7 luglio 2022

"Canne al vento", G. Deledda:

Come vi anticipavo qualche settimana fa, alcuni aspetti di questo romanzo mi sono piaciuti molto, altri un po' meno. Sarà un post suddiviso in quattro paragrafi che non soltanto vi illustreranno i personaggi principali e la trama ma si concentreranno anche su alcune caratteristiche dello stile della Deledda e su qualche aspetto della cultura locale sarda di più di cent'anni fa.

A) PERSONAGGI PRINCIPALI E CONTENUTI:

Siamo a Galtellì, nell'attuale provincia di Nuoro, alla fine del XIX° secolo.

Questo romanzo narra la storia delle quattro sorelle Pintor, che, dalla più vecchia alla più giovane, si chiamano: Ruth, Ester, Lia e Noemi. 

Ruth ed Ester rimangono per sempre nubili, Noemi si sposa alla fine del romanzo mentre invece Lia, anni prima, è fuggita di casa per convivere, a Civitavecchia, con il ragazzo che amava. Giacinto, altra figura rilevante nella storia, è figlio di questa unione.

Le quattro sorelle, nobili ma povere, erano figlie del rigido e oppressivo Don Zame, uomo tra l'altro molto orgoglioso delle proprie nobili origini. Ecco a voi un paragrafo che potrà giustificare la fuga di Lia e che vi darà l'idea della negatività di quest'uomo:

Come schiave esse (le figlie) dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e, soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più Don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza il suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d'improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due volte di seguito nel vicolo.


Gli atteggiamenti arroganti di Don Zame vengono ricordati soltanto nei primi due capitoli, visto che l'autrice rivela quello che è accaduto la notte in cui Lisa è fuggita:  Don Zame esce di casa per inseguire la figlia. Ma, la mattina dopo, viene trovato morto sul ponte all'uscita del paese. Incidente oppure omicidio?!

Tuttavia, è fondamentale precisare che le dinamiche all'interno della famiglia Pintor sono viste e interpretate con gli occhi di Efix, il saggio e umile domestico della casa.

Ruth ed Ester hanno superato i quarant'anni senza coniuge e senza amici, conducendo una vita decisamente modesta e fatta di ristrettezze economiche. Si potrebbe definire queste due sorelle maggiori due donne rassegnate e malinconiche, abituate a vivere all'interno della loro villa fatiscente. Le celebrazioni liturgiche rientrano tra le poche occasioni che Ruth ed Ester si danno per uscire di casa. Ester, ad ogni modo, si dimostra umana e sensibile, ha un buon rapporto con il servo Efix, il quale, sebbene sia alle soglie della vecchiaia e sebbene la sua salute sia decisamente fragile, svolge con grande zelo e dedizione il suo servizio quotidiano. E' lui che dà senso al titolo del romanzo quando dice a Donna Ester: -"Siamo come canne al vento. Siamo canne e la sorte è il vento." 

Efix con queste frasi vuole dire che siamo ancorati a terra, come le canne, ma siamo impotenti di fronte al nostro destino. Ma è davvero così?! Personalmente non sono molto d'accordo: siamo esseri senzienti e, in teoria, pensanti. 

In questa visione tristissima e rassegnata dell'esistenza dov'è la nostra facoltà di scelta, dov'è la libertà applicata ai nostri pensieri, ai nostri sentimenti e alle nostre decisioni, piccole e grandi? E, se siamo per forza in balìa del destino come gli eroi omerici erano in completa balìa del volere delle divinità, qual'è allora il ruolo di Dio?! Mi sembra strano mettere in bocca discorsi del genere ad un credente quale è Efix.

A metà romanzo avviene la morte improvvisa di Ruth.

Noemi, la trentacinquenne dura e molto ancorata al passato al punto tale da non essere mai riuscita a superare la separazione da Lia, trascorre le sue giornate a tessere e a cucire. 

Utilizzando qualche espressione tipica di ora, potremmo dire che Noemi, che tanto simpatica non è, si trova sempre in lockdown. Noemi diverrà, nell'ultimo capitolo, moglie di Don Predu. 

C'è un passo, all'inizio del nono capitolo del romanzo, a proposito di questo personaggio femminile, che vorrei riportare:

Una sera di luglio, Noemi stava seduta al solito posto nel cortile, cucendo. La giornata era stata caldissima e il cielo, d'un azzurro grigiastro, pareva soffuso ancora della cenere d'un incendio di cui all'occidente si smorzavano le ultime fiamme; i fichi d'india già fioriti mettevano una nota d'oro sul grigio degli orti e laggiù dietro la torre della chiesa in rovina i melograni di don Predu parevano chiazzati di sangue. Noemi sentiva entro di sé tutto questo grigio e questo rosso. (...) Ogni giorno di più un bisogno violento di solitudine la spingeva a nascondersi per abbandonarsi meglio al suo struggimento come un malato che non spera più di guarire.

La critica letteraria che ha approfondito lo stile e i contenuti della Deledda ricorre a questo brano per evidenziare che non è un caso che Noemi sia spesso rappresentata, dall'autrice, nell'atto di cucire, dal momento che questa attività impegna soltanto le mani e quindi la mente della donna vaga verso un passato al quale lei si sente ed è molto ancorata.

Riflettendo su Noemi a me è risultato più che naturale chiedermi: che cosa significa "vivere"? Che cos'era e che cos'è la vita per la fascia di popolazione giovanile?

Per una ragazza che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra Ottocento e Novecento, la vita, se era una contadina, era fatta del lavoro quotidiano nei campi, della messa domenicale, delle feste di paese dove spesso conosceva il futuro marito e, forse, di quel minimo di alfabetizzazione che le consentiva di leggere e saper fare semplici calcoli. 

Se era una borghese di quella stessa epoca, una ragazza godeva di alcuni anni in più di studio e di una qualche prospettiva professionale: poteva diventare maestra, impiegata oppure dattilo-stenografa. E inoltre, era abbastanza facile che le giovanissime borghesi dell'epoca si sistemassero dal punto di vista giuridico-matrimoniale ben prima dei 25 anni. 

Se invece era un'aristocratica, le sue principali attività erano tessitura, cucitura, abilità in uno strumento musicale o in arti pittoriche. Anche qui, fino alla seconda metà dell'Ottocento, i matrimoni tra i giovani aristocratici erano o predisposti dai padri di famiglia oppure, i membri delle nobili famiglie, si conoscevano ai balli.

Ma, al di là delle epoche, che cosa significa vivere?!

Quando ero all'inizio dell'adolescenza ricordo che spopolava un brano tipicamente commerciale intitolato I gotta feeling. Era una canzone che inneggiava allo sballo e alle sbornie. Però è proprio questa la vera vita?! 

Confermatemi che Blaise Pascal non aveva poi tutti i torti a considerare il divertissement come un espediente per non sentire il vuoto interiore e per evitare di affrontare il dolore.


E se vivere significasse semplicemente cogliere le mille possibilità della vita, fermarsi di tanto in tanto a pensare, non invidiare le abilità ma rimboccarsi le maniche, rendersi conto di essere dotati di una sensibilità che rende grati di ciò che si ha?


Una mattina giunge a casa Pintor una lettera di Giacinto che annuncia il suo arrivo in un futuro prossimo. Giacinto, nella prima parte del romanzo, è poco più che adolescente, odia lavorare, coltiva una spumeggiante passione per il gioco d'azzardo e, per un pochino di tempo, spreca il denaro delle sue zie.

Durante una festa di paese Giacinto conosce Grixenda, ragazza orfana poco più giovane di lui. Grixenda è una ragazza buona e semplice che vive con la nonna in una piccola casa vicina a Galtellì. 

B) "CANNE AL VENTO" PUO' ESSERE CLASSIFICATO COME ROMANZO DI FORMAZIONE:

Di quest'opera a me è piaciuto soprattutto il fatto che molti dei personaggi principali compiano una sorta di formazione psicologica, o almeno così l'ho vista io: negli ultimi capitoli Noemi diviene meno dura e un po' più compassionevole, intravedendo una prospettiva di vita più dignitosa e più serena nel matrimonio con Don Predu. In compenso, quest'ultimo, che per la maggior parte del romanzo si comporta da nobilotto grezzo e indelicato (non sono rari i suoi commenti un po' villani verso Efix ad esempio), alla fine del libro lo troviamo più predisposto verso l'ascolto e più posato. 

In Ester ho intravisto, negli ultimi capitoli del libro, meno rassegnazione e maggior capacità di contattare i propri sentimenti senza vergognarsene: si concede un libero sfogo di disperazione e di pianto quando muore Efix, cosa che non ha fatto invece per sua sorella Ruth, nella sua ostinazione di mantenere i nervi saldi.

Anche Giacinto compie un notevole progresso dal punto di vista psicologico: la necessità di lavorare lo rende più serio e più responsabile, economicamente indipendente dalle zie. Si assume un impegno per la vita con Grixenda, rimasta sola al mondo dopo la morte della nonna. 

Grixenda stessa migliora ulteriormente: nella prima parte del romanzo è una fanciulla tendenzialmente buona, schietta ma a volte di lingua tagliente che si consuma per amore e diventa pallidissima quando Giacinto è lontano per un periodo e per motivi di lavoro. Verso la fine del romanzo è più equilibrata, nei suoi sentimenti forti e sinceri, è autentica, genuina e... serena nonostante la quotidianità faticosa da contadina e da lavandaia e nonostante il suo piccolo passato difficile. Ritengo lei e Donna Ester le miglior figure femminili della storia.

L'unico che non ha bisogno di una maturazione interiore è proprio Efix, occhio discreto, a tratti abbastanza sentimentale e non giudicante.

C) ALCUNI ASPETTI DELLA VECCHIA CULTURA LOCALE SARDA:

A me, anzi, a noi del XXI° secolo, le credenze sarde in vigore più di un secolo fa sembrano sogni e fiabe da bambini di 5 anni... Qui ve ne elenco soltanto tre.

L'autrice menziona, soprattutto nelle prime 40 pagine del libro, le janas, ovvero, fate abili nella tessitura di stoffe d'oro che ballano le notti all'ombra degli alberi sempre-verdi, le panas, cioè gli spiriti delle donne morte di parto che per sette anni consecutivi devono lavare i loro indumenti presso i corsi d'acqua e la temibile Giobiana, ovvero, uno spirito maligno che può far del male alle donne che decidono di filare il giovedì sera. Quest'ultima leggenda popolare sa di superstizione!

D) IL PROLIFERARE DELLE SIMILITUDINI:

Grazia Deledda scrive molto bene. Le molte similitudini di quest'opera sono riferite per lo più o ad alcuni elementi del paesaggio oppure ad alcune persone.

Concludo questa recensione elencando esempi suggestivi:

-Don Zame, rosso e violento come il diavolo.

- (...) la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina.

-la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il bianco della roccia gli pareva (ad Efix) un nido.

- (...) la dolcezza e il silenzio del mattino  davano a tutto il paesaggio una serenità di cimitero. Il passato regnava ancora sul luogo; le ossa stesse dei morti sembravano i suoi fiori, le nuvole il suo diadema.

-"Le tue dame? Chi le vede? Stanno chiuse nella loro tana come faine."

-Una processione si aggirava continuamente attorno al santuario, come un serpente rosso e bianco, giallo e nero.

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La prossima settimana sono al Campo con i ragazzi dei primi due anni delle medie. Mi sto già preparando la valigia e lo zaino. Certo, per circa 6 giorni non avrò né telefono né computer, completamente immersa in quest'esperienza educativa e di divertimento, ma, durante la prossima settimana, conto comunque di lasciarvi un post in pubblicazione automatica, cioè, imposto con largo anticipo data e ora del posting (ora che ho scoperto la funzione me ne servo!). Invece per la recensione di romanzi come Il deserto dei Tartari preferirei esserci fisicamente dall'altra parte dello schermo.

Sarà anche un'estate più calda del normale, riconosco che le rare piogge non rinfrescano l'aria ma bagnano appena la polvere... eppure il calore quest'anno non mi pesa più di tanto. Forse è la felicità che mi sta facendo quest'effetto. Sono un po' meno impegnata rispetto allo scorso anno ma più contenta.

Il mese scorso mi sono fatta una domanda quando dovevo rimanere chiusa in casa per positività al Covid: ma negli anni di liceo e negli anni universitari ho perso tempo impiegando le mie energie con gruppi e persone dalle quale ho preso soprattutto pesci in faccia?

Alla fine mi sono risposta che non sono stati anni persi, ma anni in cui ho dato impegno, mente aperta, entusiasmo e voglia di mettermi in gioco. Sono stati anni determinanti per la mia crescita culturale e umana e per la mia predisposizione all'ascolto. Se la nonna fosse ancora viva saprebbe che nel giro di poco meno di un anno sono cambiate molte cose nella mia vita.

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