28 giugno 2023

"TAXI TEHERAN"- FILM SULLA SOCIETA' IRANIANA:

SOLIDARIETÀ AI GIOVANI IRANIANI!
Questa frase non cambia affatto il clima di repressione in Iran, ma almeno, io e Matthias siamo solidali nei confronti di nostri coetanei che desiderano costruire una società democratica con libertà di espressione e culturale.

Taxi Teheran è un film realizzato nel 2015 dal regista iraniano Jafar Panahi. Io e Matthias ci siamo confrontati dopo averlo visto.

1. Di che cosa si tratta?

Un taxi guidato da Jafar Panahi, regista di fama internazionale, percorre le larghe strade di Teheran. 

All'interno dell'auto salgono diverse persone che, senza farsi troppi problemi, esprimono le proprie opinioni su questioni politiche, sociali ed economiche.

Eppure Panahi ha installato una telecamera sul cruscotto del taxi che sta guidando.

Preciso che questo film è stato realizzato clandestinamente dopo che, nel 2010, un tribunale iraniano, servo di quella scellerata e feroce dittatura che tortura e uccide i giovani e le donne, aveva imposto a questo regista di non lasciare l'Iran e di non girare più film per vent'anni.

Secondo il regime iraniano Panahi, con i suoi film, avrebbe infangato l'immagine del paese.

Vorrei riportarvi le parole di Jafar Panahi dopo aver conseguito il Premio Orso d'Oro a Berlino proprio con Taxi Teheran:

"Sono un regista e non posso fare altro che realizzare film. Il cinema è la mia forma di espressione e il significato della mia stessa vita. Niente può impedirmi di girare un film: anche messo alle strette, posso riconnettermi attraverso le mie opere con me stesso. Anche in spazi così ridotti e con limiti così ristretti, la necessità di creare diventa più che una necessità. Il cinema come Arte è la mia principale preoccupazione: questo è il motivo per cui devo continuare a fare film in qualsiasi modo. È per rispetto a me stesso e per sentirmi vivo."

Indubbiamente Panahi sa di avere talento e predisposizione a realizzare film. Sa che questo suo dono è finalizzato a cogliere in modo critico le enormi fragilità del suo paese. E, a costo del carcere duro, preferisce coltivare il suo talento, coerente con se stesso.

D'altronde, la cinepresa lo inquadra sereno e sorridente per tutto il film, perfettamente a posto con la propria coscienza.

2.Taxi Teheran è recitato oppure è spontaneo?

Vi chiarisce Matthias questo dubbio.

E' facile intuirlo: intanto un regista che, per scopi artistici e culturali, si improvvisa tassista per una giornata, deve prima trovare un "accordo" con alcuni suoi connazionali. Questi ultimi, per l'occasione, devono riuscire a rispecchiare nel miglior modo possibile, attraverso parole e comportamenti, la società iraniana. 

Si tratta di una recitazione realistica. 

Alcuni degli attori che ha impiegato sono forse dei professionisti: quando un venditore di dvd sale sul taxi guidato dal regista di cui è fan dice chiaramente di aver riconosciuto le due persone scese pochissimi secondi prima. Li definisce in effetti attori affermati.

In questo film in parte ci sono professionisti, in parte ci sono attori occasionali.

3. Commentiamo il finale:

Quando Jafar Panahi scende dal taxi con la nipote nei pressi di una fontana per restituire una borsetta ad una signora che l'aveva dimenticata, sopraggiungono degli uomini con le moto.

Entrano nel taxi e spengono la telecamera. Gli ultimi secondi del film sono fatti di buio e le ultime frasi sono: "Dov'è la memory card?", "Non la trovo", "Dai, andiamocene, sta tornando".

Si tratta di semplici ladri oppure di collaboratori della dittatura? Nel caso in cui fossero collaboratori del governo autoritario, se si rendono conto che il regista si avvicina verso di loro o è poco lontano da loro, per quale motivo scappano e non fanno del male a Panahi?

Questi uomini che spengono le riprese non sono nemmeno inquadrati.

Appunto per questo a me, anche in quanto donna considerando che in Iran la componente femminile è oppressa anche con bestialità, viene naturale domandarmi: 

che volti hanno i collaboratori di una dittatura? 

Più di un volto e quindi più di un'identità: non è necessario che la longa manus del potere corrotto che viola i diritti umani sia per forza un membro della polizia o dell'esercito. 

Chiunque, adottando determinati comportamenti, può contribuire a mantenere un clima di terrore e di oppressione all'interno di un territorio. Soprattutto in due casi: se teme molto le modalità repressive adottate  dal governo e se, in modo acritico, appoggia ogni decisione di un regime autoritario.

Quindi a mio avviso questo è un film sull'importanza di intraprendere scelte particolarmente coraggiose: si tratta di scelte che, oltre ad inneggiare alla libertà, valorizzano la propria personalità e le proprie capacità, che implicano opposizione e protesta e che coinvolgono non soltanto ogni iraniano ma ogni popolazione oppressa da dittature o guerre civili. Anzi, coinvolgono la coscienza di ogni essere umano.

4. Le "regole" della censura in Iran:

Quando, a metà giornata, Panahi va a prendere la nipotina che lo aspetta da un po' fuori dalla scuola, lei gli legge alcune regole che una maestra ha dettato in classe, necessarie per creare un film "distribuibile". Eccole qui:

-Assoluto rispetto del velo e della decenza islamica.

Ma va'? Non ci sarei mai arrivata da sola! 

La decenza islamica per caso implica anche il massacrare di manganellate una ragazza che, pur portando il velo, aveva commesso il peccato mortale di non accorgersi di una ciocca esposta al vento?

-Nessun contatto tra uomo e donna.

-Non dev'esserci sordido realismo.

-Non dev'esserci violenza.

Altolà: quanti film occidentali degli ultimi vent'anni rispettano scrupolosamente questi criteri? 

Ad ogni modo, il "sordido realismo" non necessariamente fa di un film un pessimo film anzi, in certi casi, la componente di forte e tragico realismo determina la qualità dei contenuti.

-Non bisogna mai usare la cravatta per i personaggi positivi.

-Per i personaggi positivi è sempre meglio preferire i nomi dei profeti.

-Non affrontare questioni che riguardano politica o economia.

Che regole assurde che dettano nelle scuole iraniane, assolutamente e perfettamente prone agli Ayatollah!

A mio avviso, un film che non affronta questioni storiche, economiche o politiche è fortemente riduttivo e abbastanza lontano dalla cultura.

Eppure, zio Jafar ascolta con il suo solito sorriso conciliante le regoline... per trasgredirle puntualmente ad ogni film!


15 giugno 2023

"Residenza per signore sole", T. Masako:

"Residenza per signore sole" è un noir giapponese che personalmente ho trovato avvincente.

A) CONTESTO E AMBIENTAZIONE:

La Residenza K è un condominio in cui vivono soltanto donne che o sono nubili o sono vedove.

E' una dimora costituita da cinque piani e da cinque corridoi, oltre che da molte storie di vita caratterizzate da monotonia, solitudine e in qualche caso anche da inettitudine alla vita.

Elemento portante del romanzo è un passe-partout, ovvero, una chiave universale che apre tutte le porte delle stanze del condominio. Quando questa particolare chiave scompare, ogni inquilina può potenzialmente scoprire i segreti e gli scheletri nell'armadio delle altre.

Prima di procedere con la recensione, vi elenco le figure principali di questa storia:

-Tamura Kaneko, prima custode.

-Tojo Kazuko, seconda custode.

-Yatabe Suwa, violinista, inquilina al pianterreno

-Munekata Toyoko, ex docente universitaria, inquilina al primo piano.

-Ishiyama Noriko, inquilina del secondo piano, ex insegnante di disegno trasandata e trascurata.

-Kimura Yoneko, inquilina del terzo piano, è stata una rigida e severissima professoressa di lingua e letteratura giapponese in un liceo.

-Ueda Chikako, inquilina al quarto piano, maestra in pensione.

-Santo Haru, anziana inquilina al quarto piano.

-Iyoda Tomiko, fervida seguace della setta "Culto dei Tre Spiriti".

-Il Maestro, guru del Culto dei Tre Spiriti.

-Kawauki Keiko, madre di George, un bambino rapito.

B) IL BAMBINO RAPITO:

La notizia che George, quattro anni, unico figlio del maggiore D.Kraft e signora, era stato rapito non apparve sui giornali fino alla metà di aprile 1951. Il fatto era accaduto il 27 marzo. Quel ritardo nel divulgare la notizia era dovuto alla scelta dei genitori di patteggiare in segreto con i rapitori, invece di informare subito la polizia della scomparsa del bambino. L'accordo- a tutto vantaggio dei criminali- prevedeva che venisse pagata una certa somma in due tranche, e che George fosse restituito dopo la consegna della prima metà. Questa per lo meno era la versione del maggiore Kraft...

In ogni caso, dopo aver convenuto per telefono che il maggiore portasse trecentomila yen in contanti in un determinato luogo i rapitori avevano interrotto le comunicazioni. A quel punto, il maggiore aveva cercato di rimettersi in contatto con loro pubblicando degli annunci sui giornali.

I giornali avevano dato molto risalto alla notizia del rapimento, ma da parte dei criminali non arrivò mai una risposta. Così, a poco a poco il caso smise di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica che si sciolse come neve in primavera. Perché il maggiore Draft si fosse ostinatamente rifiutato di rivolgersi alla polizia, o perché non avesse agito con più determinazione quando il bambino era stato rapito, rimase un mistero. Un anno dopo, divorziò da Kawauchi Keiko e ritornò negli Stati Uniti.

Come può questa vicenda avere a che fare con la Residenza K?

Nei giorni in cui si dà notizia della scomparsa di George, Ueda Chicako, maestra elementare, aiuta il suo amante a seppellire il corpo di un bambino sotto il pavimento di un bagno del pianterreno della Residenza K. 

Ma... quel bambino morto è proprio George Kraft?

Qui comunque ci sono molti misteri e molti punti strani e oscuri che verranno chiariti solo nelle ultime cinque pagine del libro.

Negli ultimi due paragrafi vorrei approfondire soprattutto due figure femminili: Kimura Yoneko e Munekata Toyoko.

C) KIMURA YONEKO E L'INETTITUDINE A VIVERE:

Noi in Italia alla letteratura sull'inetto e sull'inettitudine a vivere ci siamo arrivati ai primi del Novecento, soprattutto con i tre romanzi di Italo Svevo. I giapponesi invece, con quest'opera di Togawa Masako, sono giunti nei primi anni Sessanta alla tematica dell'incapacità dei personaggi di dare un senso alla loro vita.

Kimura Yoneko è, di fatto, un 'intelligenza sprecata in una quotidianità insulsa.

Una volta andata in pensione si rende conto di non essere assolutamente in grado di gestire la propria quotidianità e di essere divenuta quindi una facilissima preda della noia.

... ogni giorno usciva dalla Residenza K alle otto e mezza. Andava a Ikebukuro senza uno scopo preciso, solo per passare un'oretta a passeggiare e gironzolare nei reparti di una grande magazzino, oppure entrava in un cinema per guardare uno spettacolo del mattino, ma ben presto si stancò e comprese che non poteva continuare ad ammazzare il tempo in questo modo.

Finché un pomeriggio, stanca di queste insulsaggini, decide di scrivere lettere alle sue ex alunne, dopo aver reperito i loro indirizzi.

Tra queste, c'è anche Keiko, la madre del bambino scomparso. E, alcuni giorni dopo, Kimura Yoneko riceve prontamente la risposta di quella ex alunna tanto rimproverata in passato:

Probabilmente avrà saputo che tempo fa il mio unico figlio, George, è stato rapito. Sono già trascorsi sette anni, ma da allora non ho avuto un solo giorno di pace.

(...) Da quando sono tornata dai miei genitori, sono stata continuamente incoraggiata a risposarmi, ma il peso che ho sul cuore no ha sempre impedito di farlo. Non ho mai smesso di pensare al mio bambino sparito nel nulla, non ho mai smesso di cercarlo, senza tralasciare alcun mezzo. (...) 

Finché, qualche giorno fa, mentre passeggiavo nei paraggi della mia vecchia casa (...), mi si è avvicinato un ragazzo che indossava l'uniforme di un liceo prestigioso e mi ha rivolto la parola. (...) Kurokawa Fumio, il figlio della nostra ex domestica. Aveva quattro anni in più di George, ma ogni tanto veniva lo stesso a giocare con lui.

Fumio mi ha detto che gli dispiaceva molto per quanto era successo a George e che si trovava da quelle parti perché aveva appena partecipato a una riunione di ex allievi delle elementari.

"Tutto è cambiato nella scuola (...) Però ci sono ancora tutti i disegni che avevamo fatto noi, i componimenti, i figli degli esami... Hanno conservato tutto! Che strano che oggi abbia incontrato proprio lei, perché ho appena ritrovato un tema che avevo fatto in prima elementare, intitolato Il mio piccolo amico straniero. Nel tema parlavo di George."

Ad assegnare il compito era stata una maestra che ora non insegna più lì, una cerca Ueda Chikako. (...) Leggendo il suo indirizzo sul retro della busta, ho visto che, per puro caso, lei e la maestra che aveva assegnato quel tema a Kurokawa Fumio abitate nello stesso posto.

Questi estratti mostrano come il romanzo della Masako sia pieno di coincidenze.

D) MUNEKATA TOYOKO E L'INCAPACITA' DI AFFRONTARE LA SOLITUDINE:

Munekata,  docente universitaria, è una vedova scorbutica e antipatica, priva di relazioni umane. Per coincidenza, Tamura, una delle custodi della residenza, è sua coetanea ed è stata per molti anni nella stessa classe di Munekata.

E' proprio Tamura ad estrarre da un cassetto il passe-partout per intrufolarsi, di nascosto e in assenza di quella ex compagna di classe molto invidiata, nell'appartamento del primo piano.

Tamura scopre che Munekata non sta lavorando ad un'opera di rilievo scientifico-culturale, bensì che passa buona parte delle sue giornate e delle notti a copiare e a trascrivere gli appunti di matematica e fisica del marito. E si tratta di appunti sconclusionati, di un sovraffollamento di numeri, operazioni, formule e alcune frasi oscene.

Dopo la morte del marito Munekata Toyoko è caduta in una sorta di ossessione-compulsione che la rende impegnata in un'attività senza senso, svolta probabilmente per non affrontare la solitudine che la attanaglia dopo la perdita del coniuge, anch'egli docente universitario.

C'è un mistero che riguarda la professoressa Munekata:

Munekata Toyoko era andata a dormire lasciando la stufa accesa, ma per una causa ignota la fiamma si era spenta. Se non era morta asfissiata, lo doveva a una sua vicina che si era alzata durante la notte per andare al gabinetto e passando davanti alla sua stanza aveva sentito odore di gas uscire dal finestrino di aereazione semiaperto.

Anche qui: si tratta di un incidente casuale oppure doloso? Chi poteva avere interesse ad uccidere la signora Toyoko?

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In questo romanzo le protagoniste sono tutte donne sole, come dice il titolo. Prive di reti sociali, prive di amicizie, prive di parenti. Tuttavia, l'improvvisa scomparsa del passe-partout risveglia in loro non soltanto angoscia ma anche una malsana, indiscreta e maleducata curiosità: rubarlo e/o trafugarlo per scoprire i segreti delle altre inquiline con le quali non hanno confidenza.


7 giugno 2023

"L'ora del caffé", Gianrico e Giorgia Carofiglio: dialoghi "di contrasto"

Consiglio questa nuova creazione letteraria dei Carofiglio agli assistenti sociali. Sono presenti molte questioni antropologiche che possono richiamare anche alla psicologia sociale.

Ho potuto ascoltare soltanto gli ultimi venti minuti di presentazione dell'Ora del caffé al Salone del Libro di Torino.

Vi illustrerò soltanto alcune delle tematiche proposte nel corso dei capitoli che prevedono discussioni tra un padre nato  all' inizio degli anni '60 e una figlia venuta al mondo esattamente nel mio stesso anno. Ma come hanno fatto Gianrico e Giorgia Carofiglio a trovare il tempo e la voglia per realizzare un saggio di attualità?

Per certe imprese complicate ci vogliono i rituali. Il nostro è stato sederci al tavolo della cucina, con due tazze di caffé americano e parlare, litigare, ragionare. Com'era possibile che interpretassimo le cose in modo così diverso, nonostante avessimo valori politici ed etici simili? Bisognava aprire una finestra l'uno nell'universo dell'altra, e viceversa. Ci abbiamo provato, argomento per argomento. Cercando una sintesi, capitolo per capitolo.

Vengono infatti trattate spinose questioni contemporanee di natura etica che dividono due generazioni cresciute in contesti storico-sociologici diversi.

La prefazione è di Gianrico. Di queste prime pagine mi è piaciuto quel riferimento a Keats a proposito dei nostri bisogni di certezze e di soluzioni immediate e rassicuranti che piegano molto facilmente la realtà al nostro punto di vista:

Per Keats, accettando l'incertezza, il caso, il disordine, l'errore, il dubbio, è possibile osservare più in profondità, cogliere le sfumature e i dettagli, porre nuove domande, anche paradossali, e allargare i confini della conoscenza e della consapevolezza. 

Accettare dubbi, incertezze ed errori implica non soltanto osservare in profondità ma anche aprire la mente, evolvere, distanziarsi dal dogmatismo acritico.

L'alterità dei punti di vista può essere infatti sia motivo di angoscia e di incomprensione sia motivo di arricchimento e di riflessione. Questo ce lo insegna in particolar modo Uno, nessuno e centomila di Pirandello.

A) EMOTIVITA' VS RAGIONE:

Ho dato io un titolo a questo paragrafo che vuole riassumere i pensieri di Gianrico Carofiglio a proposito di cibo, di "vegetarianismo" e di dieta mediterranea.

Il capitolo intitolato Onnivoro a chi? inizia con una discussione familiare proprio durante il pranzo di Pasqua: la moglie e madre di famiglia porta in tavola l'agnello cotto. Sua figlia dichiara con fermezza che non mangerà mai più carne. La madre si
offende, l'altro figlio, visto che è vegano, dà praticamente dell'ipocrita a sua sorella. Il padre, perplesso soprattutto davanti a due donne innervosite dal conflitto alimentare, chiede alla figlia i motivi della sua scelta.

Secondo Gianrico, si smette di mangiare carne per ragioni emotive: secondo il suo punto di vista, mentre con i mammiferi abbiamo rapporti più diretti, sin da bambini, mentre il vitello e l'agnello ispirano tenerezza e senso di protezione, dall'altra parte invece con i pesci non interagiamo quasi mai se non per pescarli. Oltre a ciò, noi percepiamo le emozioni attraverso le espressioni facciali e i pesci mancano proprio di queste dal momento che i loro occhi sono fissi:

Smettiamo con più facilità di mangiare carne rispetto al pesce perché ci sentiamo coinvolti, e poi razionalizziamo la scelta dicendo che gli animali di terra sono più intelligenti, soffrono, insomma sono più simili a noi.

Queste opinioni di Carofiglio padre mi hanno ricordato la presentazione, quasi due mesi fa presso la libreria Feltrinelli di Verona, la mia città, del saggio La scienza dell'incredibile di Massimo Polidoro. 

E' il più recente libro scritto da questo docente universitario di Psicologia dell'Insolito e segretario nazionale del CICAP (Comitato Italiano controllo affermazioni sulle pseudoscienze).

Dicevo: il professor Polidoro è stato ospite nel punto vendita Feltrinelli di Verona Centro il 17 aprile scorso, nel tardo pomeriggio. Matthias è un ammiratore di questo studioso. Avevamo in programma di andare insieme ma poi, a causa di un impegno che lo ha trattenuto presso il comune in cui sta svolgendo il tirocinio per diventare assistente sociale, sono andata solo io. 

Devo ammettere che è stato interessante anche perché non conoscevo affatto Massimo Polidoro. Questo autore ha iniziato la presentazione del suo ultimo saggio parlando proprio di un'emotività che in certi casi sovrasta la razionalità. Ci ha detto che soccombere a reazioni emotive e istintive è inevitabile per ciascuno di noi dal momento che non in tutte le situazioni di vita riusciamo a controllare le emozioni forti che proviamo e che sovrastano il pensiero razionale: ai giorni nostri i social network sollecitano reazioni istintive, in particolare quando leggiamo una notizia oltremodo drammatica, scabrosa, che comporta rammarico e sconcerto tra l'opinione pubblica. Polidoro ha poi paragonato i pensieri veloci ad un cavallo o ad un elefante, mentre invece i pensieri lenti a chi guida questi animali.

Carofiglio prosegue la sua relazione sull' argomento alimentare affermando che essere onnivori ha consentito all'uomo di adattarsi a molti ecosistemi. 

Il primo capitolo di questo saggio si conclude con una scelta della loro famiglia, piuttosto recente, di mangiare meno carne, secondo la dieta mediterranea.

Da molti anni la mia famiglia segue la dieta mediterranea. Tuttavia, di tanto in tanto soprattutto a me piace fare uno strappo alla regola: mentre sto scrivendo questo post cerco di combattere la voglia di ordinare cibo thailandese da asporto e di proporlo a chi è con me in questo momento a casa. (Alla fine il pranzo di oggi comporterà un risotto alla parmigiana che mi metterò a preparare io non appena terminerò il post).

Ecco, vedete?! Agli occhi soprattutto del giovane vegano Alessandro Carofiglio potrei sembrare una criminale visto che adoro sia gli spiedini di gamberi aromatizzati con foglie di lime sia il khao pad thailandese😅: è un riso fritto condito con uova, verdure, calamari e gamberoni, a volte al posto del pesce ci sono pezzi di pollo o di maiale. Ma a me piace di più la variante con i gamberoni e i calamari. Deve piacere la cucina thai, perché ha diverse altre particolarità che per me sono gustose ma non è detto lo siano anche per gli altri. Per questo non la impongo a nessuno, nemmeno a Matthias che preferisce la messicana e l'indiana.

Ad ogni modo a Verona, al quartiere San Zeno, c'è un ristorante vegano. Ci sono stata due volte con un paio di miei compagni di corso quando frequentavo l'università e, in particolar modo, i seminari su Dante Alighieri. A me è piaciuto, almeno, fino a qualche anno fa si mangiava bene lì.

Evito i McDonald's per questioni ambientali, come ho spiegato quando ho pubblicato il post sul primo fumetto di Zerocalcare, ma ammetto di essere onnivora, al di là del sashimi e del nigiri giapponesi che non riesco a digerire.

B) ANSIA E TERAPIA:

La pandemia ha causato grave inquietudine, diffusa soprattutto (ma non solo) tra i più giovani. L'isolamento, la preoccupazione per il futuro, per la propria salute e quella dei propri familiari hanno esacerbato un disagio che già serpeggiava da tempo.

Un disagio soltanto? Più disagi!

Con la pandemia sono emersi un sacco di problemi sociali, politici e culturali che caratterizzano questa fase storica del nostro paese: l'emergenza Covid ha messo in luce ad esempio una serissima emergenza educativa nelle scuole e nelle famiglie che riguarda adolescenti senza punti di riferimento, i tagli alla sanità pubblica hanno mostrato le lacune nell'organizzazione dei reparti di terapia intensiva, tra l'estate 2020 e l'autunno 2021 diverse persone, anche giovani con figli a carico, hanno perso i loro posti di lavoro. Il lockdown dovuto al Covid-19 ha dato una brutale mazzata alla nostra economia generando malessere, angoscia, sfiducia nelle istituzioni, nei sindacati, nella sanità. Oltre ad aver fatto nascere gruppi no.vax dal linguaggio aggressivo.

Il 2020 e il 2021 sono stati anni in cui abbiamo sperimentato la precarietà dell'esistenza e in cui avremmo dovuto comprendere che l'arroganza umana non serve a nulla se le nostre vite possono essere messe in pericolo da un virus invisibile e sconosciuto.

Il sentore angosciante della precarietà dell'esistenza, dice Gianrico, lo si avvertiva anche tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando, con la Guerra Fredda e la concreta minaccia di una guerra mondiale atomica, in molti, nel mondo occidentale, provavano ansia, inquietudine, depressione. In questo stesso periodo sono nati gli psicofarmaci.

E' sensato ipotizzare che l'introduzione di nuove medicine, fonte di speranza per la cura di disturbi psichiatrici, si sia infiltrata a poco a poco nella cultura popolare, nel modo in cui le persone hanno iniziato a definire il loro malessere, nella capacità stessa di percepirlo. (...) In realtà il tema della disponibilità di un lessico per la sofferenza psicologica è del tutto cruciale. Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio quelle che dicono la fragilità, la differenze, la tristezza; quando non sappiamo nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi. Nelle scienze cognitive il fenomeno- la mancanza di parole e dunque di idee e di modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore- è chiamato "ipocognizione".

Per questo, di nuovo, si ribadisce che il migliore degli psicofarmaci è un buon vocabolario.

Qui ho ripensato alla Disciplina di Penelope. Anche Penelope Spada ricorre alla psicoterapeuta che le dà questi consigli:

«Vede Penelope» mi aveva detto una volta, «per superare il disagio o addirittura la malattia mentale, un passaggio decisivo sta nel costruirsi un vocabolario preciso per descrivere le proprie sensazioni interiori. Se uno dice indifferentemente: felice o entusiasta; oppure triste e infelice; oppure se dice sono arrabbiato e invece è triste; o viceversa se dice sono triste e invece è solo molto arrabbiato, non potrà mai sottrarsi all'influenza occulta di quelle emozioni e di quei sentimenti che non sa riconoscere (...).

Quindi, particolarmente interessante diviene la seconda parte di questo capitolo: Gianrico e Giorgia ci spiegano che, ai giorni nostri, andare da uno specialista della psiche non corrisponde più all'idea di essere malati di mente: si va da uno psicoterapeuta anche semplicemente per superare un momento difficile o per imparare a capire meglio se stessi, compresi quei meccanismi compulsivi attraverso i quali entriamo in relazione con gli altri.

Si descrivono in seguito le concezioni, passate, di alcune malattie nell'immaginario sociale: decenni fa il cancro era considerato segno dell'incapacità di chi ne era affetto di esternare emozioni, la tubercolosi, nell'ottocento, era simbolo di un carattere sensibile o ribelle verso le norme borghesi, condite di ipocrisia e perbenismo.

Inoltre, a proposito di malesseri emotivi, ultimamente inizia a sfaldarsi la convinzione che per un uomo chiedere aiuto sia segno di una fragilità inaccettabile per il genere maschile.

La mia tesi di laurea triennale era sui madrigali drammatici di Sigismondo D'India, primo drammaturgo europeo.

Componendo testi e melodie di alcuni lamenti maschili dedicati alle vicende d'amore drammatiche di Orfeo, Apollo e Giasone, D'India inizia a mettere in discussione lo stereotipo dell'uomo forte che ha doveri politici e sociali, che deve farsi garante dei valori culturali e sociali dell'epoca in cui vive e che per questo non può permettersi di cedere al dolore e all'emotività che lo distoglierebbero dai suoi compiti. Così si pensava nel primo Seicento, così si è pensato sicuramente fino all'inizio degli anni Duemila a proposito del genere maschile. Ricordo infatti che l'opera di Franco Andreini, Le Bravure del Capitan Spavento, rappresentava la follia maschile del protagonista in preda a deliri amorosi soltanto per mettere in ridicolo i suoi sentimenti.

D'altra parte, anche la cultura greca classica ha fatto qualche danno: penso all'Economico di Senofonte in cui Isomaco, un aristocratico, concepisce così i ruoli dei due sessi: agli uomini, più vigorosi fisicamente spetta un'attiva partecipazione al mondo esterno, mentre alle donne, fisicamente più deboli, è destinata soltanto la cura dell'ambiente domestico.

C) PROBLEMA CLIMATICO:

Di questo capitolo, che porta il simpatico titolo Non piove, governo ladro!, per ragioni di spazio e di tempo, riporto soltanto alcune citazioni dei Carofiglio, che possano servire da monito a voi lettori.

Oggi, quello che non possiamo più fare è aspettare. Se non facciamo niente, secondo le previsioni degli scienziati, nel 2050 potrebbero sparire tutti i ghiacciai sotto i tremila metri, l'ottanta per cento della superficie delle Maldive, la maggior parte del Mar Morto, tutte le barriere coralline del mondo. (...) Venezia, con i suoi canali, le sue guglie, i suoi ponti e le sue calli, rischia di sparire nell'arco di un paio di generazioni. Alcuni di questi cambiamenti sono irreversibili. Altri no, se decidiamo di agire.


La crisi climatica è una crisi sistemica: il frutto di miliardi di azioni, individuali e collettive, a volte miopi, a volte malintenzionate, a volte addirittura criminali. Ma è anche la conseguenza imprevista (e, in parte, imprevedibile) di decisioni ordinarie collocate in segmenti di vita quotidiana, normale. (...) Ciò che dobbiamo sottolineare è la responsabilità di tutti per cambiare le cose. La responsabilità guida l'azione invece di cercare colpevoli. (...) Indirizziamo la nostra rabbia al presente: abbiamo tutti il dovere di agire.

D) IL "POLITICALLY CORRECT":

Il dibattito del politicamente corretto è diventato centrale soprattutto per i giovani.

Da un lato il politicamente corretto è stato accusato di fondare censure inaccettabili, dall'altro invece si riconosce che mette in luce un aspetto niente affatto trascurabile: pur trovandoci nel XXI° secolo, non viviamo ancora in società inclusive.

Per me è vera sia l'una sia l'altra affermazione. Considero il "politically correct" un'arma a doppio taglio: se da una parte può farci maturare verso l'inclusività e può farci comprendere quanto sia salutare reprimere i pregiudizi per servirsi di un modo d'esprimersi equilibrato, dall'altra prevede degli aspetti bacchettoni, iper-moralisti, al limite del ridicolo e del surreale!

A mio avviso il politicamente corretto è da equiparare al moralismo quando reca avvertenze superflue, illogiche, balorde e surreali. Quando considera "dannose" opere che invece sono molto toccanti o comunque molto piacevoli da rivedere anche per gli ex bambini.

Eccovi un esempio di ciò: la Disney ha deciso di riservare il film Gli Aristogatti ai maggiori di 7 anni e di aggiungere un'avvertenza: questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone e culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono oggi.

Gli Aristogatti è un film animato stupendo, originale, a tratti divertente, che potrebbe veicolare ad esempio il messaggio dell'importanza della famiglia e delle buone compagnie. Eppure, l'avvertenza esagerata e, a mio modo di vedere, poco intelligente, si riferiva a quei pochi secondi di film in cui si vede un gatto siamese con i tratti orientali. Questi tratti sono considerati degli "stereotipi della cultura asiatica".

"Ma che senso ha un'avvertimento del genere?" mi chiedo io per il seguente motivo: all'interno del cartone animato non ci sono episodi di bullismo o parole offensive nei confronti delle popolazioni asiatiche. Per tutta la durata del film non c'è un personaggio che pronunci pregiudizi o comportamenti di astio e di fastidio rivolte agli asiatici. Solo in casi come questi capirei l'avvertenza all'inizio.

Ma qui c'è solo un gatto giallo che suona il piano con le bacchette. Chi è "open minded" sa benissimo che gli asiatici non si possono includere in uno stereotipo e che non indossano tutti un cappellino a cono e non suonano gli strumenti musicali con le bacchette!! 

E poi... credete davvero che un bambino cinese, sud-coreano o giapponese al vedere quel gatto si offendano?

Ma la stessa avvertenza nei confronti di Dumbo mi ha irritata ancora di più! Dumbo è un film animato che può mettere in luce l'importanza dell'autostima, il dolore che possono arrecare l'emarginazione e il pregiudizio, quanto è fondamentale l'appoggio di qualcuno che crede in te, quanto possa essere benefica la strategia di riscoprire, anche nei propri limiti o in quelli che sembrano tali, delle risorse da sviluppare.

Eppure ultimamente Dumbo viene considerato un cartone razzista per il futile motivo  dei corvi. Questi ultimi, che prendono in giro Dumbo, renderebbero omaggio agli spettacoli di menestrelli razzisti dove artisti bianchi con facce annerite imitavano e ridicolizzavano gli africani schiavi nelle piantagioni meridionali.

... E i bambini dovrebbero pensare immediatamente a questo contesto storico-culturale di razzismo del passato? 

A parte che i corvi vengono rimproverati da Timoteo che fa cambiare loro atteggiamento! Per me Dumbo è un film per bambini positivo in tutto e per tutto. 

Non sono i cartoni animati che fanno nascere pregiudizi, intolleranze e discriminazioni quanto piuttosto alcune mentalità familiari, sociali e culturali razziste, misogine e inique che continuano a sopravvivere, in ogni parte del mondo, al di là della Disney e al di là dei film.

La Disney non ha censurato i film (cosa che, giusto per dire, non è capitata praticamente mai, nonostante certi titoli sensazionalistici dei giornali) ma ha cambiato il contesto entro il quale venivano proposti. Quell'avvertenza dice: ci rendiamo conto che ci sono contenuti controversi, vogliamo che lo sappiate.

Matthias ti darebbe ragione, Giorgia. Lui è contrario alla censura ma favorevole al politically correct. Io invece stavolta non condivido, trovo ingiuste queste segnalazioni della Disney. Educare al rispetto e far riflettere in maniera critica è doveroso per continuare a promuovere il dibattito e la democrazia, ma non in quel modo!          .................................................................................................................................

Il penultimo capitolo riguarda il precariato giovanile, che coinvolge anche me. Questi ultimi mesi sono stati piuttosto difficili dal punto di vista lavorativo. Una parte di me è amareggiata, un'altra invece confida nella possibilità che la situazione, nel corso dei prossimi mesi, possa evolvere in meglio.In questi primi cinque mesi del 2023 devo ammettere che ho fatto fronte in modo energico e determinato alla precarietà del lavoro saltuario.

Bella è la conclusione di questa penultima parte di saggio: e se il precariato ci inducesse a reinterpretare le parole "comunità" e "responsabilità"?

L'ultimo capitolo invece riguarda il rapporto che i giovani hanno con la politica. Qui non condivido affatto le affermazioni e soprattutto le aspettative sulla cosiddetta "sinistra". Da un lato è vero che la sinistra non crede più nella giustizia sociale ma dall'altro, non necessariamente abbiamo bisogno di governi e di politici "di sinistra" per realizzare una società migliore rispetto a quella in cui ci troviamo!!!

Con chi si realizzerebbe la società utopica, con "i sinistri" che, con comportamenti estremamente maleducati, non permettono ad una ministra nemmeno di parlare quando dovrebbe presentare ad un salone culturale il proprio libro? 

La ministra Eugenia Roccella sarà anche una "sorella d'Italia" ma, come tutti gli esseri umani, ha diritto al rispetto e all'ascolto! Non è venuta al salone del libro per imporre idee reazionarie quanto piuttosto per portare i contenuti del suo libro e quindi la sua esperienza familiare in fasi storiche complesse come il dopoguerra e il Sessantotto. E invece le è toccato subire i comportamenti aggressivi e incivili dei giovani e delle giovani, probabilmente affiliati di estrema sinistra, che hanno voluto mantenere un pensiero prevenuto e molto negativo su di lei e sul suo romanzo.

Il Pd "schleiniano" ha idee veramente scellerate: è a favore di aborto e utero in affitto ma si dimostra indifferente e insensibile proprio di fronte a precariato, disoccupazione giovanile e paghe da fame e non dignitose.

I giovani di sinistra imbrattano i monumenti e gli edifici in nome dell'ecologia e della sensibilità ambientale, gli affiliati del PD e dei 5S oggi, indipendentemente dalla loro età, ti saltano addosso se non la pensi come loro e si ostinano a negare persino la verità più elementare dicendo: "non esistono né uomo né donna, sono soltanto differenze culturali che ci ha imposto una mentalità patricarcale, sessista e oppressiva". Ma andate in Iran, fatevelo spiegare dagli iraniani immigrati qui che cos'è davvero il patriarcato oppressivo!

Giorgia Carofiglio è indubbiamente intelligente. I suoi contributi e i suoi apporti alle tematiche alimentari, climatiche e alle questioni del femminismo e dell'ansia sono davvero apprezzabili e li condivido.

Ma credo sia molto, se non troppo idealista. E forse un po' estrema, un po' troppo a sinistra.