28 luglio 2022

"Il deserto dei Tartari", Dino Buzzati:

Mi concentrerò su diversi passi e su alcuni capitoli del libro e vedrete quanti spunti di riflessione e quanti collegamenti si possono fare sul tempo e sulla vita, sui rapporti umani e sull'importanza di avere uno spirito critico con quest'opera!


Giovanni Drogo, protagonista indiscusso del romanzo, è un giovane soldato appena uscito dall'Accademia Militare che deve raggiungere la sua prima destinazione, ovvero, la Fortezza Bastiani, affacciata su un deserto. Secondo alcune leggende popolari, quel deserto era stato sede delle scorrerie dei Tartari in un'epoca passata.

Il tenente Drogo è decisamente giovane e nutre, almeno all'inizio della storia, diverse aspettative nei confronti dell'avvenire:

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare.

Queste frasi mi danno l'occasione di collegarmi a quanto avevo scritto mercoledì scorso: la prima giovinezza è l'età della formazione, l'età dei progetti concreti per il futuro, l'età in cui è giusto e doveroso provare e mostrare motivazione e impegno in modo tale da poter raggiungere i propri obiettivi. 

La fascia di vita 18-25 non è un tempo di "perdizione": non vorrei fare la morale, ma vivere questi anni da "inerti", senza progettare un futuro professionale e senza nutrire degli interessi, è indubbiamente un male. 

Nel primo capitolo, ad ogni modo, c'è un Drogo venticinquenne che deve affrontare il passaggio tra prima e seconda giovinezza. Come ho scritto poco fa, egli nutre delle aspettative per la sua carriera di militare, ma al contempo prova un po' di apprensione nei riguardi del futuro:

Tutta quella vita facile ed elegante ormai non gli apparteneva più, cose gravi e sconosciute lo attendevano. 

Finite le serate lunghe che venivano trascorsi con i colleghi dell'Accademia, finito il tempo in cui il protagonista della storia viveva con la famiglia di origine. Si apre un nuovo periodo fatto di maggiori responsabilità.

Dopo un lungo viaggio a cavallo, la Fortezza Bastiani gli appare una solitaria bicocca separata dal mondo. 

Bicocca è un termine milanese che ho avuto modo di riscontrare in Manzoni quando ad esempio si riferisce al palazzotto di Don Rodrigo: Il palazzotto di Don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza di una bicocca.

Drogo arriva poco dopo il tramonto del sole. Mi è piaciuto l'inizio del secondo capitolo:

La valle si era stretta e la Fortezza era scomparsa dietro le montagne incombenti. Non c'erano lumi, neppure voci di uccelli notturni, solo di tanto in tanto arrivava un suono di acque lontane Provò a chiamare ma gli echi gli respinsero la voce con timbro nemico.

Il paesaggio è arido. Drogo è nel deserto e, a mio avviso, questa caratteristica dell'ambiente che lo circonda è simbolo di quella che diverrà la sua aridità d'animo... Cioè, all'inizio Giovanni Drogo non è proprio arido, ma lo diventa nel corso del tempo, invischiandosi in un'attesa inutile che gli fa buttare via quasi tutta la sua esistenza. L'attesa di nemici che per decenni non arrivano mai nei pressi della Fortezza.

Che cos'è l'aridità d'animo? Ha soltanto a che fare con egoismo e insensibilità? E se fosse anche l'incapacità di affrontare i cambiamenti che la vita ci mette davanti, e se consistesse anche nel non voler trarre profitti e vantaggi dalle esperienze che si vivono?

E qui mi sento di instaurare due parallelismi: il giovane Petr, protagonista del romanzo di Puskin La figlia del capitano, giunge alla fortezza di Belogorsk in mezzo alla steppa, dove non c'è molto da fare, esattamente come alla Fortezza Bastiani. Ma Petr finisce lì per volere del padre padrone che ha paura che il figlio acquisisca abitudini corrotte se andasse a Mosca o a San Pietroburgo. 

Drogo invece obbedisce al suo primo ordine: trascorrere almeno quattro mesi in quel posto desolante e desolato. 

C'è comunque una differenza fondamentale tra i due romanzi: in Puskin, nel giro di alcuni mesi, la Fortezza Belogorskaja diventa un luogo in cui combattere e difendersi dal rivoluzionario Pugacev e Petr ha appena 18 anni, mentre, già ve lo anticipo, la possibilità di compiere eroismi alla Fortezza Bastiani si fa concreta quando Drogo è fuori uso, cioè, ha più di 50 anni, è molto malato e ormai attende la morte.

Poi penso anche a Passaggio in India di Forster: le Marabar Caves, aride e prive di vegetazione, riconducono innanzitutto alla solitudine e all'aridità interiore di Adela, incapace di lasciare un fidanzato che non ha mai amato. E poi, anche all'insoddisfazione e alla malinconia di Aziz, vedovo con tre figli.

Il deserto, i luoghi poco abitati e i panorami aridi in letteratura rimandano sovente a infelicità, e a situazioni di vita "non fertili" per i personaggi, cioè, a condizioni che non li gratificano e che rischiano di farli sprofondare in un immobilismo che può non permettere loro di realizzarsi.

Questo è senz'altro un romanzo sul formalismo militare: Il formalismo militare, in quella fortezza, sembrava aver creato un insano capolavoro. Centinaia di uomini a custodire un valico da cui nessuno sarebbe passato.

Nel corso della lettura diviene inoltre chiaro che questo formalismo consiste nella cieca obbedienza agli ordini, nell'attuare azioni meccaniche senza ricorrere alla coscienza. Importante, a mio avviso, è il fatto che quasi tutti i militari della Fortezza Bastiani sono conosciuti dai lettori attraverso i loro cognomi. In pochissimi casi si citano anche i loro nomi propri. E' una scelta che l'autore ha fatto probabilmente per evidenziare il loro attaccamento all'etica militare e non ai valori umani.

Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta con il tempo, uomini fatti consumavano lassù la miglior parte della loro vita.


Che senso ha stare alla Fortezza se non ci sono mai invasioni nemiche? Questo si chiede Drogo nelle prime settimane in cui è lì. Non ci sono, per l'appunto, azioni gloriose e onorevoli da compiere. I giorni sono tutti uguali. Non c'è una quotidianità faticosa e impegnativa:

(...) la vita della Fortezza inghiotte i giorni l'uno dopo l'altro, tutti simili, con velocità vertiginosa. Ieri e l'altro ieri erano uguali; un fatto di tre giorni prima o di venti finiva per sembrargli ugualmente lontano. Così si svolgeva la fuga del tempo.

πάντα ῥεῖ, diceva Eraclito. Questa frase mi torna sempre alla mente quando cammino sul sentiero accanto al Tione, le cui correnti spesso sono rapide. Il tempo scorre e, per l'appunto, scorre incessantemente come le acque di un fiume o di un torrente. Eppure, questo è un punto in cui Drogo pensa di avere un sacco di tempo da vivere. Ma non sa che ogni giorno è in sé una vita. Non sa che la vita scorre costantemente dal momento che è sorella del tempo.

Il soldato Tronk è un tristissimo esempio di chi esegue gli ordini e rispetta scrupolosamente i regolamenti e le procedure, dimenticandosi della propria interiorità. Tronk è l'emblema di un servizio militare alienante:

Dopo ventidue anni di Fortezza, che cosa era rimasto di quel soldato?  Si ricordava ancora Tronk che esistevano, in qualche parte del mondo, milioni di uomini simili a lui che non vestivano l'uniforme? (...) No, degli altri uomini Tronk si era dimenticato, per lui non esisteva più che la Fortezza con i suoi odiosi regolamenti.

Ma contano soltanto le regole, le norme e le leggi? Conta soltanto il ruolo che si riveste nella vita sociale o anche il nostro mondo interiore? Sono le leggi che rendono la vita pienamente vissuta oppure sono i rapporti umani? E se le leggi, come nel caso dell'Italia fascista o della Germania nazista, ledessero la dignità altrui e non garantissero pace e rispetto reciproco? 

Sconvolgente è l'episodio della terribile morte del soldato Giuseppe Lazzari che, uscito al buio della notte per recuperare un cavallo e, avendo dimenticato la parola d'ordine per poter rientrare nella Fortezza, viene ucciso a colpi di fucile dalla sentinella. Significativo è ciò che scrive l'autore:

-"Sono io, Lazzari! Non mi vedi? Moretto, o Moretto! Sono io! Ma che cosa fai con il fucile? Sei matto, Moretto?"

Ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l'amico.

La sentinella è un automa che attende soltanto un cenno di autorizzazione a uccidere da parte del maggiore Matti (il militare più stupido della Fortezza Bastiani) che, mezz'ora più tardi, di fronte al cadavere di Giuseppe Lazzari, dirà: Bravo Moretto, bella mira!

Già qui è evidente che questo romanzo è contro il dogmatismo e a favore del senso critico.

Altro personaggio oltremodo drammatico è il melanconico tenente Angustina. Nel suo caso, sembra che il deserto in cui è immersa la Fortezza gli abbia fatto dimenticare la memoria di legami importanti: quando il compagno Lagorio, che prende la decisione di trasferirsi dopo due anni di permanenza, gli chiede se per caso non ha voglia di rivedere la famiglia e la fidanzata Claudia, Angustina risponde: 

-La Claudina? Ma che Claudina? Io non mi ricordo... (...) 

E poco dopo:

-Già, la Claudina, figurati, non si ricorderà nemmeno che esisto.

Anche Drogo, nel corso del tempo, diventa assuefatto alla monotonia della Fortezza. Non si fa trasferire da lì nemmeno dopo due o quattro anni, nemmeno dopo dieci o vent'anni, per due motivi: perché spera sempre che giungano dei nemici da attaccare e perché alcuni dei suoi commilitoni riescono sempre a convincerlo a rimanere. Lo persuadono talvolta alimentando in lui l'attesa di un'eventuale battaglia con un eventuale esercito nemico, talvolta criticandolo aspramente per la sua intenzione di andarsene. Ma in ogni caso, è sempre lui che decide sulla sua vita.

E poi, a me da lettrice è venuto un sospetto: Drogo sogna l'eroismo ma la sua decisione di restare non nasconde forse la paura di affrontare le sfide della vita?

Poco prima di metà libro traspaiono le sue visioni allucinate: un pomeriggio, insieme a Tronk, Drogo crede di vedere una schiera di soldati all'orizzonte, da una delle torri della fortezza. Ma non è così: è soltanto un cavallo lontano.

Questo romanzo è stato pubblicato nel 1940. Tra il 1924 e l'inizio della seconda guerra mondiale è in voga il Surrealismo, oggi sinonimo di "assurdità". Ad ogni modo, il Surrealismo era un movimento artistico e letterario che esaltava l'inconscio, il sogno, parti della psiche che consentono all'uomo di esprimersi in modo più autentico, senza l'utilizzo della ragione.

Il Surrealismo è nato in Francia e si è poi diffuso in Europa. Il maggior esponente spagnolo, per l'ambito pittorico, è Salvador Dalì, abile a raffigurare delle surrealtà oniriche:

Drogo sembra vivere in una non-realtà: fantastica battaglie e assedi (tanto nella Fortezza non ci sono relazioni da coltivare né imprese da affrontare, quindi ha tutto il tempo che vuole) nella sua mente, senza mai viverle concretamente:

E ritornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei lunghi turni di guardia e ogni giorno perfezionate con nuovi particolari. In genere pensava ad una disperata battaglia impegnata da lui, con pochi uomini, contro innumerevoli forze nemiche; come se quella notte la Ridotta Nuova fosse stata assediata da migliaia di Tartari. Per giorni e giorni lui resisteva, quasi tutti i compagni erano morti o feriti; un proiettile aveva colpito anche lui, una ferita grave ma non tanto, che gli permetteva di sostenere ancora il comando.

Se Stefano Roi fugge dal colombre per tutta la vita ed evita di incontrarlo a causa dei suoi pregiudizi, Giovanni Drogo, purché arrivi un'occasione di battaglia, è disposto a buttare via tutta la sua giovinezza nella monotonia di giorni tutti uguali, in quel deserto dal clima continentale con le estati troppo secche e troppo soleggiate e gli inverni troppo freddi e rigidi. Un particolare da non dimenticare è il fatto che la Fortezza Bastiani è delimitata da montagne rocciose. 

Anzi, in inverno, i sentieri delle montagne, strapieni di neve, divengono addirittura pericolosi: è questo che testimonia la fine di Angustina il quale, essendo malato, stoicamente e con gli stivali troppo stretti, si sottopone ad una marcia militare guidata dal cinico Monti che, pur accorgendosi delle condizioni del suo collega, accelera il passo nelle salite e nei punti più ripidi, pensando: Con tutte le arie che ti dai ti farò vedere io. 

Il tenente Angustina muore di freddo e stremato, tra la neve alta e gelida.

Finora, soltanto nei componimenti dello Zanzotto maturo ho trovato una simbologia positiva legata alla neve, che allude all'Eterno e alla beatitudine.

Ho visto il film ispirato a quest'opera di Buzzati: è fedele, ma non racconta agli spettatori il momento in cui Drogo, a trent'anni esatti, ritorna nella sua cittadina natale per due mesi grazie ad una licenza. Ed è qui che Buzzati apostrofa energicamente il protagonista mentre si allontana:

Non pensarci più, Giovanni Drogo, non voltarti indietro ora che sei arrivato al ciglio del pianoro e la strada sta per immergersi nella valle. Sarebbe una stupida debolezza. La conosci pietra per pietra, si può dire, la Fortezza Bastiani, non corri certo il pericolo di dimenticarla. Il cavallo trotta allegramente, la giornata è buona, l'aria tiepida e leggera, la vita ancora lunga davanti, quasi ancora da cominciare; che bisogno ci sarebbe di dare un'ultima occhiata alle mura, alle sentinelle di turno sul ciglio delle ridotte? Così una pagina lentamente si volta, si distende dalla parte opposta, aggiungendosi alle altre già finite(...) ma è pur sempre un'altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita.

Questa del suo ritorno a casa per alcune settimane sarebbe una possibilità concreta per cambiare vita, per farsi trasferire, dove in cuor suo desidera, in una cittadina movimentata in riva al mare.  E invece... con i genitori sembra non avere rapporti di confidenza, con Maria, la ragazza con la quale era stato fidanzato, non c'è un'intenzione di condividere un futuro insieme. Pur trovandosi con familiari, amici e ragazza, il suo pensiero fisso è sempre la Fortezza Bastiani. Giovanni Drogo è alieno al mondo e alienato dal mondo.

Drogo si accorge che i suoi coetanei trentenni o sono già realizzati oppure si stanno realizzando: chi è sposato, chi lavora, chi ha cambiato casa e si è appena trasferito, chi affronta l'esperienza di diventare genitore... 

Non credo lo abbiate letto, o comunque, sicuramente pochi di voi conoscono questo romanzo: La casa di Via Valadier di Carlo Cassola. Famiglie politicamente tendenti a sinistra che si radunano, in epoca fascista, proprio in quella casa di nascosto, ospitati da Anita Turri, vedova di un deputato socialista. E i loro figli intanto trovano la loro strada, con fatica nel caso di Leonardo, nipote di Anita che, a 30 anni, non ha né lavoro né ragazza. 

E' "un fallito", per questo i suoi coetanei o ex compagni di liceo, quando lo incontrano per strada, si allontanano in fretta. Dieci anni dopo Leonardo è con Elena e lavora per l'Avanti!

Buzzati stesso a 30 anni era già realizzato: dopo la maturità classica non si è iscritto a Lettere ma a Giurisprudenza, più per accontentare il padre che non per reale interesse verso leggi e diritti; quindi forse, quel ma è pur sempre un'altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita, lo dice anche a se stesso, ricordando il suo periodo universitario. Buzzati avrebbe dovuto intraprendere il mio percorso di studi... io l'ho studiato in modo dettagliato e, nelle sue pagine di diario, diceva di essere il terzo alunno migliore della classe, con una media molto vicina all'otto nelle lingue antiche.

Una volta laureatosi, Dino Buzzati aveva deciso di intraprendere la carriera di giornalista. Nel 1928 è stato assunto dal Corriere della Sera e nel 1939 è stato inviato speciale in Etiopia, mentre, durante la seconda guerra mondiale, è stato corrispondente per vari fronti militari. Intorno ai 24 anni si era manifestata chiaramente anche la sua predisposizione per la scrittura. Comunque, il Buzzati trentenne non aveva famiglia ma già lavorava ed era soddisfatto e contento di ciò che faceva.

Tornando a Drogo, si può tranquillamente affermare che la permanenza alla Fortezza abbia cambiato il suo modo di sentire. Ha la malattia della non-vita, come il pianista sull'oceano del film musicato da Morricone. Il pianista, dotato di un talento straordinario, a 32 anni avrebbe l'occasione di scendere dalla nave, di sistemarsi con una ragazza, di riscuotere successo negli Stati Uniti. Ma, mentre scende le scale che lo separano dal porto, dà una lunga occhiata alla città di New York e risale. Sull'oceano i giorni sono tutti uguali e le relazioni sono fugaci. Eppure, il pianista, impreparato a vivere veramente, rifiuta di lasciare per sempre la nave. Sceglie? Certo che sceglie! Opta per conservare il suo status di artista solitario, malinconico e semi-sconosciuto.


Giovanni Drogo ritorna quindi alla Fortezza Bastiani dopo due mesi a casa. Nel frattempo, la Fortezza ha subito un ricambio generazionale: quasi tutti quelli che erano i suoi commilitoni hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso altre sedi. Invece Drogo, insieme all'altro tenente il cui cognome è Simeoni, è in preda alle illusioni: qualsiasi puntino nero all'orizzonte rappresenta la speranza di combattere. Invece si tratta di nebbie, o di animali lontani. E intanto passano gli anni. 

La Fortezza è immersa in un eterno presente. Come il paesaggio, anche questo arido e desolante, che circonda i due personaggi del dramma di Beckett, Waiting for Godot. Chi stanno aspettando?! Il signor Godot che non arriva mai. E i loro discorsi sono senza senso, le loro giornate vuote.

Ad ogni modo, il messaggio del Deserto dei Tartari a mio avviso è soprattutto questo: devi vivere per ciò per cui vale la pena vivere.

Per Drogo la morte, che sopraggiunge di notte quando è seduto su una poltrona, è una liberazione dall'inadeguatezza e dall'incapacità di gustare la vita.

A voi altre eventuali riflessioni, io in questi giorni ho appena trovato il tempo di scrivere questo post. Più avanti comparirà anche Opinioni di un clown di Heinrich Boll. Lo sto leggendo da 10 giorni e mi mancano 60 pagine. E' molto impegnativo, non meno di questo libro di cui vi ho scritto.

Potreste anche interpretare trama e contenuto diversamente da me. Potreste leggere il romanzo stando attenti alle figure che compaiono e provando a immaginare quell'ambiente desertico e noioso. (A molti non piace Buzzati né Il deserto dei Tartari, ma credo sia per il semplice fatto che non vogliano riconoscere certe condizioni umane).

Per i vostri pensieri, provo a porvi, qui a fine post, alcune domande:

-Cosa significa "buttare via la vita"?

-La scelta è, quasi sempre, anche rischio. Vuol dire andare incontro a cambiamenti, a nuove prospettive. Ma è un qualcosa che è essenziale nella nostra esistenza. Che cosa sta all'origine della paura di scegliere? E' legata all'ansia per l'avvenire?

-Esiste un'età in cui ci si deve assolutamente e totalmente realizzare? O è soltanto la mentalità sociale del secolo scorso che delineava i trent'anni come "l'apice della realizzazione umana, professionale e affettiva" ?

-Voi pensate che la realizzazione in molti campi arrivi pian pianino, costruendola nel tempo, con tenacia e convinzione in ciò che si vuole raggiungere? Oppure sia qualcosa di impossibile nell'epoca in cui viviamo, fatta di incertezze economiche, di riscaldamento globale, di mancanza di valori condivisi?


  

20 luglio 2022

Attesa e immobilismo:

"E' sicuramente ritornata dal campo con i ragazzi delle medie. Possibile che non scriva ancora? Aspettavamo la recensione sul Deserto dei Tartari". Probabilmente alcuni tra di voi si saranno fatti questa domanda ultimamente. 

Rieccomi! 

Fisicamente dietro ad uno schermo.

Il campo è andato bene, per me è stata una conferma del fatto che sono proprio idonea a quell'età. I ragazzi hanno avuto molta stima di me, per sei giorni mi sono sentita dire "Sei una persona molto forte", "Sei molto sensibile con noi", "Ci mancherai quando il campo finirà", "Mi mancherai", "Grazie per averci aiutati a crescere e a maturare", "Meno male che sei tu la nostra animatrice di gruppo"... 

Per questo venerdì a mezzogiorno ho ceduto e, abbracciando diversi e diverse di loro, ho pianto di gioia e di soddisfazione. 

In questi primi tre giorni di questa settimana ho dovuto far fede a diversi impegni e... al di là della mia felicità, ora il caldo non lo sopporto più: adesso lo sento eccome (e ho mal di gola a causa dell'aria condizionata)! La scorsa settimana in montagna a più di 1000 metri si dormiva con le coperte, c'era sempre nuvoloso e addirittura freddo. Però anche in Lessinia il problema della siccità è molto grave: non piove da un pezzo, i prati e i pascoli sono secchi e i sentieri dei boschi sono strapieni di foglie secche che possono far scivolare.

Sta facendo come nel 2015: cioè, un'ondata di caldo torrido molto prolungato con notti senza fresco e senza un filo d'aria e piogge rarissime. Me lo ricordo il 2015: era il mio primo anno di sessione d'esami estiva ed è stata un'annata di afa soffocante per quasi tutta l'estate, con l'autunno e l'inverno troppo soleggiati al punto tale che non servivano giacche o impermeabili. 

Estati come questa e come quella di sette anni fa sono disgrazie, non stagioni calde. 

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Prima di affrontare i contenuti e i temi dell'opera più celebre di Buzzati preferirei però riflettere su due termini e proporvi alcune riflessioni che sono riuscita a formulare nei giorni scorsi e nei momenti liberi che ho avuto.

ATTESA

IMMOBILISMO

Che differenza c'è tra questi due termini?


Vi anticipo che l'attesa e l'immobilismo sono i temi principali del Deserto dei Tartari.

A) D. BUZZATI, "I GIORNI PERDUTI":

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.

Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all'estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone.

Kazirra scese dall'auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.

Si avvicinò all'uomo e gli chiese:

- Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c'era dentro? E cosa sono tutte queste casse?

Quello lo guardò e sorrise:

- Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? Sono i giorni.

- Che giorni?

- I giorni tuoi.

- I miei giorni?

- I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso?

Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.  C'era dentro una strada d'autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata che se n'andava per sempre. E lui neppure la chiamava.

Ne aprì un secondo. C'era una camera d'ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari.

Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare.

Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.

- Signore! - gridò Kazirra. - Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.

Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell'aria, e all'istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l'ombra della notte scendeva.

Ho deciso di svolgere un lavoretto di antologia che è proprio da ragazzi dei primi due anni di scuole medie: ho suddiviso il racconto in quattro sequenze e ho dato a ciascuna di esse un titolo.

L'ho fatto qui sotto:

1°= L'uomo con la cassa sulle spalle, che va da "qualche giorno dopo" a "fermandosi sul ciglio di un vallone".

2°= L'immenso mucchio dei giorni perduti, che va da "Kazirra scese" a "ne aprì uno".

3°= Le tre occasioni perdute, che va da "c'era dentro" a "non si sognava di tornare".

4°= Un'inutile supplica che va da "si sentì prendere" a "l'ombra della notte scendeva".

Ernst Kazirra vive una sorta di sogno ad occhi aperti in cui rivede la sua vita e si rende conto degli errori commessi: non ha dato priorità alle relazioni importanti. 

Lo scaricatore di casse rimane sempre anonimo. Ernst all'inizio gli dà del "tu" (=Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco) e poi passa al "lei" (=Signore! Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni).

Per quale motivo l'autore mette in atto questo insolito passaggio? Di solito nella vita reale si fa l'esatto contrario. Inizialmente, non appena lo vede, anche se si tratta di un adulto sconosciuto, il "tu" proviene verosimilmente da una sensazione di sorpresa mista a fastidio. Lo scaricatore è una comparsa inaspettata che valica i confini della sontuosa villa.

Eppure, quando Ernst sa che le casse contengono i giorni perduti, è preso da un senso di rimpianto e di colpa. La figura che gli sta davanti e gli permette di investigare all'interno della sua memoria e, il senso di soggezione di Ernst verso lo sconosciuto è messo ben in evidenza dalla similitudine, riferita allo scaricatore, che per l'appunto è immobile come un giustiziere di fronte alla presa di coscienza di Ernst.

Altro particolare interessante: Ernst, al momento del racconto, è ricco. Ma lo è sempre stato? Da quale passo potete comprendere che c'è stato un cambiamento nella sua vita (economico ma non etico)?

I tempi che caratterizzano la narrazione sono il passato remoto e l'imperfetto, mentre invece i tempi che permeano i dialoghi tre i due uomini sono il futuro, il presente, il passato prossimo e un verbo all'imperativo esortativo. Naturalmente, come ho anche specificato nella mia tesi sullo stile di Natalia Ginzburg, il tempo dei personaggi non è il tempo del narratore.

Al centro del racconto e quindi all'inizio del dialogo tra Ernst e lo scaricatore si ripete molto spesso la parola "giorni", termine chiave di questa breve storia.

Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile.

Con l'anafora "come per" Buzzati vuole probabilmente metterci di fronte a noi stessi e a tutte le volte in cui siamo stati chiusi, egoisti, privi di carità. Senza renderci conto che la felicità proviene dai rapporti con chi ci ama veramente.

Quell'ombra della notte finale ha, a mio avviso, due significati: è una notte astronomica ma anche psicologica, dal momento che Ernst ha acquisito un'amara consapevolezza: indietro non si torna. E' impossibile rimediare. Da qui la sua malinconia e i suoi rimorsi. 

Questo racconto di Buzzati mi fa pensare ad una canzone di Tiziano Ferro intitolata Scivoli di nuovo (2009). E' un testo che ci mette di fronte a noi stessi, di fronte ai nostri limiti nei rapporti umani e alla nostra paura di rischiare, oltre che di fronte al timore di sentirci inadeguati. 

Vorrei ora riportarvi alcune frasi più significative:

1- Chi non vive lascia il segno del più grande errore. 

2-Conti ferito le cose che non sono andate come volevi, temendo sempre e solo di apparire peggiore di ciò che sai realmente di essere.

3-Scivoli di nuovo ancora come tu fossi una mattina da vestire, da coprire. Per non vergognarti scivoli di nuovo ancora come se non aspettassi altro che sorprendere le facce distratte e troppo assenti per capire i tuoi silenzi. C'è un mondo di intenti dietro gli occhi trasparenti che chiudi un po'.

1) Vivere è anche rischiare. Per ognuno di noi l'esistenza presupporrebbe un mettersi in cammino, un formarsi con le relazioni e con le esperienze. Ricordo una frase della poesia di un biglietto ricevuto poco dopo il mio tredicesimo compleanno che diceva: Chi non rischia niente non fa niente, non ha niente e non è niente. Sentenza piuttosto dura ma vera. Essere incatenati ai nostri preconcetti, alle nostre abitudini ci rende immobili, insulsi e non ci permette di crescere, di sentire profondamente, tantomeno di amare. 

2) Non sempre diamo la migliore immagine di noi stessi. In ogni vita, almeno una volta, si sono sperimentate sia la paura dei giudizi altrui sia le delusioni che infrangono le nostre aspettative.

3) E' un ritornello "filosofico". Il Tiziano Ferro di 12- 13 anni fa era un cantautore non facile per melodie e testi. C'è un mondo di intenti dietro gli occhi trasparenti che chiudi un po' sono parole che sento molto vicine a me: a me che, quando mi capita di pensare ai rapporti non sereni o non riusciti oppure richiamo i desideri e i sogni che custodisco dentro di me, chiudo per alcuni istanti i miei occhi grandi e penso al fatto che in un certo senso sono trasparente, genuina, con ancora una discreta dose di ingenuità. 

B) A. NANETTI, "IL PAESE IN CUI IL TEMPO SI E' FERMATO"

E' un racconto che si trova all'interno di un romanzo per ragazzi intitolato L'uomo che coltivava le comete.

E in queste pagine che vi riporto, l'uomo che coltiva le comete, anch'egli senza nome come lo scaricatore dei giorni perduti, racconta ad Arno, il bambino protagonista, una storia sul tempo e sull'attesa:





Ho sottolineato i punti più significativi.

Ad ogni modo, l'uomo anonimo ritrova il tempo attraverso la "routine" delle attività quotidiane e la scansione giorno-notte.

- In quel luogo senza cambiamento non c'era più la vita e dunque non c'era più il dolore. 

In quel paese è tutto immobile! Ma non è grazie al dolore che si impara a gustare la vita e le piccole gioie che ci mette davanti quotidianamente? Non è grazie al dolore che si riesce a comprendere che siamo sempre in divenire finché viviamo?

Ricordo una poesia composta, ormai più di 10 anni fa, dagli alunni di una classe del mio liceo. Eccovi alcuni versi:

Considero valore la neve nel giorno di Natale, considero valore una lacrima e un sorriso al ricordo di chi non c'è più.

Considero valore l'amore dei miei nonni.

Considero valore l'amore di una madre per suo figlio.

Considero valore la capacità di affrontare le difficoltà a testa alta.

Il passato è il nostro bagaglio di cui dobbiamo fare tesoro. Grazie ai ricordi possiamo comprendere se ci siamo evoluti, se stiamo compiendo un cammino formativo. 

Il futuro è l'ignoto, è pieno delle nostre attese, è il tempo in cui proiettiamo desideri e aspettative. Il futuro è immenso come il mare.

Il presente è transitorio come le acque di un fiume. Ma per sua natura non può essere eterno. E noi non possiamo essere sempre uguali a noi stessi.

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Quindi quale differenza c'è tra ATTESA e IMMOBILISMO?

L'immobilismo è innanzitutto la tendenza a lasciare le cose così come sono senza sforzarsi per poterle cambiare o per migliorare. L'immobilismo non fa crescere nessuno. Rende comodi, spenti e immaturi. Rende "affezionati" a un'assurdità contro natura: l'eterno presente. Ma fa comodo l'eterno presente, altroché! Fa comodo non rischiare e non mettersi mai in gioco. 

L'attesa è qualcosa di diverso. Indica un'aspettativa nei confronti dell'avvenire, un'aspettativa a cui ci si prepara senza fretta di arrivare al traguardo, lavorando giorno per giorno. L'avvento, tempo liturgico, è in sé un'attesa spirituale. Tutta l'adolescenza dovrebbe essere vissuta come una preparazione e un'attesa verso la prima giovinezza (che nel mio caso è stata occupata dagli anni di università, di escursioni in montagna e di una serie di attività di volontariato)... finché arrivi quasi a 27 anni, cioè, già alla maturità della giovinezza (non me lo ricordate, già lì sono arrivata! Non ricordatemi che lentamente e inesorabilmente vado verso la vecchiaia e non verso l'infanzia!!) e o raccogli i frutti del tuo impegno e della tua formazione oppure galleggi, apatico e disorientato, come le barchette di carta dei bambini in un secchio d'acqua.


14 luglio 2022

"Aiace", tragedia di Sofocle:

L'Aiace è un dramma di un unico atto scritto da Sofocle, lo stesso autore dell'Edipo re. 

Non si dispongono di date certe per poter collocare la prima rappresentazione della tragedia.

Invece di riportarvi subito tutta la trama, preferirei iniziare dai primi otto versi e da lì rivelarvi, pian piano, le dinamiche che hanno comportato la follìa del protagonista. 

Questo post è arricchito in particolar modo da analisi e riflessioni lessicali.

Il primo personaggio che prende la parola è la dea Atena:

vv.1-8:

Ogni volta che ti vedo, figlio di Laerte,

sei sempre 

sulle tracce di un nemico.

Anche ora ti vedo vicino alle tende di Aiace,

presso le navi poste all'estremità del campo;

è da molto che stai osservando e scrutando 

le sue orme recenti, per capire 

se si trova o no dentro la tenda.

Inizialmente sulla scena ci sono soltanto Atena e Odisseo, appellato dalla dea con il patronimico "figlio di Laerte". 

Ritengo utile soffermarmi sul lessico di questo breve passo iniziale:

παῖς= il primo significato è "figlio", ma in altre accezioni significa anche "bambino" (fino alla nostra pre-adolescenza) o "allievo". E' un termine molto frequente in greco antico. Si potrebbe tranquillamente affermare che παῖς è l'equivalente del child inglese, termine ovviamente più generico rispetto a son o daughter per indicare i figli: I'm an only child oppure My child is grown up.

Della stessa radice di παῖς è anche il sostantivo παιδεία, da cui deriva la nostra "pedagogia".

ἐχθρός è letteralmente "il nemico odiato", sia in senso militare che in ambiti più generici di rapporti sociali. In questa lingua però c'è anche un altro termine con equivalente significato, più ricorrente in prosa: si tratta di πολέμιος, da non confondere (è questione soltanto di un accento e di una ι in meno) con πόλεμος, che assume la sfumatura di "guerra, conflitto" nelle opere storiche, mentre invece in Omero significa soltanto "battaglia". Da queste radici lessicali molto antiche deriva la nostra "polemica".

In latino ci sono due termini diversi per "battaglia" e "guerra", rispettivamente: pugna e bellum.

Poco dopo, Atena riferisce ad Odisseo di essere stata lei ad aver provocato l'ira di Aiace, dandogli quindi la forza di agire, nottetempo, contro lo schieramento di cui egli stesso fa parte, l'esercito acheo.

L'accampamento di Aiace è allestito presso le navi e quindi, su una delle due estremità del campo argivo.

E' significativo che la pazzìa di Aiace si manifesti di notte, dal momento che, per gli antichi Greci, la follìa è al di fuori del controllo della ragione e quindi, le tenebre della mente, isolano gli uomini dal mondo reale e civile.

Per quale motivo avrebbe dovuto compiere qualcosa di dannoso contro i suoi compagni?

Per un desiderio di vendetta. 

Achille è morto. Quindi, i due personaggi più autorevoli e più eminenti dell'esercito acheo, Agamennone e Menelao, decidono di affidare ad Odisseo le armi di Achille.

Aiace, re di Salamina, in qualità di amico di Achille è convinto che queste armi gli spettino di diritto. Crede di essere vittima di un'ingiustizia, per questo, in preda ad una cieca e violenta follìa scatenata nel suo animo da Atena, credendo di infierire sugli Achei, massacra invece tutti i buoi e i montoni.

Atena, impedendo ad Aiace di vedere Odisseo di fronte a sé (Io velerò il suo sguardo), dimostra all'eroe di Itaca che Aiace, ancora in preda all'insana follìa, è  orgoglioso di aver massacrato tutti i compagni. E in effetti Aiace parla ad Atena di terribili torture inflitte ad Odisseo ed è convinto di aver trucidato Agamennone e Menelao. 

La dea invita Ulisse a ridere del suo rivale... invece Odisseo ammette di provare compassione.

Più avanti, nel corso del dramma, compare Tecmessa, la concubina di Aiace, che annuncia la fine dello stato di follìa di Aiace:

vv.157-162:

Ora non più: la tempesta che si era scatenata

si placa, senza luce di lampi;  egli ragiona,

ma un dolore nuovo lo affligge.

Vedere tutto il male che ha fatto

e non poter accusare che se stesso,

gli procura un'angoscia senza fine.

Secondo alcune fonti mitologiche Tecmessa era figlia di Teleutas, re di Frigia sconfitto in una battaglia da Aiace. Dall'unione di Tecmessa e Aiace nasce Eurisiace.

Ritengo suggestivo il paragone della furia del protagonista con una tempesta. Tecmessa in effetti utilizza, nel corso della tragedia, due termini: χειμών, cioè "tempesta" (ma anche inverno in altre accezioni) νότος, cioè, "vento del sud", in genere, un vento calmo e di bel tempo.

Un altro nome che indica il vento come "corrente d'aria" è ἄνεμος. Con ρόος invece ci si riferisce alle correnti d'acqua (ῥέω è "scorrere").

Ad ogni modo, quando Aiace prende coscienza di ciò che ha fatto, il suo pianto diviene simile ad un muggito di toro (βρυχάομαι, verbo onomatopeico riferito più spesso ad animali, è proprio "muggire". E' stato impiegato, oltre che da Sofocle, anche da Omero per indicare gli eroi che stanno morendo).

E, dopo il pianto, nell'animo di Aiace sorge un proposito di suicidio dal quale Tecmessa tenta di dissuaderlo:

vv. 496-505:

(...) Se tu morirai

e io resterò sola, in quello stesso giorno

gli Argivi mi trascineranno a forza 

insieme con tuo figlio

a mangiare il pane degli schiavi.

E qualcuno dei miei padroni mi rivolgerà

parole crudeli, dirà: "Ecco la compagna di Aiace,

l'eroe più valoroso dell'armata,

molto invidiata un tempo e ora ridotta in schiavitù."

vv.510-515:

Abbi pietà di tuo figlio: quanto male

provocheresti a me e a lui con la tua morte,

se dovesse trascorrere la sua infanzia

solo e senza cure, con tutori malvagi.

Io non ho altri a cui rivolgere lo sguardo

se non te (...)

Ai lettori che mi seguono da almeno 4 anni: non vi ricorda qualcosa? Ad esempio, l'addio fra Ettore e Andromaca? 

Dal momento che non è un post recente, riporto qui i versi tratti dall'Iliade a cui mi sto riferendo:

vv. 405-420:
 
Andromaca gli si pose vicino versando lacrime, gli strinse la mano, gli parlò chiamandolo per nome: "Cattivo! Il tuo coraggio ti ucciderà, non hai compassione né del figlio ancora bambino né di me sventurata che presto sarò vedova, presto infatti tutti gli Achei ti faranno a pezzi dopo averti assalito. Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata privata di te, sprofondare sotto terra; infatti per me non ci sarà nessun altro che potrà mantenermi in vita con il proprio calore umano dopo che tu avrai seguito il tuo funesto destino di morte, ma soffrirò un terribile dolore: a me non sono rimasti né il padre né la nobile madre. Il divino Achille uccise mio padre, distrusse completamente la città dei Cilici che era ben abitata, la Tebe ben fortificata; uccise Ezione ma non lo spogliò delle armi; infatti temeva in cuor suo; ma lo bruciò con le sue armi ben lavorate ed innalzò una tomba: attorno ad essa le ninfe montane, figlie di Zeus Egìoco, piantarono olmi."

Si potrebbe fare un parallelismo tra Tecmessa e Andromaca, scoprendo alcune somiglianze significative tra le due donne:

-Entrambe sono di nobili origini, cioè, figlie di un sovrano.

-Il loro futuro è nero senza gli uomini che amano visto che si prospetta loro una vita di schiavitù, di solitudine, di rimpianti, di infelicità.

-Entrambe sono madri di figli poco più che neonati.

Invece c'è una profonda differenza tra Ettore e Aiace: mentre è evidente che Ettore, nel sesto canto dell'Iliade, soffre di una certa tensione tra gli affetti e gli obblighi sociali, Aiace invece prova vergogna per il suo anomalo atto di follìa che lo isola dagli altri eroi. Soltanto Tecmessa gli è vicina. E la sua scelta di auto-eliminarsi porta la concubina alla disperazione.

Alla fine del dramma Aiace si uccide trafiggendosi con la spada. Giunge il fratello Teucro, oltremodo sconvolto e attonito. 

Di fronte a Teucro, Menelao attribuisce con fermezza ad Aiace la colpa di aver tramato contro l'esercito acheo, per questo si rifiuta di farlo seppellire, dicendo: Sarà gettato in pasto agli uccelli marini sulla sabbia dorata della riva.

Teucro rimane ancora più addolorato ma Odisseo, che in questa tragedia fa un'ottima figura, ricompare sulla scena e, dopo aver ricordato il valore militare (ἀρετή) di Aiace, convince Menelao a farlo seppellire.

* Il nome del protagonista deriva dal verbo αἰάζω, ad egli etimologicamente e foneticamente connesso, che porta i significati di "gemere", "soffrire", "piangere". Suoi sinonimi sono κλαίω δακρύω.


7 luglio 2022

"Canne al vento", G. Deledda:

Come vi anticipavo qualche settimana fa, alcuni aspetti di questo romanzo mi sono piaciuti molto, altri un po' meno. Sarà un post suddiviso in quattro paragrafi che non soltanto vi illustreranno i personaggi principali e la trama ma si concentreranno anche su alcune caratteristiche dello stile della Deledda e su qualche aspetto della cultura locale sarda di più di cent'anni fa.

A) PERSONAGGI PRINCIPALI E CONTENUTI:

Siamo a Galtellì, nell'attuale provincia di Nuoro, alla fine del XIX° secolo.

Questo romanzo narra la storia delle quattro sorelle Pintor, che, dalla più vecchia alla più giovane, si chiamano: Ruth, Ester, Lia e Noemi. 

Ruth ed Ester rimangono per sempre nubili, Noemi si sposa alla fine del romanzo mentre invece Lia, anni prima, è fuggita di casa per convivere, a Civitavecchia, con il ragazzo che amava. Giacinto, altra figura rilevante nella storia, è figlio di questa unione.

Le quattro sorelle, nobili ma povere, erano figlie del rigido e oppressivo Don Zame, uomo tra l'altro molto orgoglioso delle proprie nobili origini. Ecco a voi un paragrafo che potrà giustificare la fuga di Lia e che vi darà l'idea della negatività di quest'uomo:

Come schiave esse (le figlie) dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e, soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più Don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza il suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d'improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due volte di seguito nel vicolo.


Gli atteggiamenti arroganti di Don Zame vengono ricordati soltanto nei primi due capitoli, visto che l'autrice rivela quello che è accaduto la notte in cui Lisa è fuggita:  Don Zame esce di casa per inseguire la figlia. Ma, la mattina dopo, viene trovato morto sul ponte all'uscita del paese. Incidente oppure omicidio?!

Tuttavia, è fondamentale precisare che le dinamiche all'interno della famiglia Pintor sono viste e interpretate con gli occhi di Efix, il saggio e umile domestico della casa.

Ruth ed Ester hanno superato i quarant'anni senza coniuge e senza amici, conducendo una vita decisamente modesta e fatta di ristrettezze economiche. Si potrebbe definire queste due sorelle maggiori due donne rassegnate e malinconiche, abituate a vivere all'interno della loro villa fatiscente. Le celebrazioni liturgiche rientrano tra le poche occasioni che Ruth ed Ester si danno per uscire di casa. Ester, ad ogni modo, si dimostra umana e sensibile, ha un buon rapporto con il servo Efix, il quale, sebbene sia alle soglie della vecchiaia e sebbene la sua salute sia decisamente fragile, svolge con grande zelo e dedizione il suo servizio quotidiano. E' lui che dà senso al titolo del romanzo quando dice a Donna Ester: -"Siamo come canne al vento. Siamo canne e la sorte è il vento." 

Efix con queste frasi vuole dire che siamo ancorati a terra, come le canne, ma siamo impotenti di fronte al nostro destino. Ma è davvero così?! Personalmente non sono molto d'accordo: siamo esseri senzienti e, in teoria, pensanti. 

In questa visione tristissima e rassegnata dell'esistenza dov'è la nostra facoltà di scelta, dov'è la libertà applicata ai nostri pensieri, ai nostri sentimenti e alle nostre decisioni, piccole e grandi? E, se siamo per forza in balìa del destino come gli eroi omerici erano in completa balìa del volere delle divinità, qual'è allora il ruolo di Dio?! Mi sembra strano mettere in bocca discorsi del genere ad un credente quale è Efix.

A metà romanzo avviene la morte improvvisa di Ruth.

Noemi, la trentacinquenne dura e molto ancorata al passato al punto tale da non essere mai riuscita a superare la separazione da Lia, trascorre le sue giornate a tessere e a cucire. 

Utilizzando qualche espressione tipica di ora, potremmo dire che Noemi, che tanto simpatica non è, si trova sempre in lockdown. Noemi diverrà, nell'ultimo capitolo, moglie di Don Predu. 

C'è un passo, all'inizio del nono capitolo del romanzo, a proposito di questo personaggio femminile, che vorrei riportare:

Una sera di luglio, Noemi stava seduta al solito posto nel cortile, cucendo. La giornata era stata caldissima e il cielo, d'un azzurro grigiastro, pareva soffuso ancora della cenere d'un incendio di cui all'occidente si smorzavano le ultime fiamme; i fichi d'india già fioriti mettevano una nota d'oro sul grigio degli orti e laggiù dietro la torre della chiesa in rovina i melograni di don Predu parevano chiazzati di sangue. Noemi sentiva entro di sé tutto questo grigio e questo rosso. (...) Ogni giorno di più un bisogno violento di solitudine la spingeva a nascondersi per abbandonarsi meglio al suo struggimento come un malato che non spera più di guarire.

La critica letteraria che ha approfondito lo stile e i contenuti della Deledda ricorre a questo brano per evidenziare che non è un caso che Noemi sia spesso rappresentata, dall'autrice, nell'atto di cucire, dal momento che questa attività impegna soltanto le mani e quindi la mente della donna vaga verso un passato al quale lei si sente ed è molto ancorata.

Riflettendo su Noemi a me è risultato più che naturale chiedermi: che cosa significa "vivere"? Che cos'era e che cos'è la vita per la fascia di popolazione giovanile?

Per una ragazza che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra Ottocento e Novecento, la vita, se era una contadina, era fatta del lavoro quotidiano nei campi, della messa domenicale, delle feste di paese dove spesso conosceva il futuro marito e, forse, di quel minimo di alfabetizzazione che le consentiva di leggere e saper fare semplici calcoli. 

Se era una borghese di quella stessa epoca, una ragazza godeva di alcuni anni in più di studio e di una qualche prospettiva professionale: poteva diventare maestra, impiegata oppure dattilo-stenografa. E inoltre, era abbastanza facile che le giovanissime borghesi dell'epoca si sistemassero dal punto di vista giuridico-matrimoniale ben prima dei 25 anni. 

Se invece era un'aristocratica, le sue principali attività erano tessitura, cucitura, abilità in uno strumento musicale o in arti pittoriche. Anche qui, fino alla seconda metà dell'Ottocento, i matrimoni tra i giovani aristocratici erano o predisposti dai padri di famiglia oppure, i membri delle nobili famiglie, si conoscevano ai balli.

Ma, al di là delle epoche, che cosa significa vivere?!

Quando ero all'inizio dell'adolescenza ricordo che spopolava un brano tipicamente commerciale intitolato I gotta feeling. Era una canzone che inneggiava allo sballo e alle sbornie. Però è proprio questa la vera vita?! 

Confermatemi che Blaise Pascal non aveva poi tutti i torti a considerare il divertissement come un espediente per non sentire il vuoto interiore e per evitare di affrontare il dolore.


E se vivere significasse semplicemente cogliere le mille possibilità della vita, fermarsi di tanto in tanto a pensare, non invidiare le abilità ma rimboccarsi le maniche, rendersi conto di essere dotati di una sensibilità che rende grati di ciò che si ha?


Una mattina giunge a casa Pintor una lettera di Giacinto che annuncia il suo arrivo in un futuro prossimo. Giacinto, nella prima parte del romanzo, è poco più che adolescente, odia lavorare, coltiva una spumeggiante passione per il gioco d'azzardo e, per un pochino di tempo, spreca il denaro delle sue zie.

Durante una festa di paese Giacinto conosce Grixenda, ragazza orfana poco più giovane di lui. Grixenda è una ragazza buona e semplice che vive con la nonna in una piccola casa vicina a Galtellì. 

B) "CANNE AL VENTO" PUO' ESSERE CLASSIFICATO COME ROMANZO DI FORMAZIONE:

Di quest'opera a me è piaciuto soprattutto il fatto che molti dei personaggi principali compiano una sorta di formazione psicologica, o almeno così l'ho vista io: negli ultimi capitoli Noemi diviene meno dura e un po' più compassionevole, intravedendo una prospettiva di vita più dignitosa e più serena nel matrimonio con Don Predu. In compenso, quest'ultimo, che per la maggior parte del romanzo si comporta da nobilotto grezzo e indelicato (non sono rari i suoi commenti un po' villani verso Efix ad esempio), alla fine del libro lo troviamo più predisposto verso l'ascolto e più posato. 

In Ester ho intravisto, negli ultimi capitoli del libro, meno rassegnazione e maggior capacità di contattare i propri sentimenti senza vergognarsene: si concede un libero sfogo di disperazione e di pianto quando muore Efix, cosa che non ha fatto invece per sua sorella Ruth, nella sua ostinazione di mantenere i nervi saldi.

Anche Giacinto compie un notevole progresso dal punto di vista psicologico: la necessità di lavorare lo rende più serio e più responsabile, economicamente indipendente dalle zie. Si assume un impegno per la vita con Grixenda, rimasta sola al mondo dopo la morte della nonna. 

Grixenda stessa migliora ulteriormente: nella prima parte del romanzo è una fanciulla tendenzialmente buona, schietta ma a volte di lingua tagliente che si consuma per amore e diventa pallidissima quando Giacinto è lontano per un periodo e per motivi di lavoro. Verso la fine del romanzo è più equilibrata, nei suoi sentimenti forti e sinceri, è autentica, genuina e... serena nonostante la quotidianità faticosa da contadina e da lavandaia e nonostante il suo piccolo passato difficile. Ritengo lei e Donna Ester le miglior figure femminili della storia.

L'unico che non ha bisogno di una maturazione interiore è proprio Efix, occhio discreto, a tratti abbastanza sentimentale e non giudicante.

C) ALCUNI ASPETTI DELLA VECCHIA CULTURA LOCALE SARDA:

A me, anzi, a noi del XXI° secolo, le credenze sarde in vigore più di un secolo fa sembrano sogni e fiabe da bambini di 5 anni... Qui ve ne elenco soltanto tre.

L'autrice menziona, soprattutto nelle prime 40 pagine del libro, le janas, ovvero, fate abili nella tessitura di stoffe d'oro che ballano le notti all'ombra degli alberi sempre-verdi, le panas, cioè gli spiriti delle donne morte di parto che per sette anni consecutivi devono lavare i loro indumenti presso i corsi d'acqua e la temibile Giobiana, ovvero, uno spirito maligno che può far del male alle donne che decidono di filare il giovedì sera. Quest'ultima leggenda popolare sa di superstizione!

D) IL PROLIFERARE DELLE SIMILITUDINI:

Grazia Deledda scrive molto bene. Le molte similitudini di quest'opera sono riferite per lo più o ad alcuni elementi del paesaggio oppure ad alcune persone.

Concludo questa recensione elencando esempi suggestivi:

-Don Zame, rosso e violento come il diavolo.

- (...) la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina.

-la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il bianco della roccia gli pareva (ad Efix) un nido.

- (...) la dolcezza e il silenzio del mattino  davano a tutto il paesaggio una serenità di cimitero. Il passato regnava ancora sul luogo; le ossa stesse dei morti sembravano i suoi fiori, le nuvole il suo diadema.

-"Le tue dame? Chi le vede? Stanno chiuse nella loro tana come faine."

-Una processione si aggirava continuamente attorno al santuario, come un serpente rosso e bianco, giallo e nero.

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La prossima settimana sono al Campo con i ragazzi dei primi due anni delle medie. Mi sto già preparando la valigia e lo zaino. Certo, per circa 6 giorni non avrò né telefono né computer, completamente immersa in quest'esperienza educativa e di divertimento, ma, durante la prossima settimana, conto comunque di lasciarvi un post in pubblicazione automatica, cioè, imposto con largo anticipo data e ora del posting (ora che ho scoperto la funzione me ne servo!). Invece per la recensione di romanzi come Il deserto dei Tartari preferirei esserci fisicamente dall'altra parte dello schermo.

Sarà anche un'estate più calda del normale, riconosco che le rare piogge non rinfrescano l'aria ma bagnano appena la polvere... eppure il calore quest'anno non mi pesa più di tanto. Forse è la felicità che mi sta facendo quest'effetto. Sono un po' meno impegnata rispetto allo scorso anno ma più contenta.

Il mese scorso mi sono fatta una domanda quando dovevo rimanere chiusa in casa per positività al Covid: ma negli anni di liceo e negli anni universitari ho perso tempo impiegando le mie energie con gruppi e persone dalle quale ho preso soprattutto pesci in faccia?

Alla fine mi sono risposta che non sono stati anni persi, ma anni in cui ho dato impegno, mente aperta, entusiasmo e voglia di mettermi in gioco. Sono stati anni determinanti per la mia crescita culturale e umana e per la mia predisposizione all'ascolto. Se la nonna fosse ancora viva saprebbe che nel giro di poco meno di un anno sono cambiate molte cose nella mia vita.