25 novembre 2014

"Colpa delle stelle": la forza di sorridere nel dolore e nella malattia


"Nel tardo inverno dei miei sedici anni mia madre ha deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa, passavo un sacco di tempo a letto, rileggevo infinite volte lo stesso libro, mangiavo molto poco e dedicavo parecchio del mio abbondante tempo libero a pensare alla morte"-
 Il romanzo di John Green inizia con questi pensieri formulati da Hazel Grace Lancaster, una ragazza affetta da una grave forma tumorale.
All'età di tredici anni infatti, le era stato diagnosticato un cancro alla tiroide in fase IV, che si era poi espanso ai polmoni e che, più di una volta l'aveva portata quasi in punto di morte a causa di violente crisi respiratorie.
Tuttavia Hazel continua a vivere sia grazie al BiPap, una macchina che le permette di respirare, sia grazie anche al Phalanxifor, una medicina dotata di una molecola che rallenta la crescita delle cellule cancerogene. Il suo tumore però è incurabile.
La madre di Hazel, accorgendosi del grande dolore (fisico e psicologico) della figlia, la sollecita a frequentare un gruppo di supporto. Proprio in quell'occasione, la ragazza conosce Augustus Waters (Gus per gli amici), diciottenne sorridente, vivace, ironico. Gus è sopravvissuto ad un osteosarcoma ed ha una protesi al posto della gamba destra. Hazel lo trova attraente. Augustus, a sua volta affascinato da Hazel e desideroso di conoscerla bene, la invita a casa sua al termine di una riunione del gruppo di supporto.
"-Raccontami di te" mi ha detto, sedendosi accanto a me a distanza di sicurezza. 
-"Ti ho già detto che mi hanno diagnosticato..." 
-"No, non il tuo cancro. Raccontami di te. Interessi, hobby, passioni, feticci strani e via dicendo" 
-"Mmm" ho detto. 
-"Non dirmi che sei una di quelle persone che diventano la loro malattia. Conosco tanta gente di quel tipo. E' sconfortante. Come se il cancro fosse la cosa che conta. La cosa che conta più delle persone. Ma certo tu non hai lasciato che vincesse prematuramente lui, giusto?"- 
Nonostante la perdita della gamba, Augustus Waters è un ragazzo dotato di una straordinaria forza d'animo, dal momento che desidera "afferrare la bellezza della vita", cogliere le gioie dell'amore e vivere con intensità ogni attimo presente. 
Però è comprensibile anche il fatto che Hazel, come suppone Gus, sia "diventata la sua malattia". Nei primi capitoli, il libro mette in evidenza lo sconforto e il cupo pessimismo della giovane, lacerata dall'angoscia, chiusa nel suo enorme dolore causato della consapevolezza di essere affetta da una gravissima malattia che la porterà presto alla morte. E' molto difficile accettare di dover morire a soli sedici anni. Sedici anni... L'età in cui si sogna anche ad occhi aperti, l'età in cui si continua a pensare con trepidazione al proprio avvenire... I sedici anni sono la primavera della vita.


Con il passare dei giorni, il rapporto di amicizia tra i due ragazzi diviene un amore forte, sincero, fatto di lacrime e sorrisi.
Hazel e Augustus rimangono suggestionati da un libro intitolato "Un'imperiale afflizione", scritto da Peter Van Houten, autore di origini americane ma residente in Olanda.
Con il permesso dei medici, accompagnati dalla madre di Hazel, i due ragazzi salgono su un aereo diretto ad Amsterdam, allo scopo di incontrare Van Houten, in modo tale da porgli alcune domande sulla parte finale del libro, che entrambi trovano strana e spiazzante.
Van Houten si rivela però un uomo malvagio, insensibile e sopraffatto da seri problemi di alcolismo. Egli addirittura inveisce contro Hazel, dicendole: "Mi dispiace di non poter appagare i suoi capricci infantili, ma mi rifiuto di compatirla nella maniera in cui lei è evidentemente ben abituata. (...) Come tutti i bambini ammalati dice che non vuole commiserazione, ma la sua esistenza stessa ne dipende. I bambini ammalati inevitabilmente si bloccano: siete destinati a vivere tutti i vostri giorni come se foste ancora il bambino a cui è stata fatta la diagnosi, il bambino che crede che ci sia una vita dopo che un romanzo finisce. E noi, come adulti, proviamo commiserazione per questo, così paghiamo per le vostre cure, per le vostre macchine dell'ossigeno. Vi diamo cibo e acqua anche se è improbabile che viviate abbastanza da...  Siete un effetto collaterale di un processo evolutivo che si cura ben poco delle vite degli individui. Siete un esperimento fallito nella mutazione."
Ero molto indignata quando ho letto queste righe. Ma John Green, nell'attribuire queste parole cattive a Van Houten, si è per caso ispirato ad un passo del "Mein Kampf "di Hilter? Soprattutto le ultime parole "esperimento fallito nella mutazione", in qualche modo mi ricordavano le teorie espresse in quell'odioso libro. Sia secondo Van Houten, sia secondo Hilter, i malati sono totalmente inutili e dannosi per la società... Tra l'altro, Van Houten ha la faccia tosta di dire queste cattiverie ad una ragazza giovane e malata, dimostrando dunque di non avere il benché minimo rispetto verso la vita di Hazel; una vita rovinata certamente dal cancro ma comunque degna di essere vissuta fino alla fine.
Le persone come Hazel non sono "esperimenti falliti nella mutazione", sono solamente vittime di un'atroce disgrazia che è piombata prepotentemente e inaspettatamente nelle loro vite.

Molto positiva risulta invece la figura di Lidewij, l'assistente di Van Houten, sconvolta dalle parole che l'autore rivolge ai due giovani visitatori. Lidewij farà poi visitare ai due ragazzi la casa di Anne Frank.

Il racconto diviene ancora più tragico nel momento in cui Augustus rivela ad Hazel di aver avuto una ricaduta: "Mi sono acceso come un albero di Natale, Hazel Grace. Lungo tutto il torace, l'anca sinistra, il fegato... dappertutto" ... e le lacrime di Hazel sono diventate anche le mie, lo ammetto candidamente e non me ne vergogno.
E' inconcepibile che un ragazzo profondamente "attaccato alla vita" (tanto per citare Ungaretti), muoia in quel modo...
...Augustus... come una folata di vento trasporta con sé le foglie che in autunno cadono dagli alberi, la morte si è portata via il suo simpatico "sorriso sbilenco", la sua schiettezza, la sua gran voglia di scherzare, la sua maturità, il suo sapiente "carpe diem"... (la morte in certi casi è davvero una ladra ingiusta e impietosa!!)
Nel corso del libro (e del film), la salute del ragazzo degenera rapidamente. 

Sabato 22 novembre sono andata a vedere il film di questo romanzo, anche se non avevo ancora terminato la lettura del libro... però ero arrivata ai 2/3 circa del romanzo, ovvero, al punto in cui Augustus è giunto nella fase terminale della malattia: quando mangia pochissimo, vomita quel poco che mangia e sta quasi sempre sdraiato sul divano. Quindi il film non mi ha rovinato il finale, perché in ogni caso quello era un finale molto facile da intuire.
Ho apprezzato moltissimo sia i genitori di Hazel che i genitori di Augustus, dal momento che nel corso della vicenda si dimostrano sempre molto premurosi e attenti alle necessità dei loro figli.


John Green sa scrivere con uno stile semplice ed efficace; che tocca le corde più profonde dell'anima, che a tratti fa sorridere (mi riferisco in particolare alle spiritose trovate di Gus), a tratti fa piangere, a tratti fa divertire, a tratti fa riflettere.


21 novembre 2014

"La tigre e la neve": storia di un amore autentico


 "La tigre e la neve" è un celebre film uscito qualche anno fa nelle sale cinematografiche. Di tanto in tanto viene trasmesso su alcuni canali televisivi. 
E' una storia avvincente, coinvolgente e...poetica!
Il ruolo di personaggio-protagonista è stato assegnato a Roberto Benigni, attore brillante che è sempre stato capace di esercitare un particolare fascino presso una buona parte degli spettatori italiani.
 
La vicenda è ambientata a Roma nel 2003 e il protagonista è Attilio De Giovanni, docente universitario di letteratura italiana e grande amante della poesia.
E' ammirevole il modo in cui Attilio cerca di trasmettere ai suoi studenti la passione per la poesia e l'amore per la vita: "Non v'affrettate, eh! Poi non scrivete subito poesie d'amore, che sono le più difficili! Aspettate almeno almeno un'ottantina d'anni eh... Scrivetele intanto su un altro argomento, che ne so su... su... il mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo, ecco(...) Avete capito? La poesia non è fuori, è dentro! Cos'è la poesia? Non chiedermelo più, guardati nello specchio: la poesia sei tu! E" vestitele" bene le poesie! Cercate bene le parole! Dovete sceglierle! A volte ci vogliono 8 mesi per trovare una parola! Sceglietele, che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere! (...)
Innamoratevi! Se non vi innamorate è tutto morto! Morto, tutto è... Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto, dilapidate la gioia! Sperperate l'allegria! (...) Fate soffiare in faccia alla gente la felicità!"

Attilio però è divorziato da alcuni anni e, ogni notte sogna di risposarsi con la sua ex-moglie Vittoria, (di professione giornalista), ferita a causa di un forte sentimento di amicizia che, alcuni anni prima, era sorto tra Attilio e un'altra docente universitaria. Un'amicizia che lei aveva scambiato per un tradimento. Per riconquistarla, Attilio la segue ovunque, cerca di parlarle, la invita a cena... ma lei lo evita.

Una mattina, dopo aver terminato una lezione all'università, Attilio incontra un suo vecchio amico di gioventù, il poeta Fuad di origini irachene, propenso a tornare in Iraq sebbene sia consapevole del fatto che nel suo paese natale è appena scoppiata una sanguinosa guerra civile. Vittoria, incaricata di scrivere la biografia di Fuad, decide di accompagnarlo a Baghdad. Pochi giorni dopo il suo arrivo in Iraq, a causa di un bombardamento, Vittoria rimane ferita gravemente alla testa e il poeta iracheno avvisa Attilio con una telefonata, informandolo delle gravissime condizioni di salute della moglie. Attilio decide allora di partire per l'Iraq.
Una volta giunto all'ospedale di Baghdad, si rende subito conto del fatto che non ci sono 
strutture adatte per curare l'edema cerebrale della sua ex-moglie, che rischia di perdere la vita.
Fuad però, lo accompagna da un anziano farmacista che intuisce sia la gravità della situazione sia l'amore sincero che il docente universitario prova per Vittoria.
"Se muore lei possono anche smontare, portare via, schiodare tutto, arrotolare tutto il cielo e caricarlo su un camion col rimorchio, possono spegnere questa luce bellissima del sole che mi piace tanto... ma tanto... lo sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illuminata dalla luce del sole, tanto... "

L'anziano farmacista prepara un rimedio in modo tale da salvare Vittoria dalla morte. In seguito, il nostro protagonista si reca da Vittoria per somministrarle il farmaco. Il prodotto dell'anziano farmacista riesce a mantenere in vita Vittoria ma non la fa uscire dal coma.
Attilio, determinato e tenace, vuole però trovare un'altra medicina che sia in grado di guarire completamente l'edema cerebrale della moglie; ma, nel cercarla, si scontra inevitabilmente con le difficoltà di un paese povero, pervaso da un clima di terrore e di sospetto: infatti, a un posto di blocco viene fermato da alcuni militari statunitensi che vorrebbero ucciderlo, ma che poi, ascoltando con attenzione i suoi bei discorsi relativi alla letteratura e alla poesia, lo lasciano libero.
Dopo una serie di travagliate avventure riesce a trovare i medicinali necessari da portare ai medici dell'ospedale.

Nel frattempo, l'amico Fuad, profondamente addolorato a causa della violenza provocata dalla guerra civile, si uccide. La sera precedente al suicidio, il poeta iracheno aveva confidato ad Attilio la sua angoscia e i suoi pensieri negativi sulla natura umana. In particolare, due frasi mi hanno fatta rabbrividire:
"Il mondo è iniziato senza l'uomo e senza l'uomo finirà. Dopo di noi Attilio c'è il nulla, nemmeno il nulla che già sarebbe qualcosa."- soltanto una persona terribilmente depressa potrebbe formulare teorie così amare...
Nella stessa mattina in cui Attilio scopre che Fuad si è suicidato, Vittoria esce dal coma. Attilio non riuscirà a incontrarla all'ospedale di Baghdad, dal momento che verrà arrestato da alcuni militari.
Ma dopo diversi giorni di prigionia viene liberato e ritorna all'ospedale di Baghdad dove i medici gli dicono che Vittoria è guarita ed è ritornata in Italia.
Felicissimo, Attilio ritorna a Roma. Proprio a casa incontra la sua ex-moglie. Stavolta però, invece di fuggire, Vittoria gli racconta ciò che le è accaduto a Baghdad.
Attilio non rivela all' ex-moglie di essere stato il responsabile della sua miracolosa guarigione, ma un dettaglio (il fatto che egli indossi la sua collana), rivela a Vittoria la vera identità del "prodigioso medico italiano" che l'ha salvata. Mentre Attilio esce di casa, Vittoria lo ammira con uno sguardo commosso e sorridente.


COME SI SPIEGA LO STRANISSIMO TITOLO DEL FILM?:

Il titolo "La tigre e la neve" permette agli spettatori di focalizzare l'attenzione su una promessa che Vittoria fa ad Attilio in una delle scene iniziali del film, anzi, più che una promessa, una presa in giro che la donna rivolge al suo ex-marito: "Ritornerò a vivere con te solo quando vedrò una tigre attraversare una strada innevata." Ma proprio nello stesso giorno in cui Attilio ritorna a Roma, molti animali fuggono dallo zoo della città e occupano le strade. Poco prima di incontrare Attilio a casa, mentre sta guidando, Vittoria scorge una tigre che attraversa una strada sulla quale continuano a cadere dai pioppi molti pollini primaverili, bianchi come la neve.

Io lo ritengo un film ben riuscito: a tratti drammatico, a tratti avventuroso e a tratti persino comico: Benigni, attore formidabile e anche un po' mattacchione, interpreta benissimo il protagonista Attilio, il suo ottimismo, la sua folle passione per la vita, la sua ironia... Il protagonista del film è una figura indubbiamente positiva; è un uomo che sa amare per davvero, che è disposto a rischiare di mettere a repentaglio la propria vita allo scopo di salvare quella della donna che ama. Il cuore di Attilio è illuminato da un'ardente fiamma d'amore che lo rende gioioso, aperto, solare e affezionato alla vita.



14 novembre 2014

Il tempo e la saggezza



Credo di aver trovato un curioso parallelismo tematico tra un'ode oraziana e un brano del Vangelo di Luca... In questo post, vorrei proporre la spiegazione di entrambi i testi.


(Orazio, Carmina, II, 14) :

VERSIONE ORIGINALE IN LATINO: 

"Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti: non, si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi compescit unda, scilicet omnibus quicumque terrae munere vescimur enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: visendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris: linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter invisas cupressos ulla brevem dominum sequetur: absumet heres Caecuba dignior servata centum clavibus et mero tinget pavimentum superbo, pontificum potiore cenis."

TRADUZIONE IN ITALIANO:  

" Ahimè fugaci, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, né la pietà porta un indugio alle rughe, alla vecchiaia che incombe e alla morte inesorabile; neppure se tu, amico mio, placassi con trecento buoi per ogni giorno che passa Plutone, dio senza lacrime che rinserra nella triste palude Gerione tre volte grande, e Tizio con la triste onda, che tutti noi indubbiamente dovremo attraversare, sia che ci nutriamo dei frutti della terra, sia che siamo re sia che siamo umili coloni. Invano rimarremo lontani dal sanguinoso Marte e dai flutti infranti del rauco Adriatico, invano in autunno temeremo l'Austro che nuoce ai corpi. Noi dovremo vedere il nero Cocito che erra con lento corso e la stirpe maledetta di Danao e Sisifo, figlio di Eolo, condannato a un' eterna fatica. Noi dovremo lasciare la terra, la casa e la sposa amata: nessuna delle piante che coltivi, eccetto gli odiosi cipressi, ti seguirà per breve tempo. Un erede più degno berrà i vini Cecubi tenuti sotto cento chiavi e tingerà il pavimento con il vino superbo migliore di quello delle cene dei pontefici."



Il carme è indirizzato a Postumo, un conoscente di Orazio, uomo ricco e proprietario di una grande casa spaziosa circondata da molti campi coltivati e dotata di una buona cantina. Orazio imputa a Postumo di aver pianificato la propria felicità senza considerare l'inesorabile scorrere del tempo, il quale porta dapprima alla vecchiaia e poi alla morte. 
Il componimento inizia con una dolente esclamazione, "eheu", funzionale a creare un senso di rassegnazione.
 La morte prima o poi giunge per tutti. (in effetti Orazio utilizza l'espressione "indomitaeque morti", ovvero, "l'inevitabile morte" oppure "la morte che è impossibile domare".) In seguito, Orazio elenca alcune figure mitologiche, tra le quali Gerione, gigante dotato di tre teste sconfitto da Eracle in una delle fatiche di quest'ultimo, Tizio, altro gigante, tormentato da due avvoltoi che gli mordevano il fegato, le Danaidi, giovani donne condannate a riempire anfore senza fondo per aver ucciso i loro mariti e Sisifo, re di Corinto destinato per l'eternità a spingere sulla sommità di un monte un enorme masso che non appena era giunto alla vetta, rotolava di nuovo giù dalla montagna.
Nella parte finale, il poeta ammonisce Postumo: gli comunica infatti che la sua morte è certa e sicura e che dunque un giorno egli dovrà abbandonare i beni materiali di cui si sente padrone. Forse, in punto di morte, Postumo scoprirà con rammarico di aver vissuto non tanto per se stesso quanto piuttosto per un erede che usufruirà dei frutti del suo lavoro; e a tal proposito, l'immagine del pavimento sul quale scorre il "prezioso Cecubo" rovesciato dai commensali è molto significativa: Postumo teneva il Cecubo "sotto cento chiavi"; e ciò significa che lo conservava gelosamente, senza goderne appieno.

Il contenuto di quest'ode mi ha ricordato un brano che San Luca ha inserito nel suo Vangelo. Lo riporto qui sotto:

 

(Luca, 12, v.v.15-21):

  "(...) E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi raccontò loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio".

In queste righe Gesù tocca il tema dell'inutilità dell'accumulo di beni.
E qui, vorrei scrivere le parti più importanti del commento dell'insigne teologo Padre Ermes Ronchi su questo brano:     
" Gesù ci ricorda che la vita dell'uomo è fragile, la sicurezza data dai beni è inconsistente, tutte le ricchezze di questo mondo non possono sfuggire alla morte. Una malattia improvvisa, un incidente e tutto va in fumo. (...) Un particolare colpisce in questo racconto: non c'è nessuno attorno all'uomo ricco, nessuno nella casa, nessuno nel cuore, non un volto, non un amico: la ricchezza crea un deserto di relazioni autentiche, le cose materiali soffocano gli affetti veri. (...) la felicità non può mai essere solitaria e ha a che fare con il dono. C'è una seduzione delle cose, forse sentiamo tutti il fascino di possedere di più, ma Gesù ci invita a voltarci da un'altra parte, a desiderare altro. "Stolto", dice all'uomo ricco, non perché cattivo ma perché poco intelligente. Prima che una valutazione etica è una considerazione sulla sapienza del vivere: l'uomo ricco ha investito sul prodotto sbagliato, sul denaro e non sull'amore. (...) Questa parabola è detta per ciascuno di noi. Gesù contesta i nostri miti ricorrenti: la ricchezza come sicurezza, la corsa al prodotto di moda, all'ultimo modello di cellulare. (...) Ma la tua vita non dipende da ciò che possiedi. Dipende dalla vita interiore, dalle persone accanto a te, da una sorgente che è Dio. (...) Gesù non disprezza i beni della terra, ma intende rispondere ad una domanda di felicità. (...) Quando Gesù dice: "Beati i poveri", vuol dire:"felici coloro che non svendono la propria dignità per un po' di denaro, che non vendono famiglia e affetti per il lavoro, che non rovinano la salute per una macchina più grande, per una casa più bella. (...) La povertà cristiana è rinunciare per avere più libertà e un rapporto intelligente con le cose, fatto di sobrietà e di solidarietà. (...) Gesù ci ricorda che la nostra vita è fragile e che nessuna sicurezza data dai beni ha consistenza. Per quanto accumuli, non puoi garantire né la tua vita né il tuo futuro. (...) nella povertà puoi essere ricco, nella fragilità puoi essere forte, perchè la tua vita è salda nelle mani di Dio. Un rapporto umile con il futuro: accoglierlo come un dono. Essere vivo domani non è un mio diritto, ma è un regalo (...)"

Infatti. Essere vivi non è un diritto, semmai è un regalo. La vita stessa è un dono da vivere con intensità, la ricchezza materiale non deve prendere il sopravvento sui nostri affetti...

7 novembre 2014

"Giorni e nuvole": la precarietà del presente e l'incertezza del futuro


"Giorni e nuvole" è un film del 2007.
L'ho visto più di una volta e l'ho apprezzato molto, innanzitutto perché delinea in modo scarno e realistico le difficoltà economiche di due coniugi che improvvisamente si trovano costretti a cambiare drasticamente il loro stile di vita e poi anche per il fatto che, tra le numerose difficoltà, entrambi trovano la forza di confidare nel loro profondo affetto reciproco.

Ecco la trama:
Elsa e Michele sono una coppia genovese molto colta, con circa vent'anni di matrimonio alle spalle e una figlia di nome Alice, la quale convive con il suo ragazzo ed è comproprietaria di un ristorante. Michele lavora come imprenditore in una ditta affermata e, grazie al suo cospicuo stipendio, la moglie Elsa ha potuto iscriversi all'Università per ottenere una laurea in storia dell'arte. Elsa inoltre lavora saltuariamente e gratuitamente come restauratrice per riportare alla luce un affresco dipinto sul soffitto di un' antica casa del centro di Genova.
La mattina dopo la festa di laurea, Michele rivela alla moglie di aver perso il lavoro alcuni mesi prima e di aver ormai poche migliaia di euro in banca. Elsa, sorpresa e dispiaciuta per il licenziamento del marito, inizia fin da subito a reagire di fronte alle difficoltà economiche: si reca sempre più raramente al restauro dell'affresco e trova un lavoro part-time dapprima in un call-center, poi come segretaria in un ufficio.
Michele invece, vive nella frustrazione più totale: continua a partecipare a colloqui di lavoro senza successo, stringe rapporti di amicizia con altri due disoccupati e si chiude in se stesso, sprofondando pian piano nella depressione.
I due coniugi inoltre, si trovano costretti dapprima a vendere la barca con la quale navigavano piacevolmente attraverso il mare durante le calde giornate estive e poi mettono in vendita anche la loro elegante casa in centro città per trasferirsi in uno squallido appartamento di periferia. Per entrambi risulta faticoso rinunciare agli agi e alle comodità; non senza malinconia infatti, la coppia rinuncia alle cene nei ristoranti, alla visione di commedie teatrali, al cinema e anche ai viaggi all'estero.
Soprattutto Michele fatica a modificare il suo stile di vita in base alle ristrettezze economiche: basti pensare all'episodio in cui, mentre egli cena per l'ultima volta in un lussuoso ristorante con la moglie e due amici, decide di pagare la cena a questi ultimi, suscitanto l'irritazione della moglie.
Il rapporto tra i due coniugi, durante il periodo di crisi, diventa piuttosto conflittuale: Michele appare spesso irritato, ombroso e pessimista, mentre Elsa coltiva un po' di risentimento verso il marito, dal momento che egli le ha rivelato troppo tardi di aver perso il lavoro.
Anche il rapporto con la figlia Alice è non è molto buono: infatti, Elsa e Michele non gradiscono Riki, il suo ragazzo. Per la loro figlia immaginavano infatti, come dice Michele a un certo punto: "qualcuno di più colto, e non certo un ragazzetto che ha interrotto gli studi e che lavora in un ristorante da quando ha sedici anni".

Un altro aspetto del film che mi ha colpita parecchio: Elsa e Michele cercano di mascherare il loro malessere e la loro preoccupazione: non ne parlano con nessuno dei loro amici, anzi, si vergognano persino di parlarne con la figlia, che però, dopo un po' di tempo intuisce che il padre ha perso il lavoro. Michele rifiuta addirittura la proposta di un aiuto economico da parte della figlia, angosciata per entrambi i genitori ma al contempo arrabbiata per i loro sotterfugi e le loro bugie.
Non sono mai riuscita a capire il motivo per cui alcune persone che vivono un periodo di serie difficoltà nascondono ai loro amici e a volte anche ai familiari le loro angoscie e il loro timore verso un futuro incerto e tendono dunque a "tenersi dentro tutto".
Ma così facendo, alimentano i loro dubbi, le loro paure e le loro sofferenze. Tacciono, forse per apparire forti e sicuri o perché faticano ad accettare la realtà in cui vivono oppure perché credono di riuscire a risolvere i loro gravi problemi con le loro sole forze ed energie, senza aver bisogno del sostegno di qualcuno...

Tuttavia, il finale del film è piuttosto confortante: Elsa si reca nel luogo del restauro e proprio qui incontra di nuovo uno dei suoi docenti universitari, intento ad ammirare l'affresco del soffitto, interamente restaurato.
La donna allora, si sdraia sul pavimento della stanza e contempla ogni piccolo particolare dell'opera che raffigura un'annunciazione: un angelo tiene in una mano un ramo di giglio e, con le ali spiegate, sta per atterrare di fronte alla Madonna, vestita di bianco e seduta su un trono dorato.
Elsa chiude gli occhi e pensa al marito, che improvvisamente compare sulla scena e si sdraia accanto a lei. Così entrambi iniziano a scambiarsi dubbi e intenzioni.
"... "Non voglio perderti, Elsa", "Ma se guardo avanti ultimamente vedo solo fatica, una fatica pazzesca." , "Dobbiamo ricominciare da qui. Mi inventerò qualcosa, partirò da zero ma senza di te no. Senza di te non vado da nessuna parte. (...)"



... E infine si stringono la mano e contemplano, in silenzio, l'affresco.
E' proprio nel finale che si intravede un tenue raggio di speranza tra le nuvole grigie della precarietà e dell'instabilità.

Non trovare lavoro a venti o a trent'anni è molto triste e frustrante, ma venire licenziati a cinquanta è, almeno a mio parere, ancora più tragico. Purtroppo, negli ultimi anni, a causa della nostra pesante crisi economica, casi come questi succedono sempre più spesso e adulti di mezz'età che solitamente hanno lavorato con serietà e impegno, hanno fondato una famiglia e hanno programmato obiettivi e progetti per il futuro, ad un tratto vengono privati delle loro sicurezze, delle loro aspettative; costretti a vivere giorno per giorno in un presente precario, non potendo minimamente prevedere cosa riserverà il futuro a loro e ai loro figli...
Questo è un film drammatico, coinvolgente, con un finale aperto che consola e in qualche modo toglie allo spettatore "l'amaro in bocca". Dopo urla, litigi, tradimenti, pianti e amarezza, i due protagonisti trovano la forza di riunire le loro vite nell'amore reciproco e di ricominciare a vivere, manifestando la volontà di affrontare con tenacia e determinazione paure e incertezze.