25 febbraio 2019

"L'invetriata", Dino Campana:


"L'invetriata" è la poesia di Campana che lo scorso anno, durante il corso di Letteratura italiana del Novecento, mi era piaciuta di più di altri suoi componimenti che mi erano sembrati particolarmente sibillini, come "la Chimera".
Prima però è giusto che vi dica qualcosa sulla sua triste vita.

Dino Campana era nato nel 1885 a Marradi, località appenninica in provincia di Firenze. Era figlio di un maestro elementare e, sin dall'adolescenza, aveva manifestato dei segni di squilibrio psichico. 
Era incapace di adattarsi allo stile di vita borghese e non era mai riuscito a terminare gli studi universitari.
Durante la sua esistenza, aveva viaggiato molto: nel 1907 era a Parigi, l'anno successivo addirittura in Argentina! Nei suoi viaggi, aveva svolto molte diverse professioni: minatore, fuochista sulle navi, venditore ambulante.
E' morto nel 1932, al manicomio di Castel Pulci, nei pressi di Firenze. Se la sua raccolta di poesie che ancora oggi ricordiamo si intitola "Canti Orfici", c'è un motivo ben preciso, dal momento che, nei suoi componimenti, degli spunti realistici come un paesaggio o un oggetto vengono trasfigurati in chiave visionaria attraverso una serie di analogie. Dino Campana, prendendo spunto dalla figura di Orfeo, considera la poesia come un'arte in grado di creare suggestione ed evocazione.

L'INVETRIATA:

La sera fumosa d’estate
dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
e mi lascia nel cuore un suggello ardente.
ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
a la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? - c’è
nella stanza un odor di putredine: c’è
nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
nel cuore della sera c’è,
sempre una piaga rossa languente.


Il poeta sta osservando il paesaggio attraverso una vetrata (=l'invetriata) e, sia con il pensiero che con lo sguardo, si sofferma sugli effetti della luce del tramonto di una sera d'estate.
La commento e la analizzo verso per verso.
L'aggettivo "fumosa" sta per "afosa". Quando i giorni d'estate sono afosi l'aria non è limpida, ma offuscata dall'eccessivo calore. 
I colori della sera si riflettono nella stanza piuttosto oscura in cui Campana si trova. Questo significa l'espressione: "mesce chiarori nell'ombra". La sera estiva mescola luci e ombre, quasi come se fosse una pittrice abile al pari di Caravaggio o di Tintoretto. 
Nell'arte moderna (Quattrocento-Ottocento), il contrasto luci-ombre contribuiva a rendere bene la tridimensionalità degli oggetti di un dipinto.
Un po' ricorda l'ossimoro di Rebora nella poesia "Dell'immagine tesa" (post del 7 dicembre 2018): "ombra accesa". 
A proposito di questa espressione, scrivevo: "Se la stanza è buia, che cosa la illumina? La luce dell'interiorità di un uomo proteso alla ricerca di qualcosa? Oppure un lento approssimarsi di un qualcosa di natura divina?"
L'ombra accesa, notate bene, è qui psicologica.
Potrei anche azzardare un ricordo di una delle mie molte letture dell'estate: Mark Twain, nel narrare la quotidianità e le relazioni di Thomas Sawyer, verso la fine del romanzo inserisce l'episodio di Tom e Becky smarriti in una grotta molto ampia e molto profonda.
Si trovano lì da due, forse tre giorni. Ad un tratto Tom, accorgendosi che a Becky mancano le forze, decide di prendere con sé quel che rimane di una candela per cercare di trovare la via d'uscita. Per non perdere le tracce della ragazzina, Tom le propone di tenere un estremo di una lunga corda, con la quale viene segnato il suo tragitto verso quella che effettivamente sarà l'uscita.
Mentre il ragazzino cammina, la flebile luce della fiamma che tiene in una mano gli fa scorgere dietro ad una roccia l'ombra di Joe il Pellerossa, a pochi metri di distanza da dove lui si trova!
E' un noir intrigante quel fantastico romanzo!
Al di là di questo parallelismo che potrebbe sembrarvi insolito, c'è qualcosa di logico da considerare: i contorni di ogni ombra sono sempre definiti dalla luce! Anche in ambienti diversi dalle grotte e anche nei momenti di pieno giorno. 
Le ombre "si accendono", e cioè sono visibili, per il fatto che sono generate da fonti di luce e per il fatto che si formano tra le superfici degli oggetti e una sorgente luminosa.
Per cui, concludo che "ombra accesa" è, dal punto di vista linguistico, un paradosso. Ma dal punto di vista fisico e quotidiano non proprio così tanto. Cioè, per la fisica il vero e proprio ossimoro è qualcosa di più forte come: "buio luminoso".

E ciò che separa l'ombra di un locale interno (visto come opprimente e angusto) dai colori del tramonto che si specchiano nel cielo è il vetro di una finestra. 
Questo marcato contrasto di luci ed ombre genera angoscia nell'animo di Campana, uno stato d'animo paragonabile a un "sigillo bruciante di fuoco" (=suggello ardente).
E' molto strana quella parentesi al verso 4. Personalmente io, autrice di due raccolte di poesie, non l'ho mai fatto e mai applicherei l'espediente della parentesi. La poesia non è un tema argomentativo o un'analisi letteraria; la poesia è musica d'armonia. Per questo a mio avviso le parentesi sono inopportune in un testo in versi. Eppure di tanto in tanto anche Tasso le inserisce nella "Gerusalemme Liberata".
Nel versi 4 e 5 comunque, Campana nota che è stata accesa la lampada votiva davanti alla Madonna del Ponte, una statua collocata su un terrazzo vicinissimo ad un fiumicello.
Quel "chi è chi è" ripetuto rende bene quel millisecondo in cui il poeta prova stupore e direi anche compiacimento al vedere una luce appena accesa, mentre il cielo si fa sempre più buio, di attimo in attimo.
Ma improvvisamente, nei versi 6 e 7, si passa ad una caratteristica negativa dell'ambiente interno (con anafora del sintagma "nella stanza"): la putredine, collegabile sia ad un'impressione di chiusura materiale sia ad un senso di malessere interiore, dovuto alla disperazione di Campana di sentirsi escluso dalle relazioni con gli altri.
Quella "piaga rossa languente" è simbolica ed è dovuta alla sofferenza che provoca una luce diurna che sta svanendo. 
Altroché il Foscolo ventiquattrenne di "Alla sera", che scriveva, apostrofando per l'appunto questo momento della giornata: "E mentre io guardo la tua pace/dorme quello spirto guerrier ch'entro mi rugge"!
Per Foscolo, la sera è fatta di calma e di tranquillità, proprio come la morte ("Vagar mi fai, co' miei pensier su l'onde che vanno al nulla eterno). Foscolo è pieno di inquietudini, politiche, sentimentali e familiari. Ad una vita così tormentata preferirebbe la morte. E' soltanto con il calar del sole che egli trova un po' di pace.
Per Campana invece, la sera è un momento che marca la sua triste condizione di uomo internato in un manicomio al quale è stato privato il contatto con il mondo esterno.

Gli ultimi quattro versi sono i più belli; innanzitutto per quella suggestiva metafora che paragona le stelle a dei "bottoni di madreperla". Poi perché c'è la mia figura retorica preferita: la personificazione. La sera sembra qui addirittura una ragazza, una donna che "si veste di velluto". Ve la immaginate la sera che si mette un lussuoso abito di velluto per una serata di gala?
Ma la sera è fatua, cioè è leggera. E in lei c'è "una piaga rossa languente".
All'ultimo verso ritorna dunque l'angoscia e il rosso, il colore del sangue e della violenza, in antitesi con il bianco madreperla delle stelle. 

Concludo con un pensiero musicale. Questa poesia mi fa venire in mente una canzone, non recentissima, intitolata "Nei giardini che nessuno sa". Il testo di questo brano non l'ho mai capito del tutto, anche se l'ho ascoltato innumerevoli volte.
Comunque, la condizione degli autori, riportata in alcune parti, come queste qui sotto, ricordano la situazione di Dino Campana quella sera, visto che provava quei determinati sentimenti davanti a una finestra:

"ecco come si finisce poi/ inchiodati alla finestra noi/spettatori malinconici/di felicità impossibili".

... Quello che c'è scritto soprattutto qui mi verrebbe voglia di metterlo in pratica per tutta la vita con una persona con cui ho particolare sintonia...

"Ti darei gli occhi miei per vedere ciò che non vedi/l'energia l'allegria per strapparti ancora sorrisi/dirti sì sempre sì e riuscire a farti volare/dove vuoi, dove sai senza più quel peso sul cuore/ nasconderti le nuvole e quell'inverno che ti fa male/curarti le ferite e poi qualche dente in più per mangiare".

 Tanto per farvi capire quanto sono brava a "risollevarmi il morale": ascolto e suono questa canzone nelle giornate e nei periodi (come questo) in cui mi sento triste, in cui arrivo anche a pensare che la mia presenza sulla Terra ha provocato sofferenza. 
Se non ci fossi stata, magari mia mamma, avrebbe vissuto anni migliori, invece di star dietro ad un'adolescente emarginata e pesantemente insultata com'ero io... E' stata male quasi quanto me. E tuttora sta male quanto me quando dal punto di vista delle relazioni con i miei coetanei mi succede qualcosa di spiacevole e di brutto.
Le mie coetanee non hanno mai tenuto presente che accanto a me c'erano e ci sono una madre, un padre e anche degli zii che stavano e che stanno male per me e per come venivo e vengo trattata in determinate situazioni ed esperienze.



17 febbraio 2019

"Con gli occhi chiusi", Federigo Tozzi.

Due mesi fa, approfittando del fatto che ormai avevo (ed ho ancora) quattro soldi messi da una parte, ho deciso di attuare un mio bel progetto: regalare a ciascuno dei miei familiari un libro per Natale. 
Ho scelto soprattutto dei romanzi del Novecento (Vittorini e Buzzati, più che altro). 
E mi sono fatta un regalo anch'io, acquistando questo romanzo di Federigo Tozzi.
Prima però devo fare una premessa, perché credo che per circa il 90% di voi lettori questo sia un autore sconosciuto.
Per un esame del 21 gennaio ho portato in bibliografia anche il manuale di Gino Tellini intitolato "Storia del romanzo italiano", nelle cui pagine Tozzi è considerato uno dei "tre grandi" della narrativa del Primo Novecento. 
I primi due mi auguro che li sappiate: Pirandello, siciliano, e Svevo, triestino.
Pirandello ha come principale filosofia romanzesca il concetto dell'identità indefinita e mutevole dell'individuo ("Il fu Mattia Pascal" e "Sei personaggi in cerca d'autore"). Svevo punta invece moltissimo sull'autoanalisi ("La coscienza di Zeno") e sull'inettitudine a vivere ("Una vita", "Senilità"). 
Tozzi è diverso da entrambi. Tozzi è autobiografico, ma la sua non è l'autobiografia di un Vasco Pratolini un po' malinconico ma comunque tenace e attento al valore delle relazioni e ai cambiamenti storici. Tozzi è definito "scrittore espressionista", dal momento che mette in luce i lati più brutti e più angosciosi sia della personalità umana sia dell'esistenza umana. La vita è male, la vita è tragedia. 
E' solo questo che egli comunica con i suoi romanzi non troppo conosciuti.
"Con gli occhi chiusi" è un libro che vede come protagonista Pietro Rosi, un ragazzo sfortunato, infelice, che non è amato da nessuno, nemmeno da quella porca con la quale avrebbe voluto sposarsi e piantare famiglia.
Tozzi è uno che sta molto male e fa star male i lettori. In Pietro Rosi proietta tutte le vicende agghiaccianti della sua  terribile vita.
La scrittura è un modo con cui egli "si sfoga", descrivendo tutti i drammi enormi vissuti da bambino e da ragazzino: un padre violento e arrogante, una madre fragile che gli muore proprio quando si trova nel pieno dell'adolescenza (a 15 anni), i suoi sentimenti d'amore non ricambiati e pesantemente derisi.

Prima di esporvi in modo sintetico la trama e alcune mie riflessioni, ci terrei molto a scrivervi la mia analisi del dipinto della copertina dell'edizione che ho acquistato io.

Girolamo Induno, "Triste presentimento", 1860, Milano, Pinacoteca di Brera
L'arredo della stanza è semplicissimo. Dai vetri della finestra entrano i raggi della luce del giorno. Al centro c'è un letto disfatto con una ragazza in vestaglia da notte. Il suo sguardo è malinconico, la sua bocca all'ingiù prelude al pianto. Tra le mani tiene un piccolo ritratto, probabilmente un mini-dipinto del fidanzato arruolato nell'esercito di Garibaldi. Dietro di lei infatti, in una nicchia rettangolare della parete, c'è il busto di Garibaldi.
Il pittore è vissuto proprio nell'epoca dei moti rivoluzionari del Risorgimento, nel periodo delle battaglie di conquiste di territori che ha preceduto la nascita del Regno d'Italia (17 marzo 1861).
Le ragazze e le donne, in quella fase storica così movimentata della nostra penisola, attendevano con angoscia il ritorno dei mariti, dei fratelli, dei padri e dei fidanzati. 
Le donne, quelle vere intendo, nei momenti in cui manca l'amore della loro vita, soffrono per davvero. La nostalgia punge, e fa sanguinare il cuore come se fosse la spina appuntita di una rosa.
E' abbastanza probabile quindi che la ragazza di quest'opera stia soffrendo per il motivo appena delineato.
Ha il triste presentimento che il suo amato non ritorni più dalla guerra.
Altri due dettagli interessanti: a sinistra, una sedia e un camino sulla quale e presso il quale ci sono degli indumenti i cui colori richiamano la bandiera italiana.
Sempre piuttosto a sinistra, è appeso un piccolo quadro. C'è la copia xilografica del "Bacio" di Hayez, ve ne siete accorti??! Immagine romantica, certo, sia nel senso culturale che in quello letterale del termine. E' un quadro nel quadro! Però è una xilografia antitetica con la situazione della ragazza protagonista...
Fidatevi di questa descrizione: ho cercato di verificarla via digitale e via tipografica, ed è tutto giusto. La mia intuizione coincide del tutto con le osservazioni dei critici.

TRAMA ROMANZO:

Non voglio "avvelenarvi" l'animo proprio la domenica sera, per cui, in questo paragrafo ho deciso di essere abbastanza breve. Anche perché la trama di quest'opera di Tozzi è piuttosto esile. Non ci sono intrecci di vicende e non ci sono flashback.
La storia è ambientata nel suggestivo panorama della Maremma toscana (attuale provincia di Siena).
Pietro Rosi è figlio di Domenico, proprietario di una fattoria e di una trattoria, e di Anna, donna vittima dei soprusi psicologici del marito.
Domenico, come accennavo sopra, è prepotente, è cattivo, è insensibile. Da una parte mi viene da dire:" è il figlio del demonio", visto che picchia in modo incivile il figlio, insulta, tradisce e umilia la moglie. Dall'altro mi viene da dire, senza rabbia e in maniera neutrale: "è povero".  E' povero di carità e d'amore. E' povero di sentimenti e di pensieri positivi. Questo non nel senso che "è un personaggio da giustificare o da compatire". E' un personaggio che ignora la bellezza di ciò che è vita, tutto qui.
Tutto ciò che sa fare è dire al figlio cose come: "Non vali niente", "Imbecille!", "Stupido!", "Solo io so quello che è meglio per te!" "Non combinerai mai niente nella vita"... e avanti così, per tutto il libro. Cioè, è pesante, veramente pesante. 
Dicevo che la madre del protagonista muore quando Pietro ha 15 anni. Egli, già così giovane, sente di provare sentimenti puri, sinceri e molto profondi verso Ghìsola, una contadina sua coetanea che vive con i nonni e che presta servizio alla famiglia Rosi.
Ma la ragazzina viene allontanata dai nonni e trasferita a Radda, nel paese dei genitori e delle sorelle.
Per allontanarsi dalle violenze di un padre padrone, l'adolescente Pietro decide di iscriversi ad un istituto tecnico di Firenze. E' uno studente mediocre, che risente molto del fatto di non essere benvoluto, di non avere certezze né sul presente né sul futuro.
Arrivano i 20 anni anche per Pietro. Dopo essere stato informato del fatto che anche Ghìsola è a Firenze, decide di incontrarla. Ancora non sa che, da quando non vive più nella fattoria dei Rosi, lei fa praticamente la "escort". Ghìsola odia la gente perché quest'ultima parla male di lei. E come non potrebbe farlo, aggiungo io? Quella vita si è prestata lei a farla, ma esistono mille altri modi più dignitosi per guadagnarsi il pane, brutta schifosa!
Insomma, Ghìsola è diventata l'amante di Alberto, un uomo maturo. Pietro, ignaro di tutto, coltiva progetti di matrimonio su di lei, le dichiara apertamente il suo amore, le invia lettere che lei legge al suo amante al solo scopo di deridere il sentimento del figlio del suo ex padrone e che strappa ridendo.
Per Pietro, Ghìsola nutre un profondo disprezzo. Però non vuole nemmeno essere sincera con il ragazzo, visto che per un periodo gli fa credere di essere corrisposto. In realtà, la tr**a mira soltanto ai soldi di Pietro. Cinica, gallina, bugiarda, sporca e ingannatrice. Come purtroppo lo sono diverse.
Io le prime 126 pagine le ho lette e poi, stanca di grosse miserie psicologiche e morali, sono passata decisamente a pagina 175, cioè all'ultima pagina, quando agli occhi di Pietro diviene evidente la gravidanza di Ghìsola, che continua a vendersi ad Alberto. Ed è proprio in quel momento che Pietro, aprendo gli occhi sull'effettiva realtà dei fatti, si rende conto che in un lampo svanisce tutto il suo grande amore idilliaco da sonetti petrarcheschi.
Come la ragazza del dipinto però, anche Pietro, prima della scoperta della gravidanza, ha qualche sospetto e presentimento sui veri sentimenti di Ghìsola.

Mi sono fatta un regalo che non mi è piaciuto. Quel che è peggio, quando ho preso quel libro dagli scaffali della Feltrinelli sapevo benissimo di che cosa parlava, perché l'avevo appunto già studiato per l'esame. Soltanto 10 giorni prima avevo detto: "Starò per sempre alla larga da Tozzi. E' troppo triste. Eviterò soprattutto l'opera Con gli occhi chiusi. Non appena la vedrò in qualche scaffale di librerie o di biblioteche, scapperò.". E invece, durante questo inverno, tra studiate, campo-scuola adolescenti e altre attività, ho letto proprio la sua vicenda di vita.
Perché hai speso 8 euro per un libro che volevi evitare di leggere? Non lo so nemmeno io. 
E pensare che proprio lì, accanto a Tozzi, c'erano Le città invisibili di Calvino, di genere fantastico.
Sono una laureata stupida di 23 anni. Sono una studiosa di italianistica alla quale a volte capita di comportarsi in modo strano e contraddittorio.

Di solito non svolgo le recensioni dei libri e dei film che non mi sono piaciuti. Stavolta l'ho fatto per un pretesto abbastanza chiaro.
Federigo Tozzi ha sofferto in modo indicibile. Parte dei miei adolescenti ha vissuto o vive ora dei momenti veramente molto difficili a proposito di problemi in famiglia. 
Non voglio dire che dedico questo post a loro. A loro dedico il mio approfondimento storico sugli antipodi.
Prendo spunto dai contenuti del romanzo di Tozzi per comunicare loro che VOI RAGAZZI NON SIETE SOLTANTO IL VOSTRO DOLORE E I VOSTRI DIFETTI. SIETE MOLTO, MOLTO DI PIÙ. SIETE ANCHE FATTI DI SOGNI, DI INTERESSI, DI SENTIMENTI, DI PENSIERI, DI GIOIE.
IO VI RISPETTO, PER QUESTO NON VI DIRÒ MAI CHE IL VOSTRO MALE INTERIORE E' UNA SORTA DI ESCREMENTO DA DEPOSITARE SU UN FOGLIETTO DI CARTA PER POI ATTACCARSELO SULLA MAGLIA. 

Ricordatevi quel che vi ho detto la sera del 25 gennaio. In sintesi: SIETE UNICI./ CON LA PASSIONE VERSO QUALCOSA CHE VALORIZZA I VOSTRI TALENTI, VOI "RIUSCIRETE A SCALARE LE MONTAGNE."/ EVITATE MEDIOCRITÀ E CONFORMISMO. AVETE TUTTI QUANTI UN'INTERIORITA' UNICA DA FAR FRUTTARE.


12 febbraio 2019

LA TEMATICA DEL MOLTEPLICE NELLA LIBERATA:



...A quei giovani del nostro secolo che, da nobili cavalieri nell'animo, giorno per giorno donano all'umanità la loro notevole sensibilità...

L'UNIFORME CRISTIANO E IL MULTIFORME PAGANO:

Sergio Zatti è, almeno a mio avviso, il critico letterario più intelligente della Gerusalemme Liberata di Tasso, dal momento che ha messo bene in risalto il motivo del molteplice, evidente in più punti dell'opera.
Questo poema storico-religioso si ispira al vero evento storico della prima crociata (1096-1099). 
Come anche attesta Guglielmo Tirio nelle sue Historiae, in seguito alla battaglia del 13 luglio 1099, l'esercito crociato guidato da Goffredo di Buglione riesce a conquistare la Città Santa strappandola al dominio dei musulmani.
Il poema è però dotato anche di elementi fantastici e soprannaturali (magia, sortilegi, furie infernali, angeli che appaiono in sogno, la nave volante guidata dalla Fortuna...).
La poesia narrativa non coincide mai del tutto con la verità storica. Lo storico indaga le fonti. Il poeta affascina i lettori, mescolando l'utile al dilettevole.
Secondo gli studi di Zatti, perché i cristiani, seppur in numero nettamente minore, prevalgono sulle forze saracene?
Zatti sostiene che, mentre i cavalieri cristiani combattono tutti quanti per raggiungere gli stessi fini, ovvero, la liberazione della Città Santa e l'adorazione del Santo Sepolcro di Cristo, i musulmani invece perdono in quanto si prefiggono scopi diversi: Argante, giovane crudele, contrasta i crociati per il conseguimento della gloria e della fama personale, Aladino, re d'età matura e personaggio malinconico, cerca di lottare per la difesa del regno, Solimano invece, combatte per vendicare i musulmani uccisi dai cristiani e dunque per difendere la propria fede.
Qui dunque troviamo idee molteplici e diverse che precludono all'unità di intenti.

Ma, dall'altro lato della medaglia, l'esercito cristiano rimane del tutto immune dai contrasti?
No, affatto.
I versi 7-8 della prima strofa del primo canto dicono, in riferimento a Buglione: "e sotto i santi segni/ricondusse i suoi compagni erranti".
Erranti nel senso di "soggetti ad errori, fragilità e debolezze", dal momento che ci sono delle tendenze dispersive e centrifughe da parte loro.
L'autorevolezza del pio Buglione, dotato di un sentimento intimamente religioso, è minata da elementi ribelli, riottosi e aggressivi: uno di questi è proprio Rinaldo che, nel canto V°, preso da un impeto d'ira, uccide Gernando. Poi però, per non subire punizioni, si allontana dal padiglione crociato... Dopo il suo allontanamento cade vittima delle seduzioni di Armida, che lo porta su un'isola incantata. Parlando secondo il lessico dantesco, Rinaldo si macchia di due colpe, di due vizi: ira e lussuria.
Anche Argillano provoca seri problemi a Buglione.
Al canto VIII°, Rinaldo viene creduto morto.
In seguito a questo evento, Argillano sogna il cadavere decapitato di Rinaldo che non solo gli riferisce di essere stato vittima di un complotto ordito da Goffredo, ma  lo convince anche dell'esistenza di un piano nascosto del Buglione stesso che, a suo dire, sarebbe finalizzato a privilegiare i soldati Franchi a scapito degli italiani. Svegliatosi, Argillano incita il contingente crociato italiano a ribellarsi a Goffredo. Ma è ingiusto, perché il suo sogno è un sogno diabolico.
Goffredo di Buglione  è il "miles Christi" più equilibrato e più saggio all'interno dell'opera; è colui che deve farsi garante dell'unità del proprio esercito. Tuttavia, nel corso dell'impresa che è chiamato a dirigere, deve far fronte a molte difficoltà.

Contrasti e spinte dispersive possono esserci anche in un gruppo di giovani operativi in ambito del volontariato parrocchiale. Degli animatori adolescenti dovrebbero tutti quanti riunirsi e impegnarsi per due unici obiettivi:
1) Prendersi cura dei ragazzini, assetati di senso e alla ricerca di bellezza.
2) Poter crescere insieme, dal punto di vista umano e cristiano.
I diverbi e le divisioni emergono a causa della grande diversità dei caratteri.
Le discussioni accese sorgono quando delle personalità molto eterogenee sono chiamate a confrontarsi, a "cozzare" tra loro e a chiedersi: vogliamo collaborare e superare, da persone mature quali dovremmo essere, certe nostre incompatibilità, oppure costruiamo intorno a noi degli invalicabili muri di pietra che non fanno altro che farci sentire male?
Sono inevitabili gli ostacoli in questa bellissima impresa educativa.
Però, i litigi e i contrasti momentanei non devono, non dovrebbero e non dovranno mai essere causa di invidie, di doppie facce, di prese in giro.
E' l'aggressività verbale che genera malessere e... disunione.
Per di più, se degli animatori sono discordi, un ragazzino di 15/16 anni se ne accorge facilmente.
Faccio menzione di episodi in cui all'interno del poema traspare la multiformità pagana:

A) Nella prima parte del canto quarto, Satana raduna le creature infernali a lui asservite per un concilio, finalizzato ad ostacolare l'impresa dei cristiani.
Partecipano alla riunione indetta dal Demonio chimere, arpie, furie, centauri, scille, sfingi...
Mentre queste creature mostruose si radunano, la terra trema!

Canto IV°, ottave 3-5:

3
Chiama gli abitator de l'ombre eterne
il rauco suon de la tartarea tromba.
Treman le spaziose atre caverne,
e l'aer cieco a quel romor rimbomba;

né sí stridendo mai da le superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sí scossa giamai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.

4
Tosto gli dèi d'Abisso in varie torme
concorron d'ogn'intorno a l'alte porte.
Oh come strane, oh come orribil forme!
quant'è ne gli occhi lor terrore e morte!

Stampano alcuni il suol di ferine orme,
e 'n fronte umana han chiome d'angui attorte,
e lor s'aggira dietro immensa coda
che quasi sferza si ripiega e snoda.
 
5
Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni,
molte e molte latrar voraci Scille,
e fischiar Idre e sibilar Pitoni,
e vomitar Chimere atre faville,
e Polifemi orrendi e Gerioni;
e in novi mostri, e non piú intesi o visti,
diversi aspetti in un confusi e misti.

Non posso fare a meno di scrivere un paio di osservazioni su questa piccola parte di poema:
- il verso "quant'è ne gli occhi lor terrore e morte!" contiene echi piuttosto chiari dell'inizio del primo canto dell'Inferno dantesco, dove cioè compare l'inquietante ambiente della selva agli occhi del Dante personaggio: "ahi, quanto a dir qual'era è cosa dura/ esta selva selvaggia aspra e forte/ che nel pensier rinova la paura! Tanto è amara che poco è più morte".
-L'ottava cinque, punto esatto in cui vengono specificate le varie nature dei mostri infernali, è una delle più onomatopeiche non soltanto del canto IV° ma addirittura di tutto il poema di Torquato (latrar, fischiar, sibilar).

B) Aletto è la furia infernale che assume molti aspetti: assume le sembianze di un vecchio consigliere di Solimano per incitarlo a muoversi contro i crociati (canto decimo), assume i tratti di un messaggero che si reca a Gerusalemme per dare notizia di un attacco militare (canto decimo), assume l'aspetto orribile del cadavere di Rinaldo nel sogno di Argillano (canto ottavo).

Canto VIII°, ottave 59-62:

59
Al fin questi (Argillano) su l'alba i lumi chiuse;
né già fu sonno il suo queto e soave,
ma fu stupor ch'Aletto al cor gl'infuse,
non men che morte sia profondo e grave.

Sono le interne sue virtú deluse
e riposo dormendo anco non have,
ché la furia crudel gli s'appresenta
sotto orribili larve e lo sgomenta.

60
Gli figura un gran busto, ond'è diviso
il capo e de la destra il braccio è mozzo,
e sostien con la manca il teschio inciso,
di sangue e di pallor livido e sozzo.

Spira e parla spirando il morto viso,
e 'l parlar vien co 'l sangue e co 'l singhiozzo:
"Fuggi, Argillan; non vedi omai la luce?
Fuggi le tende infami e l'empio duce.

61
Chi dal fero Goffredo e da la frode
ch'uccise me, voi, cari amici, affida?
D'astio dentro il fellon tutto si rode,
e pensa sol come voi meco uccida.

Pur, se cotesta mano a nobil lode
aspira, e in sua virtú tanto si fida,
non fuggir, no; plachi il tiranno essangue
lo spirto mio co 'l suo maligno sangue.

62
Io sarò teco, ombra di ferro e d'ira
ministra, e t'armerò la destra e 'l seno."
Cosí gli parla, e nel parlar gli spira
spirito novo di furor ripieno.

Si rompe il sonno, e sbigottito ei gira
gli occhi gonfi di rabbia e di veneno;
ed armato ch'egli è, con importuna
fretta i guerrier d'Italia insieme aduna.

C) La selva di Saroon subisce il terribile incantesimo del mago Ismeno. Ogni cavaliere cristiano fugge da questo luogo di fantasmi, di voci languenti e addolorate, di molte e diverse visioni inquietanti.
Alcasto fugge subito dopo aver visto delle fiamme che formano una cittadina abitata da molti diavoli (cfr. la città di Dite nell'Inferno di Dante).
Tancredi fugge sentendo il lamento di Clorinda proveniente da una pianta.
La selva rispecchia tutti i dolori più profondi e le paure più profonde di ogni cavaliere crociato.
In questo punto mi sto riferendo ai contenuti generali del canto tredicesimo.

Canto XIII°, ottave 41-43

41
Pur tragge (Tancredi) al fin la spada, e con gran forza
percote l'alta pianta. Oh meraviglia!
manda fuor sangue la recisa scorza,
e fa la terra intorno a sé vermiglia.

Tutto si raccapriccia, e pur rinforza
il colpo e 'l fin vederne ei si consiglia.
Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,


42

che poi distinto in voci: "Ahi! troppo" disse
"m'hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.

Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m'affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne' lor sepolcri offender vuoi?

43
Clorinda fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i membri a piè de l'alte mura,
astretto è qui da novo incanto e strano,
non so s'io dica in corpo o in sepoltura.
Son di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno tronchi.
"

D) I popoli musulmani hanno tradizioni, credenze e lingue profondamente diverse l'una dall'altra. Questo lo si evince nella prima parte del canto quindicesimo, quando Carlo e Ubaldo, i due cavalieri incaricati di liberare Rinaldo dagli "incantamenti" di Armida, osservano a bordo della nave della Fortuna le terre islamiche, tra le quali anche le rovine di Cartagine. Le "ruine", dette alla maniera di Tasso, sono il simbolo della caducità di una parte di umanità presuntuosa che è sempre stata particolarmente eterogenea.
Canto XV°, ottava 20:

20
Giace l'alta Cartago: a pena i segni
de l'alte sue ruine il lido serba.

Muoiono le città, muoiono i regni,
copre i fasti e le pompe arena ed erba,
e l'uom d'esser mortal par che si sdegni:
oh nostra mente cupida e superba!

Giungon quinci a Biserta, e piú lontano
han l'isola de' Sardi a l'altra mano.

E) Molteplici forme della natura nel giardino di Armida, al canto sedicesimo. In quest'isola infatti, vi sono valli e colline, fiori e frutti, monti e corsi d'acqua... E' un molteplice decisamente seducente.

Canto XVI°, ottava 9:

9
Poi che lasciàr gli aviluppati calli,
in lieto aspetto il bel giardin s'aperse:
acque stagnanti, mobili cristalli,
fior vari e varie piante, erbe diverse,
apriche collinette, ombrose valli,
selve e spelonche in una vista offerse;
e quel che 'l bello e 'l caro accresce a l'opre,
l'arte, che tutto fa, nulla si scopre.

F) Al canto diciassettesimo, è ben chiara la multiformità delle truppe di Emireno, comandante egiziano che si sta mettendo in viaggio per Gerusalemme con molteplici rinforzi militari di popoli che, se provassero a comunicare tra loro, non si capirebbero per l'estrema varietà delle loro lingue.

Canto XVII°, ottave 15-24:
15
Nel primiero squadron appar la gente
ch'abitò d'Alessandria il ricco piano,

ch'abitò il lido vòlto a l'occidente
ch'esser comincia omai lido africano.
Araspe è il duce lor, duce potente
d'ingegno piú che di vigor di mano:
ei di furtivi aguati è mastro egregio,
e d'ogn'arte moresca in guerra ha il pregio.

16
Secondan quei che posti invèr l'aurora
ne la costa asiatica albergaro,
e li guida Arontèo cui nulla onora
pregio o virtú, ma i titoli il fan chiaro.

Non sudò il molle sotto l'elmo ancora,
né matutine trombe anco il destaro,
ma da gli agi e da l'ombra a dura vita
intempestiva ambizion l'invita.

17
Quella che terza è poi, squadra non pare
ma un'oste immensa, e campi e lidi tiene;
non crederai ch'Egitto mieta ed are
per tanti, e pur da una città sua viene:
città, ch'a le provincie emula e pare,
mille cittadinanze in sé contiene.
Del Cairo i' parlo; indi il gran vulgo adduce,
vulgo a l'arme restio, Campsone il duce.

18
Vengon sotto Gazèl quei che le biade
segaron nel vicin campo fecondo,
e piú suso insin là dove ricade
il fiume al precipizio suo secondo.

La turba egizia avea sol archi e spade,
né sosterria d'elmo o corazza il pondo:
d'abito è ricca, onde altrui vien che porte
desio di preda e non timor di morte.

19
Poi la plebe di Barca, e nuda, e inerme
quasi, sotto Alarcon passar si vede,

che la vita famelica ne l'erme
piaggie gran tempo sostentò di prede.
Con istuol manco reo ma inetto a ferme
battaglie, di Zumara il re succede;
quel di Tripoli poscia
: e l'uno e l'altro
nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro.

20
Diretro ad essi apparvero i cultori
de l'Arabia Petrea, de la Felice,

che 'l soverchio del gelo e de gli ardori
non sente mai, se 'l ver la fama dice;
ove nascon gl'incensi e gli altri odori,
ove rinasce l'immortal fenice,
ch'in quella ricca fabrica ch'aduna
a l'essequie, a i natali, ha tomba e cuna.

21
L'abito di costoro è meno adorno,
ma l'armi a quei d'Egitto han simiglianti.
Ecco altri Arabi poi, che di soggiorno
certo non sono stabili abitanti:
peregrini perpetui usano intorno
trarne gli alberghi e le cittadi erranti.
Han questi voce e femminil statura,
crin lungo e negro, e negra faccia e scura.

22
E gran canne indiane arman di corte
punte di ferro, e 'n su destrier correnti
diresti ben che un turbine lor porte,
se pur han turbo sí veloce i venti.
Da Siface le prime erano scòrte,
Aldino in guardia ha le seconde genti,
le terze guida Albiazàr ch'è fiero
omicida ladron, non cavaliero.

23
La turba è appresso che lasciate avea
l'isole cinte da l'arabiche onde,
da cui pescando già raccòr solea
conche di perle gravide e feconde.
Sono i Negri con lor su l'eritrea
marina posti a le sinistre sponde.
Quegli Agricalte e questi Osmida regge,
che schernisce ogni fede ed ogni legge.

24
Gli Etiòpi di Mèroe indi seguiro:
Mèroe, che quindi il Nilo isola face
ed Astrabora quinci, il cui gran giro
è di tre regni e di due fé capace.

Li conducea Canario ed Assimiro,
re l'uno e l'altro e di Macon seguace
e tributario al Califé; ma tenne
santa credenza il terzo e qui non venne.

G) Gli eserciti pagani sono proprio un "popol misto": poco prima della battaglia finale, al canto ventesimo, mentre Goffredo, con i suoi soldati, riesce ad essere chiaro, incisivo e coinvolgente (il suo discorso ha un largo debito con i Pharsalia di Lucano, poeta latino), Emireno non ci riesce: si avvale infatti di numerosi interpreti, corre fra tutte le parti dello schieramento e mescola lodi e rimproveri, esortazioni alla battaglia e ricompense.

 Canto XX°, ottave 24-27:

24
Cosí Emiren gli schiera, e corre anch'esso
per le parti di mezzo e per gli estremi:
per interpreti or parla, or per se stesso,
mesce lodi e rampogne e pene e premi.

Talor dice ad alcun: "Perché dimesso
mostri, soldato, il volto? e di che temi?
che pote un contra cento? io mi confido
sol con l'ombra fugarli e sol co 'l grido."

25
Ad altri: "O valoroso, or via con questa
faccia a ritòr la preda a noi rapita."
L'imagine ad alcuno in mente desta,
glie la figura quasi e glie l'addita,
de la pregante patria e de la mesta
supplice famigliuola sbigottita.
"Credi" dicea "che la tua patria spieghi
per la mia lingua in tai parole i preghi:

26
`Guarda tu le mie leggi e i sacri tèmpi
fa' ch'io del sangue mio non bagni e lavi;
assecura le vergini da gli empi,
e i sepolcri e le ceneri de gli avi.'
A te, piangendo i lor passati tempi,
mostran la bianca chioma i vecchi gravi,
a te la moglie le mammelle e 'l petto,
le cune e i figli e 'l marital suo letto."

27
A molti poi dicea: "L'Asia campioni
vi fa de l'onor suo; da voi s'aspetta
contra que' pochi barbari ladroni
acerba, ma giustissima vendetta.
Cosí con arti varie, in vari suoni
le varie genti a la battaglia alletta.
Ma già tacciono i duci, e le vicine
schiere non parte omai largo confine. (...)

Invece, nel Furioso dell'Ariosto la molteplicità non assume un valore negativo o di svantaggio, dal momento che è frutto della fantasia dell'autore. 
Oltre a ciò, non c'è una contrapposizione ideologico-militare fra pagani e cristiani. Basti pensare soltanto al fatto che Ferraù e Ruggiero salgono sullo stesso cavallo per inseguire Angelica. Anche se la loro fede religiosa è diversa.

Tuttavia, ci tengo a precisare che l'opera di Tasso non mira a condannare i musulmani in quanto "individui di altra religione" ma piuttosto, in quanto genti dagli scopi diversi e discordi e in quanto popoli sostenuti dalle forze del male. 
In questo poema, quello che è bello rilevare è infatti la lotta tra bene e male, tra una unità di intenti e una molteplicità che o seduce troppo, o incita alla violenza e all'aggressività, o spaventa, o rende individualisti, o crea fraintendimenti.

MOLTEPLICITA' E CONFUSIONE POSSONO COINCIDERE?

E' da qualche tempo che mi chiedo sinceramente: il confine fra molteplicità e confusione è sempre così netto?
Stranamente, mi sta stimolando in questa riflessione la fisica, una disciplina con la quale, quando frequentavo il liceo, non sono riuscita ad andare molto d'accordo!
Per esporre questo singolare collegamento, innanzitutto devo fare un richiamo alla parte finale della Liberata, proprio al canto ventesimo, nel quale, oltre ad essere effettivamente presenti particolari cruenti e macabri (cfr. gli Annales di Ennio, autore della latinità arcaica), spicca la confusione presso il campo di battaglia: i diversi eserciti sono costituiti da migliaia di combattenti che si scontrano e inevitabilmente si mescolano gli uni con gli altri confondendosi (latino: "cum +fundo") all'interno del campo.
In questo scontro decisivo fra crociati e musulmani gli ideali, i fini, le religioni, gli stati d'animo e le azioni dei singoli si mescolano, si affrontano e si confondono in un dramma fatto di sangue, morte e violenza.
Tutto ciò mi ha fatto pensare all'entropia.

"Entropia" deriva dal sostantivo greco ἐντροπή (=entropè), che come primo significato porta il senso della "confusione" Come seconda possibilità di traduzione invece, viene riportato il sintagma  "trasformazione interna"
Nella meccanica quantistica, l'entropia è la misura del grado di disordine all'interno di un sistema fisico. L'aumento del disordine implica naturalmente un aumento di entropia.
Penso ad un sistema fisico vastissimo, come l'Universo. 
E' risaputo che la teoria del Big Bang è ritenuta la più attendibile per spiegare la nascita dell'Universo, ambiente che, a mio avviso, potrebbe essere considerato l'emblema della molteplicità, dal momento che include diversi corpi (asteroidi, comete, miliardi di stelle di diverse età e dimensioni, pianeti con anelli e/o satelliti) e diversi elementi chimici. A dire il vero, idrogeno ed elio lo compongono per circa il 98%, ma sono presenti, seppur in percentuali molto ridotte, anche ossigeno, silicio, carbonio, ferro, neon, magnesio, azoto e zolfo.

In termodinamica (occhio, queste sono lettere greche traslitterate in italiano: θερμός (termòs= calore) + δύναμις (dìnamis=potenza)) invece, l'entropia è strettamente legata ai passaggi di calore e alle variazioni di temperatura di due corpi che vengono a contatto in uno stesso sistema fisico.
Se si portano a contatto due corpi di temperature diverse, il calore fluisce dal corpo più caldo al corpo più freddo. Credo che il contrario succeda molto raramente.
Uno dei pochi argomenti che ricordo ancora è il secondo principio della termodinamica, relativo all'irreversibilità dei processi naturali che avvengono spontaneamente. In effetti, l'enunciato di Clausius afferma che è impossibile che il calore fluisca dal corpo più freddo a quello più caldo senza che contemporaneamente avvengano cambiamenti nell'ambiente in cui i due corpi si trovano.
A proposito di entropia e di situazioni fisiche "entropiche", mi vengono in mente alcuni esempi che forse calzano:

1) Una situazione di entropia avviene quando, all'interno di uno stesso ambiente, le molecole di due gas diversi si mescolano. Se invece i due gas si trovano in uno stesso ambiente ma separati e  isolati l'uno dall'altro, per esempio da una valvola, il livello di entropia è decisamente minore.

2) In inverno aumenta la quantità di neve ad alta quota. In alcuni punti dei sentieri di montagna però, succede di vedere, al posto della neve, dei torrentini d'acqua gelata che scorrono tra le zone più sassose o tra massi di rocce (non è esclusa però la possibilità che queste piccole cascate possano ghiacciarsi). Partendo dal presupposto che l'acqua, essendo un fluido, ha più entropia del ghiaccio, il suo scorrimento comporta l'acquisizione dell'energia cinetica e... da quel che mi ricordo, almeno una parte dell'energia cinetica dovrebbe trasformarsi in calore. E' il calore (di un ambiente) che fa sciogliere il ghiaccio in acqua.

3) Sono sicura che l'entropia avvenga anche in un utero materno nel quale si sta formando una nuova vita. Non è necessario pensare al feto che deve soltanto aumentare di peso e di dimensioni o ai primi due mesi, quando cioè si formano gli organi principali e quando si differenziano i tessuti. L'entropia c'è già immediatamente dopo lo zigote, nei primissimi giorni di gravidanza quando le cellule continuano a dividersi in blastomeri. L'incrocio di due corredi cromosomici, in origine aploidi, dà vita a una serie di trasformazioni per formare un nuovo organismo con dei tratti ereditari.

Io ci so fare molto di più con le lingue, le grammatiche e le parole, per cui questo è quel poco che dal punto di vista di una materia scientifica posso imparare.
...A parte il fatto che non dimenticherò mai che, per la maggior parte degli ultimi due anni di liceo (al classico l'approccio a questa materia si inizia in quarta), io nei compiti scritti di fisica prendevo 5- .
Non riuscivo ad applicare nei problemi quello che studiavo e, da interrogata, a volte mi esprimevo con un linguaggio non rigorosamente scientifico. Una mia amica aveva i miei stessi blocchi e le mie stesse difficoltà in questa materia.
Probabilmente io in fisica non avrò mai le capacità scientifico-intellettive per poter andare oltre a nozioni e ad osservazioni di teoria, anche se mi rifiuto di essere totalmente ignorante in quest'ambito, visto che la scienza non è fatta soltanto di applicazioni metodiche di formule ma anche di contatti con la realtà e, qualche rara volta, come in questo caso, anche di richiami alla letteratura.

LA TORRE DI BABELE NELLA BIBBIA:

E' un celebre episodio biblico che gli studiosi del Medioevo e del Rinascimento hanno utilizzato per spiegarsi la varietà delle lingue esistenti nel mondo. Cioè, per loro, Dio avrebbe voluto l'ebraico come lingua unica dell'umanità. Ma la Torre di Babele, simbolo di presunzioni umane, avrebbe generato le incomprensioni verbali e le notevoli diversità tra lingua e lingua.
Come scrivevo lo scorso anno in questo periodo, quando ero intenta a preparare l'esame di glottologia prima di lavorare concretamente sulla tesi, l'ipotesi del XIX° secolo a proposito del proto-indoeuropeo come origine di molte lingue antiche e moderne d'Europa è in assoluto la più accreditata.
Genesi 11, 1-9:

"Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra."

Anche in questo caso ci sono le tematiche della molteplicità e della confusione.
Secondo la tradizione, Babele era stata fondata da Nimrod, un leggendario cacciatore. 
Nel corso del tempo, la Babilonia era divenuta un impero. I suoi abitanti avevano deciso di costruire una torre che fosse alta al punto tale da toccare il cielo. Ma Dio, chiaramente contrario al fatto che questo progetto andasse a buon fine, aveva fatto in modo di far parlare loro lingue talmente diverse da non potersi più comprendere.
E' interessante soffermarsi sull'etimologia del nome di questa città. In lingua accadica, "Babel" significa "porta di Dio". In lingua ebraica invece, "Balal" sta per "confusione". Sono due sfere semantiche completamente differenti, tuttavia avvicinabili. Dio ama le diversità di popoli, perché ama tutta l'umanità! Dicevo in alto che "confusione" proviene dal latino "cum" + "fundo"= "fondersi con".

E a questo punto mi chiedo anche: è sempre negativa la confusione? 
Credo di no, se non altro per il fatto che questa parola contiene un significativo stimolo per la nostra stessa esistenza, che mette ciascuno di noi continuamente alla prova sul cercare di mantenere la nostra unicità ma al contempo saperci relazionare con gli altri con bontà e pazienza, senza "confonderci" con loro, senza farci influenzare.
Tempo fa, partecipando ad un incontro di "Lectio" nella città in cui studio, Monsignor Don Ezio Falavegna, docente universitario di Teologia e parroco alla parrocchia del Santi Apostoli (vicino a Castelvecchio) aveva detto che l'episodio di Babele avrebbe dovuto insegnare molto a tutti i dittatori della storia.
Secondo la sua ottica di interpretazione, la torre sarebbe presunzione, arroganza, delirio di onnipotenza, volontà di imporre il pensiero unico per eliminare ogni abbozzo di individualità.
La torre di Babele rispecchia dunque la prepotenza di un popolo dominatore.
L' individualità è una grande risorsa se sa distanziarsi da atteggiamenti di egocentrismo e di individualismo.

Concludo con una mezza poesia: siamo tutti dei piccoli fiori colorati di campo, fragili ma unici nel nostro genere. Il campo è il mondo. Nel corso della nostra fugace esistenza non dobbiamo far altro che fiorire per rendere il nostro pianeta degno di ospitare un'umana umanità.


2 febbraio 2019

Un mondo agli antipodi:

Questa settimana vi illustro con piacere uno degli approfondimenti che ho portato per l'esame di storia moderna e antropologia storica.
Secondo me questo argomento sarebbe molto interessante anche per gli studenti del liceo delle scienze umane. In effetti, riassumo qui i contenuti di un libro pensando a buona parte degli adolescenti del mio paese, che stanno frequentando questo indirizzo. Soprattutto a una ragazza che, a mio avviso, dimostrerebbe già la serietà necessaria e sufficiente per poter diventare animatrice. Peccato sia nata nel 2002!

Un mio pensiero per questo post va anche al nostro curato e ad altre tre mie compaesane che stanno terminando l'avventura della GMG in America Latina.

Ho tratto le informazioni dal testo di Paolo Vignolo, intitolato "Cannibali, giganti e selvaggi- creature mostruose del Nuovo Mondo" (2009). Vi dico già che è difficile reperirlo, dal momento che, dopo il 2009, non sono mai state fatte delle ristampe. E' una monografia accessibile per lo più a studenti e docenti universitari che frequentano molto spesso le biblioteche di Ateneo, ma sarebbe stato meraviglioso diffondere maggiormente questa affascinante ricerca storico-antropologica del professor Vignolo, attualmente insegnante di Storia in una sede universitaria della Colombia.

Vi avviso: troverete delle cose strane nel corso della lettura.

Io non potrei mai vivere senza mappe e piccoli riassunti!


1. IL CONCETTO DI "ANTIPODI", IL MITO EUROPEO DELL'IMPERO UNIVERSALE E IL MITO DEL BUON SELVAGGIO: 

Parto da sinistra, comunque, e dal nome di Pietro Martire d'Anghiera, cortigiano del Rinascimento.
Nel 1493 questo cortigiano commentava il ritorno di Cristoforo Colombo dicendo che quest'ultimo "era ritornato dagli antipodi".
Tenete presente che siamo alla fine del XV° secolo, periodo in cui un viaggio verso l' altrove lontano era concepito come un viaggio agli antipodi.
In pieno Rinascimento, è stata veramente clamorosa la rivelazione dell'abitabilità di terre considerate "agli antipodi".
E' utile rilevare però che il termine antipodi ha origini greche, ed è un composto formato dalla preposizione ἀντί (antì-contro) + ποδός (podòs, genitivo singolare greco del sostantivo "piede").
"Contro piede" quindi, con il significato di un sovvertimento del senso comune.

Il primo ad utilizzare questo termine era stato Platone, che lo aveva introdotto nelle discussioni sulla forma sferica della Terra per definire un punto opposto e capovolto rispetto a quello dell'osservatore.
Poco dopo, nel "De caelo", Aristotele aveva spiegato la sua concezione sulla posizione della Terra, affermando che si trattava di una sfera immobile situata al centro dell'Universo e suddivisa in 5 fasce climatiche: 2 polari e una equatoriale, considerate inabitabili, e due intermedie dalle temperature generalmente miti. Di queste due comunque, era conosciuta soltanto la fascia settentrionale.
La fascia meridionale è stata considerata irraggiungibile fino alla fine del Quattrocento, perché si riteneva che ci fossero, a livello dell'equatore, delle barriere impenetrabili.
... Comunque, detto tra noi, non è vero che l'Artide al Polo Nord era disabitato! Gli eschimesi ci sono sempre stati: i Thule in epoca antica e nel medioevo, gli Inuit ora. Ho studiato, ovviamente in maniera non approfondita ma accennata, alcune caratteristiche della loro lingua. E' una lingua "incorporante", nel senso che in eschimese un solo vocabolo contiene spesso il senso che in italiano si ottiene con una frase. "Nacaqua" corrisponde al nostro "Io mangio la carne".

Tornando agli antipodi, vale la pena ricordare che in epoca tardo-antica, in alcuni scritti attribuiti a Isidoro di Siviglia, si parla degli antipodi come di un popolo che vive in Libia, con i piedi invertiti rispetto alle gambe e con circa 8 dita per piede. Cioè, sono antipodi perché hanno i piedi alla rovescia. Vignolo, in questo punto del suo trattato, ipotizza che alcuni copisti abbiano dato delle trascrizioni sbagliate del pensiero di Isidoro.
Per tutto il medioevo, la domanda che per alcuni studiosi è sempre stata ricorrente era: "Esiste un emisfero abitabile opposto al nostro?" 
Adesso questa risposta è fin troppo ovvia, ma mille anni fa vi ricordo che Americhe e Australia non erano conosciute e che l'Africa sub-sahariana non era ancora stata esplorata.
In età medievale inoltre, provare ad ammettere l'esistenza di un mondo "agli antipodi" significava contraddire la Bibbia e mettere in dubbio le teorie teocentriche del periodo, visto che questa ipotesi avrebbe suscitato anche un'altra domanda, come: "Possibile che esistano degli esseri umani esclusi dalla discendenza di Adamo e ignari della Buona Novella dei Vangeli?"

Vignolo dedica due paragrafi al mito europeo dell'impero universale.
Brevemente: nel corso dell'età antica e del medioevo, più di un sovrano ha avuto l'ambizione di ottenere, con le proprie abilità politico-militari, un impero vastissimo, che corrispondesse al progetto di sottomettere tutti i popoli del mondo allora conosciuto e abitato. Uno di questi è stato Alessandro Magno, che ha preteso la consacrazione imperiale iranica ed egizia. Pochi secoli dopo, l'Impero Romano, vastissimo soprattutto nel I° sec. d.C.


Durante il Rinascimento, epoca storico-letteraria in cui si sono riscoperti e rivalutati molti capolavori dell'antica letteratura greco-romana, si è dilagato presso la classe intellettuale il fascino di questo mito dell'impero universale, supportato anche dall'estensione degli orizzonti geografici dei portoghesi, che già nella prima metà del XV° secolo, sotto Giovanni I°, partivano per esplorare gli arcipelaghi dell'Atlantico. I navigatori portoghesi (e poco dopo anche quelli spagnoli!) aspiravano a conquistare e a sottomettere quei territori "laddove è notte quando qui da noi è giorno".

In un cerchio a sinistra della mappa ho messo "Montaigne".
E' meglio che lo accenni qui, ora, ma partendo dalla premessa che nella prima età moderna (XV° secolo, prima parte del XVI° secolo) si è tentato di cercare un equilibrio fra Natura e Cultura. 
I contemporanei di Colombo si consideravano nel pieno di "un'età dell'oro". Tuttavia, in questa espressione c'è anche una grande contraddizione: l'età dell'oro deve essere caratterizzata dalla Cultura e dalla fiducia nell'intelletto umano ma la Cultura, come imitazione della Natura, non può essere origine dell'età dell'oro.
Montaigne tendeva ad esaltare i modi di vivere delle popolazioni agli antipodi. Proprio Montaigne ha ideato il "mito del buon selvaggio". Vi riporto alcune parti di passi del trattato di Vignolo:

"(...) vivevamo in uno stato di natura felicemente ignorante, che la cultura ha corrotto."
"Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza (delle Americhe agli antipodi): essi non poterono immaginare un'ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza (...) E' un popolo nel quale non esiste nessuna conoscenza dei traffici, nessuna conoscenza delle lettere, nessuna scienza dei numeri... (...) Menzogna, tradimento, invidia e avarizia non si sono mai udite."

Il "nuovo mondo" sembrava dunque un Eden che gli Europei avevano perduto per sempre.
Vi invito qui a farvi un paio di domande, alle quali non risponderò: un'ignoranza così abissale rende veramente liberi e felici? La cultura è un male?
Io purtroppo sto capendo una cosa molto brutta: di solito, se il livello culturale di un individuo o di un gruppo di individui è molto basso, di solito è basso anche lo scrupolo morale e pressoché sconosciute sono la propria dignità e il rispetto per gli altri.
Essere ignoranti non corrisponde soltanto ad essere analfabeti. Vuol dire anche non leggere mai nulla, non riflettere mai sull'attualità, non avere interessi, essere incapaci di gustare ciò che si studia.
Purtroppo ci sono diversi tipi di ignoranza. E c'è anche l'ignoranza del laureato che non si aggiorna mai, che non approfondisce mai nulla e che non si sforza di rielaborare i contenuti di quello che studia!

2. I CINOCEFALI:

Ritorniamo al 1492. Il 4 novembre di quell'anno, Colombo aveva già raggiunto le terre ignote d'America, senza saperlo, tra l'altro, visto che credeva di essere in Asia, in estremo Oriente.
Nei suoi diari di bordo troviamo descrizioni relative ad alcuni esseri di quel mondo fino ad allora inesplorato, che qui riporto in modo indiretto. Colombo parla di creature dotate di un solo occhio, o dal muso di cane.

Sono cinocefali, diceva, dal greco κυνοκέφαλοι (kinokèfaloi), cioè hanno "il muso tipico dei cani e il corpo da uomini".
Ma queste descrizioni non hanno nulla a che fare con la realtà. Quindi che cosa si era fumato prima di arrivare lì? Niente. Si trattava soltanto di un'ostinazione piuttosto insana a mantenere ben salde le enormi barriere culturali con ciò che era "altro da sé". 
Ecco il motivo di tante sciocchezze!!
Può sembrare paradossale ma, per Colombo e per i suoi compagni, questo viaggio nelle terre degli Indios è servito soltanto a confermare ciò che già credevano di sapere sulle popolazioni straniere che avevano tradizioni di vita molto diverse dalle sue.
Antropologicamente, comunque, questo modo di concepire gli stranieri, i barbari, deriva dall'antica tradizione della storiografia greca.
Da Erodoto di Turi soprattutto, che, oltre ad essere uno storico, era anche un geografo e un antropologo.
Nelle Storie erodotee gli Sciti, diversi rispetto ai greci, compaiono come "delle genti dalle teste canine". Il cinocefalo è l'esasperazione mostruosa dei popoli stranieri. 
Si riteneva inoltre che i cinocefali si esprimessero con suoni a metà strada tra la parola umana e l'abbaiare dei cani.

Nel Medioevo e in età moderna si è rappresentato San Cristoforo cinocefalo:
Ma quanto è brutto???
Cristoforo significa "portatore di Cristo".
Secondo una leggenda, San Cristoforo aveva portato il Bambin Gesù sulle spalle. La testa di cane scaturiva da un sincretismo religioso con la raffigurazione di Anubi, dio egizio.
Ad ogni modo, San Cristoforo era il protettore dei viaggiatori e dunque, protettore a loro favore dalla cattiva morte.

3. LA QUESTIONE DELLA LINGUA DEI NATIVI DEL NUOVO MONDO:

Ben presto, presso gli istruiti dell'epoca rinascimentale, è sorta anche la questione linguistica.
Che lingua parlavano i nativi del Nuovo Mondo?
Non per tutti la lingua degli Indios era un misto fra l'abbaiare e il parlare umano.
Per Erasmo da Rotterdam parlavano in latino.
Per Montaigne invece, loro grande ammiratore, "la loro lingua è così dolce che sembra greco".
I teologi dell'epoca propendevano invece per l'ebraico, perché, essendo quest'ultima una lingua che si legge da destra a sinistra, sembrerebbe la più adatta ad un "mondo alla rovescia", dunque a "gente agli antipodi".
L'intento di Colombo, proprio come quello dei religiosi cattolici missionari in quelle terre, era sempre stato quello di convertire quelle popolazioni di nativi americani.
Ma, prima di attuare le conversioni, gli europei avevano dovuto fare i conti con l'estrema varietà linguistica dei villaggi americani.
Inizialmente, la relazione tra Indios, conquistadores e missionari si basava sulla mimica e sugli scambi di oggetti.
I conquistadores avevano un atteggiamento un po' diverso da quello dei frati missionari, perché imponevano le loro lingue (inizialmente, portoghese e spagnolo).
i missionari invece si sforzavano di apprendere le lingue degli indigeni.

4. CANNIBALI, GIGANTI E PIGMEI:

E' stato sempre Colombo ad inventare il termine "cannibale", legato agli Indios.
Cinocefali. E per di più, antropofagi. Secondo gli esploratori europei, gli Indios si comportano peggio delle bestie. Per questo vanno puniti. I sospettati di antropofagia e/o di sodomia venivano fatti divorare dai cani dei conquistadores.
Purtroppo, Vespucci, come il suo contemporaneo Thevet, credeva fermamente che gli Indios si nutrissero di carne umana.
Thevet, come molti intellettuali dell'epoca, sottolineava il carattere sacrificale dell'atto antropofago:

"La vittima, prima di essere cucinata, convive con la figlia di quello che lo ha catturato e si nutre di lauti pasti. La sua morte fa parte di conflitti tra gruppi rivali."

La sua morte, dunque, è una pura questione di vendetta.
Soprattutto nei secoli XVI°, XVII° e XVIII°, è prevalsa la convinzione che i nativi americani fossero antropofagi per necessità, "per delle loro esigenze nutrizionali", come affermava Diderot.

Notate che ho scritto sopra che, secondo Colombo, alcuni abitanti degli antipodi avevano "un occhio solo". Come il ciclope Polifemo nell'Odissea.

Accecamento di Polifemo
Nel corso dell'età moderna, i giganti erano definiti attraverso due termini: "patagoni" e "ciclopi".
Il termine "patagoni" deriva dalla parola spagnola "pata" (=zampa). I patagoni erano "giganti dalle zampe deformi".
"Primaleòn" è il titolo di un romanzo cavalleresco rinascimentale, uscito nel 1512, che ha per protagonisti due giganti: Primaleòn e Patagon.
Patagon è un gigante feroce, temibile, che si nutre di carne umana. Ha il muso di cane e i denti da orco.
1512. Non a caso ho specificato la data esatta di uscita dell'opera. 1512 vuol dire 7 anni prima dell'inizio della navigazione di Magellano.
Secondo Vignolo, "pare che i patagoni pre-esistano alla loro scoperta".
Chiamiamola "scoperta", ma in realtà è tutta una fantasia costellata di pregiudizi.

Gli uomini del Rinascimento, quindi, credevano anche nell'esistenza dei giganti nel mondo degli antipodi.
I giganti sono sempre stati parte della cultura occidentale europea.
Sin dalla mitologia più antica, i giganti erano presenti a partire dalla notte dei tempi.
Zeus, secondo la cultura greca, aveva dovuto lottare contro i giganti per il possesso dell'Olimpo.
Anche la Bibbia fa menzione dei giganti, dicendo che sono esseri generati dall'accoppiamento tra angeli e figlie di esseri umani.

Genesi 6: "C'erano i giganti quando le figlie degli uomini si univano con i figli di Dio."

Concludo definitivamente con i pigmei.
Frequentemente, nei resoconti dei viaggi di Sepulveda verso il Nuovo mondo, troviamo i pigmei, uomini di bassa statura.
Sepulveda ha dato origine alla teoria dell'homunculus, ovvero, dell'uomo divenuto bestia per depravazione.
Ad ogni modo, i pigmei compaiono già nella letteratura celtica del X° secolo, dove si narra che un pozzo, ingresso del Purgatorio, conduce al mondo degli antipodi popolato da pigmei.
Anche nell'epica carolingia troviamo creature simili ai pigmei, nel punto in cui re Artù sottomette una popolazione di nani.

Nel Cinquecento, Paracelso aveva assimilato gli Indios sia ai giganti che ai pigmei.
Nel corso del secolo successivo, Bacone, nella sua Nuova Atlantide, sosteneva che "giganti e pigmei, in quanto esseri fuori taglia e fuori norma, costituiscono il paradigma dei nuovi processi di conoscenza."
Jeronymus Bosh, "Il giardino delle delizie".
A mio avviso, non c'è chiusura più adatta di questo trittico di Bosh, realizzato sempre in epoca rinascimentale.
Le creature qui raffigurate, quasi tutte anomale, sembrano parte di un sogno terrificante, assurdo, incredibile.
C'è confusione in quest'opera pittorica.
Più che il giardino delle delizie sembra il parco acquatico di un pianeta appartenente ad un'altra galassia e popolato di mostri, di nani, di giganti e di antropofagi... (!!!)