15 agosto 2019

"Con il sole negli occhi": il dramma dell'immigrazione e la rivalutazione della maternità

"Con il sole negli occhi" è una storia d'amore. 
Dal mio punto di vista, è il percorso di maturazione spirituale di una donna che, dopo anni di vanità, riscopre sia il dolore della solitudine sia la bellezza del dono di sé.

CONTENUTO FILM:

La protagonista è Carla Astrei, una donna di circa 50 anni che vive e lavora a Roma come legale.
All'inizio appare una "superficialona". Capirete fra un attimo il motivo.
Carla è sposata da 21 anni con Giorgio. Sono una coppia senza figli. Durante la loro festa di anniversario, condivisa con molti amici a casa dei due coniugi, Carla dice ad un'amica di vecchia data: "Le coppie senza figli sono quelle più stabili, lo ha detto anche una statistica. Io e Giorgio stiamo benissimo così, siamo completi e felici così".
"Ma dove sono finite tutte le tue teorie di ragazza, quando dicevi che senza figli la vita di una donna non vale nulla?", le chiede stupefatta la sua interlocutrice.
Altro importante dettaglio: mentre le due amiche parlano, di sottofondo ci sono le immagini degli sbarchi degli immigrati a Lampedusa e le voci dei giornalisti che parlano di bambini annegati o morti di fame e di freddo. 
Né Carla né il marito né alcuno tra gli invitati sembra farci caso.
... Giorgio e Carla sono talmente stabili che, il giorno dopo la festa, tutto il loro percorso coniugale si sfalda, in seguito ad una rivelazione, grave e importante, da parte del marito.
Mi sono rimaste parecchio impresse le parole di Giorgio: "Carla, in che cosa siamo diventati migliori in tutti questi anni di matrimonio? Non siamo maturati. Abbiamo continuato le nostre vite pensando solo a noi stessi. E' da tempo che ho un'altra. Ormai mi sembrava giusto e corretto dirtelo, non voglio più continuare a ingannarti."

...21 anni andati "inaspettatamente" in fumo... 

Tristissima e traumatizzata, Carla decide di allontanarsi subito dalla loro casa, per tornare a vivere in una zona di periferia romana, la stessa zona nella quale aveva abitato da ragazza.
Durante una sosta, mentre si fa fare il pieno di benzina, nota che vicino al distributore c'è una rete e, dietro di essa, un bambino che tiene in mano una fotografia e le indica due ragazzini ritratti, poco più grandi di lui e con le pupille ristrette a causa del sole negli occhi. Immediatamente, il benzinaio le rivela che il piccolo si trova in un centro di accoglienza per profughi minorenni e, per "liberarsi" di una presenza chissà per quale oscuro motivo scomoda, direziona il getto d'acqua di una gomma da giardinaggio in faccia al bambino... che schifezza! Io non faccio così neanche con i miei gatti... Non mi passerebbe nemmeno per l'anticamera del cervello farlo con un profugo di circa 7 anni!
Ad ogni modo, a Carla si apre improvvisamente il cuore: visita il centro di accoglienza, all'interno del quale incontra dei volontari ben motivati e, per loro natura, generosi. 
Grazie a loro, la protagonista di questa vicenda viene informata del fatto che il bambino è siriano ed è scampato miracolosamente ad un tragico naufragio, che aveva due fratelli (gli altri due bambini della foto) risultati dispersi e che si è sempre rifiutato di rivelare il proprio nome. L'unica parola che gli avevano sentito pronunciare una volta arrivato era stata: "Marhaba", che in arabo significa "benvenuto".
Carla diviene ben presto una dei volontari del centro, abbandona la sua carriera di avvocato e scopre che il piccolo siriano soffre di un dolore lacerante, che lo rende sia un isolato dagli altri bambini sia un elemento che manifesta comportamenti talmente problematici che nessuno dei volontari riesce ad arginare. Soltanto Carla, con la sua inaspettata dolcezza e pazienza,  conquista la sua fiducia. La donna inoltre, si impegna a trovare i suoi fratelli più grandi: va a Lampedusa a cercare notizie. Sull'isola le rivelano che i due bambini della foto sono morti.
Ritornata a Roma, Carla ragiona in questo modo: "E' orfano. Ora sono sicura che quel bambino non ha nessuno al mondo. Al centro di accoglienza si sono impegnati per poterlo rendere felice, ma senza risultati. Potrei chiedere intanto l'affido temporaneo."

E lo ottiene!


Felice di essere riuscita a dare un senso alla propria vita, Carla rende la sua casa un luogo molto confortevole per un bambino, e finalmente il bambino inizia a sorridere e a interagire con lei, soprattutto attraverso gesti d'affetto.
E Carla riscopre la grandezza di ciò che prima di allora non aveva mai voluto avere. Diventa una vera mamma adottiva: cambia il suo sguardo e cambia anche il suo modo di vedere la vita, perché mentre prima i soldi erano la sua priorità, ora lo diventa una relazione che può essere l'inizio di una storia meravigliosa.
Proprio nel periodo in cui l'affido va di bene in meglio, Carla viene contattata dalla comunità siriana di Roma: i due fratelli del bambino probabilmente sono vivi e si trovano a Berlino, in Germania, adottati da una coppia tedesca e benestante.
Se questa buona probabilità fosse una certezza, il bambino deve lasciare Carla per ricongiungersi con quel che rimane della sua famiglia di origine.
A Carla crolla di nuovo il mondo addosso.
E in effetti, la probabilità si trasforma, alla fine del film, in una verità.

Carla ritorna sola da Berlino, con un senso di profonda malinconia, ma anche di gratitudine verso un bambino: "Gli sono e gli sarò sempre riconoscente per aver dato un senso alla mia vita. Il nostro incontro è stato per me una parentesi indimenticabile".
Così, nelle ultime battute del film, non le resta che chiedere ad una dei volontari del centro: "Vi serve ancora aiuto? Se volete io posso continuare a darvi una mano."
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Da un regista come Pupi Avati ci si aspettano soprattutto film profondi e di valore.
Questo film è del 2015. Ecco come, quattro anni fa, il regista stesso ha spiegato la scelta del soggetto:

"Mi sono reso conto che il dramma dei migranti, di un mar Mediterraneo pieno di persone che non ce l’hanno fatta, aveva bisogno di essere raccontato in modo diverso da quanto hanno fatto finora i media. Si parla di numeri che ci sembrano estranei, lontani da noi. Per questo ho scelto di raccontare la storia di uno di questi migranti”.

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AYLAN:


Ve lo ricordate tutti, vero?
Era siriano e aveva soltanto tre anni quando è morto.
Scappava, insieme alla sua famiglia e ad altri suoi connazionali, dalla guerra civile e dagli attacchi terroristici dell'ISIS.
I genitori di Aylan volevano ricongiungersi con altri parenti che erano a Vancouver, in Canada. 
La zia del bambino, già trasferita in Canada, aveva presentato una domanda di sponsorizzazione per i rifugiati, che era stata respinta sia dal Dipartimento di Immigrazione e Cittadinanza del Canada, sia perché la domanda di asilo risultava incompleta sia perché le autorità turche impedivano l'espatrio della famiglia.

Il 2 settembre 2015, Aylan , i genitori e circa un'altra ventina di migranti erano partiti comunque da Bodrum (Turchia)  con un gommone che si era capovolto nel giro di pochi minuti. 

La guerra. I bombardamenti. L'espatrio fatto di nascosto e con mezzi decisamente inadeguati. Una famiglia estinta dalle crudeli e implacabili onde del mare. Un bambino piccolo al quale è stato sottratto per sempre il futuro.


Fa bene a tutti noi ricordare ogni tanto la tragica fine di questo piccolo migrante, diventato il simbolo di uno dei drammi più rilevanti del nostro secolo.

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