poco inerente al testo che sto analizzando e interpretando.
Questa donna è descritta come bella ma languida: qui il termine passione è strettamente legato ad uno stato d'animo di dolore. Bellezza molle e maestosa significa sostanzialmente espressione del viso dolce, grande nella sua dignità di sopportazione di una tragedia immane e non-naturale: la morte di una figlia. La signora non piange, anche se credo che Alessandro (ormai ho una tale familiarità con gli autori della letteratura italiana che mi capita di chiamarli per nome), quando scrivesse di lei, avesse immaginato una creatura femminile con gli occhi un po' arrossati e un po' umidi.
"(...) che brilla nel sangue lombardo". Questa relativa a mio avviso però poteva anche risparmiarsela!! E' un orgoglio locale che sinceramente fa abbastanza rabbia!
Intanto la bellezza di qualcuno non dipende dal luogo geografico in cui è nato e cresciuto, per questo quella qualità non brilla soltanto nel sangue lombardo!
Oltre a ciò, consideriamo che la peste del 1630 si era diffusa in tutto il Nord Italia quindi anche a Torino, a Verona, a Padova, a Udine ci saranno sicuramente state donne "molli e maestose" che, con dignità mista a sofferenza, tenevano tra le braccia le loro figlie uccise dall'epidemia!

Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.

Queste righe mi fanno pensare alle ultime frasi che, nell'ottobre del 1989, la giovanissima Chiara Luce Badano, consapevole di essere molto vicina alla morte, diceva alla madre: "Non voglio lacrime al mio funerale, voglio gente che canta. Mettimi un abito bianco, mamma, e dì alla gente: «Ora Chiara Luce vede Gesù»".
Lei, come ben ha interpretato Mariagrazia Magrini, l'autrice della sua biografia, voleva essere bella per il Regno di Dio.
Da notare inoltre che Alessandro, proprio nel periodo in cui lavorava ai Promessi Sposi, aveva subito la perdita prematura di otto figli... Chissà se lui e sua moglie, dotati di fede sincera in Dio, li avevano lavati, ben sistemati e vestiti con abiti bianchi per "prepararli alla vita eterna"...

(...) una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno (...)

Questa parte del brano mi ricorda il braccio del Gesù senza vita rappresentato nella Pietà di Michelangelo. Qui sotto inoltre potete vedere un particolare che colpisce qualsiasi spettatore di quest'opera: il volto molto giovane di Maria, che sembra una ragazza alla fine dell'adolescenza.
Lo scultore ha voluto farle il volto di ragazzina per evidenziare la sua purezza interiore.
"La pietà "di Michelangelo
Oltre a questo, penso anche a una citazione che riporta Ezio Raimondi, autore del saggio di commento all'opera di Manzoni intitolato Il romanzo senza idillio.
E' un discorso che lo scrittore, nel Fermo e Lucia, prima versione della storia, attribuisce a un Fra' Cristoforo piuttosto sentenzioso e pedante.
Lo riporto in maniera indiretta.
Nella parte in cui scoppia la peste, il frate dice che questo flagello è come una grandine che percuote una vigna e che rovina tutti i suoi grappoli. Dopo il passaggio della grandine, sulla vite rimangono soltanto i grappoli più brutti, mentre tutti gli altri sono caduti.
Profondamente diverso è il discorso dello stesso personaggio all'interno del 36° capitolo dei Promessi Sposi.
Questo religioso appare come un santo, contento di donare la sua vita per gli altri nel lazzeretto di Milano:

È già molto tempo, - rispose con tono serio e dolce il vecchio, - che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo. 

Arriviamo al punto in cui il monatto che, con grande rispetto, cerca di trasferire il corpo della bambina sul carro.
"Turpe" credo che abbia un doppio significato: o è sinonimo di "truce" oppure è collegato alla lugubre e tristissima funzione del personaggio (trasportare i malati al lazzeretto e caricare i cadaveri). Neanch'egli dotato di nome proprio, proprio come la donna che ha appena perduto sua figlia.

Il monatto e la donna con la bimba morta tra le braccia sono soltanto delle comparse.
Eppure suscitano un sincero coinvolgimento emotivo, pari a quello che si prova quando si leggono altri episodi o altre storie che riguardano i personaggi principali: la conversione dell'Innominato e la sua notte tormentata, la triste storia di Gertrude, adolescente oppressa da un padre cinico e autoritario, Renzo che a notte fonda cammina nel bosco per raggiungere l'Adda, il terrore di Lucia durante la notte di prigionia al castello dell'Innominato.

Il paragone finale del fiorellino e del fiore che cadono a colpo di falce ha la funzione di mettere in risalto la tragedia dell'imminente e irreversibile scomparsa di un'umilissima famiglia cittadina.


CAPITOLO 28:

Il vòto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere S’incontravano nell’opposto viaggio questi e que’ pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. 
 «Vidi io, - scrive il Ripamonti, - nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna... Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso... Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno».

Questo è un capitolo in cui l'autore inserisce una digressione storica sulla grave carestia che aveva colpito il territorio lombardo alla fine del 1629 e che, oltre ad aver causato emigrazioni di gruppi di persone, aveva già abbastanza decimato la popolazione, prima dell'invasione dei Lanzichenecchi e prima del contagio della peste.
Ho evidenziato soltanto la citazione diretta tratta dall'Historia Patria di Ripamonti, una delle fonti che Alessandro aveva consultato frequentemente per verificare l'attendibilità delle notizie del passato.

Qui però, più che analizzare bisogna farsi delle domande che rimangono per lo più senza risposta: ma è normale che uno storico inserisca un'immagine così drammatica e così cruda in un trattato che dovrebbe avere per lo più una funzione informativa per i posteri?
Che cos'era la storia per gli uomini del Seicento? Un susseguirsi di eventi da registrare, un nesso tra problemi politici e problemi sociali, oppure una narrazione all'interno della quale potevano anche starci episodi finalizzati a "muovere l'animo" dei lettori?
Se voi miei lettori doveste scrivere un saggio sulla storia dell'Italia del Seicento per noi poveri specializzandi in Filologia Italiana, mettereste mai una piccola digressione su una giovane madre morente di fame e di stenti a causa della carestia? Sarebbe un modo per coinvolgerci maggiormente  in ciò che studiamo, credo io, per farci memorizzare meglio contenuti e problematiche.

Questa comunque è una madre morta. E il bambino accanto a lei strilla perché privo di nutrimento. La sua vita viene salvata da persone compassionevoli che lo allattano e probabilmente lo crescono.
Ma quel bambino saprà mai che la sua madre biologica è stata vittima della carestia?

Se avessi letto queste righe dieci anni fa, quando frequentavo le medie, mi sarei messa a piangere, perché ero ancora più sensibile di come sono adesso.
Adesso, una scena del genere mi mette una fitta di malinconia momentanea, perché per un istante cerco di immaginare questa donna con le labbra un po' violacee e con a lato un piccolo fagotto e un neonato piangente che inconsapevolmente rivolge lo sguardo verso un cielo grigio nuvoloso, in cerca di un aiuto misericordioso.

CAPITOLO 17:

Entrò in un'osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell'uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v'inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un'altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d'un'antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt'e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?

- La c'è la Provvidenza! - disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l'opera buona (giacché siam composti d'anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall'essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. 
Perché, se a sostenere in quel giorno que' poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch'io l'abbia saputo esprimere.

Renzo, dopo una notte trascorsa all'interno di un casolare di campagna nei dintorni di un bosco, attraversa l'Adda di primo mattino e giunge a Bergamo, cittadina che nel XVII° secolo faceva parte della Repubblica di Venezia.
Prima di arrivare alla dimora del cugino Bortolo, il giovane si ferma a mangiare in un'osteria.
Non vuole infatti chiedere cibo come prima cosa a un suo parente per non sembrare un "pitocco", cioè un poveraccio.
Da Bortolo avrà un lavoro, questo sì.
Comunque, all'uscita dall'osteria, Renzo vede una famiglia misera e anche qui, un bambino affamato.
Egli dà loro gli ultimi spiccioli che gli rimangono e che garantiscono la sopravvivenza almeno per una giornata.
Il motivo della Provvidenza compare più volte all'interno dell'opera.
Il pane che Renzo, nel capitolo 11, coglie da terra mentre cammina in una strada di Milano, diventa  "il pane della Provvidenza" nel capitolo 14, quando si trova in un'osteria a bere e a raccontare i fatti suoi.
Pensate al latino "pro"+ "video".
Letteralmente: "Vedere per/a vantaggio di.... (qualcuno)".
Lucia mette in campo la Provvidenza Divina quando viene liberata.
Credere nella Provvidenza, in senso religioso, significa ritenere che la storia degli uomini sia governata da un Essere superiore e divino. 
Dio ha "mosso" il cuore dell'Innominato e lo ha invitato a cambiare stile di vita. Dio gli ha suggerito di liberare Lucia e di metterla sotto la protezione del cardinal Borromeo.
Già nell'antichità alcuni filosofi come Platone ritenevano che esistesse la πρόνοια (prònoia), ovvero, la Provvidenza Divina degli dèi, non di un unico dio.
Il Cristianesimo interpreta la Provvidenza come una Volontà Divina che segue il cammino di ogni uomo, che vive, soffre e gioisce con ogni uomo.
Sant'Agostino diceva che nulla sotto l'ordinamento sublime della divina provvidenza si verifica irrazionalmente.

Il critico Luigi Russo commenta così questa scena del romanzo:
Questo quadro prepara le scene culminanti della carestia e della peste, che non giungeranno però così all'improvviso. C'è sempre la consueta sapienza artistica del Manzoni che viene lentamente diffondendo un'atmosfera, perché il tragico degli episodi trovi il suo clima adatto.

Notate un paio di cose: quel piangeva, piangeva, funzionale a sottolineare la difficilissima quotidianità di un neonato figlio di popolani del XVII° secolo al quale spesso manca la soddisfazione dei bisogni primari e notate anche ciò che Alessandro scrive poco dopo all'interno della stessa frase: tutti del color della morte. 
Come immaginate le persone che patiscono la fame? Io me le immagino molto pallide e con le guance scavate. 
Quel color della morte fa parecchio pensare, induce a immaginare quella famiglia sofferente e indigente. Induce i lettori a mettersi, per qualche istante, nei panni di un Renzo viaggiatore che scorge davanti a sé delle persone in uno stato pietoso, con un bimbo piccolissimo che poverino, non fa altro che chiedere cibo per com'è capace.

CAPITOLO 3:
 
 Partito fra Galdino, “tutte quelle noci!” esclamò Agnese: “in quest’anno!”
“Mamma, perdonatemi,” rispose Lucia; “ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio, sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...”
“Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto,” disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza. 


Riassumo molto sinteticamente ciò che è accaduto nei primi due capitoli del libro: nel primo, indipendentemente dal fatto che studiate Lettere o comunque materie umanistico-letterarie, sapete tutti quanti che Don Abbondio, durante la sua consueta passeggiatina in campagna al tramonto del sole, incontra i bravi di Don Rodrigo che gli ordinano di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia.
Nel secondo, sostanzialmente, il matrimonio tra i due ventenni va a monte, causa reticenze del curato del paese sopra menzionato che prima, con Renzo, finge di trovare mille inutili scuse e giustificazioni, poi si finge malato e rimane, rintanato e impaurito, in canonica.
Nella prima parte del terzo capitolo, su suggerimento di Agnese, Renzo si reca dall'Azzecca-Garbugli per ottenenere una difesa, senza successo.
Mentre Renzo è via, Fra' Galdino, confratello di Padre Cristoforo, entra nella casa di Agnese e Lucia. Lucia dona moltissime noci al frate.
Ma rileggiamo l'ultima frase del brano:

Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.

Agnese è vedova. Non è ci dato sapere da quanto tempo lo sia, ma lo è.
Una donna che perde il marito ripone tutto il suo affetto sulla figlia/sui figli, è normale che sia così.
Agnese può essere molto fiera di quella figlia così buona, così semplice, così onesta e così pura, come suggerisce il cognome Mondella, che rimanda alla frase latina omnia munda mundis: tutto è puro per i puri.
Sapete che una prof. del liceo un giorno in privato mi aveva detto che io secondo lei assomigliavo a Lucia Mondella?  Forse per alcuni lati del carattere sì. Sono anch'io timida e onesta.
Però sono istruita, lei era analfabeta. Io sono figlia del XXI° secolo, anche se il XXI° secolo non mi piace tanto come epoca.
Intendevo dire che il mio rapporto con la fede è diverso dal suo: io non faccio voti di un certo tipo alla Madonna! A dire il vero, alla Madonna ci penso pochissimo, povera lei.

Dicevo: è bellissimo e conforme alla natura di un genitore stravedere per un figlio.
Lucia non ha più il padre, Renzo invece è proprio orfano.
Tragico è perdere un genitore precocemente. Purtroppo capita, è capitato in tutte le epoche storiche.
L'importante, a mio avviso, è poter godere della compagnia e del sostegno del genitore che rimane.

A diventare genitori biologici "i è boni tuti", cioè, sono tutti capaci. Solo che la vita intera poi ti chiede di esserci, con la testa e con il cuore, per tuo figlio.

... Notizia della settimana: indovinate chi è venuto a trovare me martedì notte?! Il signor raffreddore, che gioia immensa!!!
Seguito dalla sua deliziosa figliola, la signorina tosse.
Vengono più di una volta l'anno. Ho capito che sto loro simpatica, ma cavolo, sono troppo invadenti, non hanno il senso del limite. La gente di 13-14 anni ha molto più senso della misura di loro.
Padre e figlia non riescono a mettersi in testa che io di notte devo dormire, non soffrire per colpa loro.