17 ottobre 2018

La conversione dell'Innominato (I):


Come un'aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali 
(Deuteronomio, 32:11-13)

Sia questo sia i prossimi due post sono il frutto di molteplici e numerose riflessioni che scaturiscono dalla mente di una ragazza che dal punto di vista della fede religiosa è in ricerca, è in cammino, da sempre. 
Non vorrei mai dare l'impressione di quella che "è già arrivata" e che non ha più bisogno di apprendere nulla, perché non è affatto così. 
Ho imparato molte cose, ma me ne restano almeno altre mille da apprendere! 
Mi sento una marinaia su una nave in mezzo a un vasto mare che continua a viaggiare tra le onde, desiderosa di scoprirne le varie e infinite gradazioni di colore che assumono in precisi momenti della giornata e in precise zone.

La parte del romanzo manzoniano che comprende la presentazione e la conversione dell'Innominato  è compresa tra i capitoli 19-24. In questo post parto dalle ultime tre pagine del diciannovesimo per giungere alla fine del ventesimo, nel prossimo invece mi concentrerò in particolar modo sul travaglio interiore del personaggio, descritto bene al capitolo 21, nel terzo termino con dialogo tra l'Innominato e il cardinal Borromeo, tutto compreso nel 23°.

Prima però mi conviene contestualizzare il 19°, partendo da ciò che accade un po' prima.
Il 17° si conclude con l'arrivo di Renzo a Bergamo nella dimora del cugino Bortolo. 
Nel 18°il narratore annuncia subito che nel territorio di Lecco arriva un dispaccio, ovvero, un mandato di cattura contro Renzo, inviato dal Capitano di Giustizia di Milano. 
A Pescarenico si diffonde un sentimento di stupore: com'è possibile che un bravo ragazzo come Renzo abbia dei guai giudiziari?!
Nel frattempo, Fra Cristoforo è inviato a Rimini dal Padre Provinciale, su esortazione del Conte Zio.
Il frate è un elemento di grande fastidio per Don Rodrigo e per il Conte Attilio. Quest'ultimo tra l'altro, da persona che è nobile soltanto di sangue e non d'animo, calunnia il religioso di fronte allo zio, dicendo che "quel frate è una testa calda "ha una carità permalosa verso una sua creatura (Lucia)" e che "era un plebeo che, dopo aver ucciso un nobile, per sfuggire alla forca, si è fatto frate". 
Ma noi sappiamo bene invece che Lodovico ha scelto il convento, l'umiltà e la povertà per vera vocazione. Questo lo hanno capito tutti, compresa la famiglia del nobile assassinato.
Il dialogo tra il Conte Zio e il Padre Provinciale si svolge in buona parte nel capitolo 19°, in cui si manifesta anche la decisione di Don Rodrigo di ricorrere a un certo personaggio per vincere la sua scommessa con Attilio.
Ecco di chi si tratta:

Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l'identità de' fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. (...) Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. «Riferirò», dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, «il caso d'un tale che, essendo de' primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse...» (...)

Fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. 
L'Innominato, incisione di Gonin
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Nel Fermo e Lucia era il Conte del Sagrato, nei Promessi è l'Innominato. Era così cattivo e così terribile che all'epoca, soltanto a sentirne il nome, si tremava di terrore. Non era nemmeno nominabile, da tanto che era deleterio!

Nel Fermo, la figura del Conte del Sagrato è molto legata al mondo greco-romano.
Vi faccio due esempi:
A) L'autore dice che egli si gloriava e si compiaceva del suo soprannome. Cito il passo:

(... ) forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di Scipione l’Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com’essi il nome dal luogo illustrato da una grande impresa.  
(Fermo e Lucia, tomo secondo, capitolo VII, 1823)


Vi faccio notare che l'espressione grande impresa è decisamente ironica.
Immagino che voi conosciate poco o nulla il Fermo, ma vi assicuro che è il romanzo più anti-romano che sia mai stato scritto nella storia della letteratura italiana. I paragoni con i personaggi dell'Antica Roma vengono impiegati per lo più in punte d'ironia e di amaro sarcasmo.
Forse vi starete chiedendo: ma che bisogno aveva Manzoni di scrivere un romanzo anti-romano?
Pensate al secolo in cui è vissuto: il XIX°.
Bene, l'Ottocento è il secolo in cui il romanticismo, movimento culturale di matrice artistica, filosofica e letteraria, si interroga sul passato, in particolar modo, sull'antichità. Il Manzoni romanziere risulta molto più vicino al romanticismo che non al neoclassicismo.
Mentre, nel secolo precedente, i neoclassicisti tendevano a esaltare le personalità politiche dell'Antica Roma e le loro abilità militari, i romantici invece riuscivano, con acutezza, a vederli per quello che erano stati: degli assetati di potere spesso insensibili ai reali bisogni dei cittadini.

B) Pare inoltre che il Conte del Sagrato fosse dotato di una grande abilità oratoria. Alessandro infatti lo abbina addirittura a Demostene: 

La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel picciolo popolo selvaggio.
(Fermo e Lucia, tomo terzo, capitolo II, 1823)

Questa frase è riferita al punto in cui il Conte, poco dopo essersi convertito, ritorna al suo castello, raduna tutti i bravi al suo servizio e dice loro di aver intenzione di cambiare stile di vita.
L'Innominato è un personaggio storicamente esistito.
Si trattava in effetti di Francesco Bernardino Visconti, vissuto a cavallo tra XVI° e XVII° secolo.
Francesco Visconti viveva isolato con i suoi servitori in un castello svizzero, per evitare di venire catturato dalla giustizia lombarda.
Per molti anni, egli aveva ordinato ai suoi bravi di saccheggiare le campagne venete. Egli stesso si era macchiato di diversi omicidi. Si tramanda che da giovane uccidesse le sue vittime davanti alle chiese.
La conversione di Visconti è reale: si dice infatti che nel 1619 egli avesse incontrato il cardinale Federigo Borromeo. Dopo un colloquio di due ore, era uscito dalla sede del cardinale con le lacrime agli occhi.

Prima di passare al paragrafo successivo, vorrei considerare che l'Innominato dei Promessi Sposi è una figura che appartiene alla sfera delle leggende popolari: è infatti protagonista di storie orribili, tramandate oralmente. 
Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione, d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia.  
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Anche qui, due cose:
1) Perché Manzoni, per raccontare la storia della Monaca di Monza, impiega circa due capitoli (il nono e il decimo del Promessi), mentre, nel narrare la storia dell'Innominato, risulta vago e rapido, perché impiega soltanto le ultime tre pagine del capitolo 19?!
E pensare che nel Fermo egli racconta in modo più dettagliato la vita di questo pessimo bandito.
Considerando che l'Alessandro narratore dei Promessi Sposi è più equilibrato e meno sdegnoso (c'è infatti un equilibrio perfetto tra ironia, senso morale e compassione cristiana), io penserei ad una sorta di scelta psicologica: la preferenza cioè di attribuire più importanza alla conversione del personaggio che non ai misfatti di cui si è macchiato per gran parte della sua esistenza.

 2) Stateci attenti a questa "età dell'adolescenza", perché è l'età in cui si consolida il carattere, e questo vale per tutti. Forse Alessandro non ci ha fatto caso più di tanto, ma, all'interno di questo romanzo, ha anche dato un'importanza particolare a questa fase della vita, che corrisponde tra l'altro a quello che Conrad chiama "la prima giovinezza".
L'adolescenza, che inizia alle scuole medie con una serie di cambiamenti fisici, è "l'età del discernimento", cioè l'età in cui si riesce a distinguere ciò che è buono e giusto da ciò che non lo è. Pensate a Genesio. Il mese scorso ho elaborato un post su questa figura. Egli sa che suo padre commette il male, per questo lo detesta con tutto se stesso. E da figlio costretto a vedere violenze in casa, ha un certo istinto protettivo verso la madre.
Intorno all'età del discernimento, Don Abbondio si rende conto di essere un vaso di terracotta vicino a molti vasi di ferro. Fin da giovanissimo, Lodovico manifesta un'indole violenta e al contempo onesta, visto che sin da ragazzino provava una profonda avversione verso i prepotenti.
L'Innominato, sin da adolescente, è attratto dal male.


 «Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era come un'officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall'omicidio: le mani de' ragazzi insanguinate». Oltre questa bella famiglia domestica, n'aveva, come afferma lo stesso storico, un'altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de' due stati sul lembo de' quali viveva, e pronti sempre a' suoi ordini.
(Promessi Sposi, capitolo 19)

Casa qui sta per castello. Comunque, vi autorizzo a immaginare le cose più schifose e più cruente: servi che decapitano altri servi per motivi futili, magari perché si è esitato per qualche secondo ad obbedire a un ordine del padrone e altre violenze della peggior specie...
Nella prima pagina del capitolo XX° si descrive il castello dell'Innominato:

Castello dell'Innominato, incisione di Gonin
Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piùttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E anche d'una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de' giovani si rammentava d'aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
(Promessi Sposi, capitolo 20)
 
Il luogo è come un nido d' aquila in cui il criminale vive in completa solitudine. Quel castello è  una fortezza inespugnabile dove l'Innominato fa e comanda tutto ciò che vuole senza voler considerare un'autorità superiore (non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto).
E' una solitudine selvaggia.
E' una solitudine superba, come quella del suo spirito, commenta il critico Momigliano.

Che cos'è la solitudine? 
C'era una traccia alla maturità di quest'anno, ma, un po' per l'impegno da responsabile del grest e un po' per la laurea imminente non ho avuto il tempo di pensarci e di cercarla.
No piuttosto: pensavo che tra le tracce dei temi uscisse Umberto Saba, ma invece hanno messo Giorgio Bassani, sconosciuto anche a molti laureati in Lettere (tra cui la sottoscritta) e a molti insegnanti, oltre che agli studenti. Ma qualcosa come Calvino, Buzzati, Leopardi o Pirandello no, eh?!

Quando e per quali motivi una persona può essere considerata sola? ... Domanda che non voglio approfondire più di tanto, adesso come adesso. Vi lascio soltanto qualche "opzione causale":

-Uno è solo perché è lacerato da un grande dolore, un dolore tragico che nessuno potrebbe riuscire a comprendere... a meno che non riesca a incontrare una persona che ne ha vissuti di simili sulla propria pelle, oppure qualcuno che, dotato di una particolare sensibilità, possa stringerlo forte per ricucire il suo cuore spezzato. Ed è difficile con i tempi che corrono.
Sapete che cosa sto capendo io? Non è difficile relazionarsi, non sarebbe difficile: basterebbe avere la capacità di ascoltare. Ma non sappiamo né ascoltare né ascoltarci!! 
Questo vale per gli adulti e per i giovani! Che cavolo di esempio di umanità potremmo dare allora noi educatori a dei ragazzini in piena fase di crescita, se non ci sforziamo di migliorarci sotto questo punto di vista, e soprattutto, se noi per primi non ci diciamo le cose in faccia??!

-Uno è solo perché preferisce trascorrere le proprie serate da solo, coltivando i propri interessi, senza alcuna voglia di mescolarsi con un'accozzaglia di deficienti che lo deridono o che mettono in giro cattive voci sul suo conto.

-Uno è solo perché ha deciso di vivere una vita in solitudine, con contatti molto ridotti con il mondo esterno. Però non vorrei che pensaste soltanto a suore e frati: loro fanno del bene, fanno molto volontariato alle mense Caritas ad esempio.

Scorro velocemente questo capitolo: Lucia, attraverso le oscure trame di Egidio, Gertrude e i bravi dell'Innominato, viene catturata e imbavagliata con un fazzoletto in una carrozza.
Che biechi, poverina! Le chiedono la strada per Monza e quando lei si gira un istante per indicare la direzione giusta, la prendono con la forza.
La carrozza sulla quale viaggia Lucia rapita giunge a destinazione. Il Nibbio, servitore fedelissimo al crudele padrone, è stato mosso a compassione nell'assistere alle reazioni disperate di Lucia.
L'animo dell'Innimonato, già dominato da una sorta di fastidio per quel compito che Don Rodrigo gli ha affidato, inizia una guerra contro se stesso.
Dapprima chiama una vecchia serva per dirle di fare compagnia a Lucia.
Tu vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell'occhiaie.
- Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c'è... ci dev'essere... una giovine. Se c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non...
- Oh! - disse la vecchia. 
- Ma, - continuò l'innominato, - falle coraggio. 
- Cosa le devo dire? 
- Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va'. 
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzò al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso. 
(Promessi Sposi, capitolo 20)

Farsi dare lezioni di umanità dall'Innominato!!! Incredibile, vero??

Scrive Luigi Russo: Questo colloquio è la prima esplosione esteriore dell'Inquietudine che lo tormenta, quella sua iracondia improvvisa è una forma di scontroso pudore del suo più intimo sentimento. Egli, per impedire che il sentimento trabocchi, si rivolta contro se stesso, nello sforzo della dissimulazione.



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