13 aprile 2018

Ettore e Andromaca, l'amore vero (II):

Proseguo le mie traduzioni e le mie riflessioni sull'episodio letterario dell'incontro tra Ettore e Andromaca.
Ritengo giusto però fare un riepilogo sulla parte analizzata venerdì scorso: ad Ettore corre incontro la moglie Andromaca, seguita da una serva che tiene suo figlio in braccio. E' decisamente angosciata, poverina: già reduce di un passato orribilmente tragico, vorrebbe che il marito rimanesse con lei anziché ritornare in battaglia. Quella mia traduzione "Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata di te privata, sprofondare sotto terra" non è molto letterale. E' una frase che ho un po' interpretato, perché Marcello Campolongo traduce semplicemente "Per me sarebbe molto meglio, dopo essere stata privata di te, morire". Io invece ho voluto proprio cercare di rendere nel miglior modo che potevo la disperazione di una giovane moglie e madre impossibilitata a confidare in un futuro felice.
Campolongo continuava poi la traduzione del periodo così: "poiché per me non ci sarà più altro conforto"; e io invece ho fatto in modo completamente diverso: "per me non ci sarà nessun altro che potrà mantenermi in vita con il proprio calore umano." C'era una parola nel testo originale greco, θαλπωρὴ (zalporè), che come primo significato ha "calore". Per questo istintivamente ho pensato al calore umano, a quell'impagabile calore umano che soltanto un uomo dolcissimo ma al contempo molto forte e capace di amare con tutto se stesso ti può dare.
Mi sono fermata al verso numero 439, ora riprendo dal 440. Questa seconda parte verte soprattutto sulla risposta di Ettore.

VV. 440-465:

Vaso greco a figure rosse: Ettore, Andromaca e Astianatte
Allora le disse il grande Ettore dall'elmo abbagliante: " Tutto questo mi preoccupa, moglie mia, ma mi vergognerei terribilmente di fronte ai Troiani e alle Troiane dai lunghi pepli se come un inetto mi tenessi lontano dai combattimenti; né il mio animo può indursi a ciò, dopo che, essendo consapevole della mia grande lealtà e del fatto che io ho sempre combattuto nelle prime file dell'esercito con i Troiani; ho cercato di ottenere una grande gloria sia per mio padre sia per me stesso. Io infatti conosco tutte le tue innumerevoli sventure e le tengo quotidianamente nella mente e nell'animo: verrà un giorno, quando la sacra Ilio verrà distrutta e con essa perirà Priamo e il popolo dalla buona lancia. Ma non mi preoccupa tanto la tragica sorte dei Troiani, né mi preoccupo per la stessa Ecuba né per Priamo sovrano né per i miei fratelli, che pur essendo molti e valorosi cadranno nella polvere sotto i piedi dei nemici, quanto piuttosto sono angosciato per te, quando qualcuno tra gli Achei dalla corazza di bronzo ti trascinerà via piangente, privandoti così della libertà. E vivendo ad Argo tesserai il telaio per un'altra e porterai acqua dalla fonte Messeide o dell'Ipereia, controvoglia. Un grave destino ti opprimerà e qualcuno, nel vederti in lacrime, dirà: "ecco l'amata donna di Ettore, che era il migliore a combattere fra i Troiani domatori di cavalli, quando combattevano ad Ilio." Così qualcuno ti dirà, e per te il dolore sarà raddoppiato, a causa della mancanza dell'unico uomo che avrebbe potuto proteggerti ogni giorno dalla schiavitù. Ma la terra versata sopra il mio cadavere possa coprirmi prima che io senta le tue urla disperate."

Preciso ancora che Ilio è il nome greco per la città di Troia.
E' proprio quando leggo questo punto del loro dialogo che scoppio a piangere. 
Cioè, gli tocca tornare in battaglia e dire addio alla moglie per colpa delle convenzioni sociali e militari vigenti nella Grecia arcaica... Gli tocca morire e lasciare che Andromaca venga catturata e ridotta in schiavitù da qualche acheo. 
Ma perché riesco a immedesimarmi così tanto nel dolore dei personaggi dei libri che leggo e che studio?
Comunque, quel che soprattutto mi chiedo è: se Omero (ammesso sempre che sia davvero esistito) avesse deciso di far rimanere Ettore all'interno della città con la moglie e il figlio, cosa gli sarebbe successo?? Innanzitutto, credo che come minimo i Troiani lo avrebbero fatto allontanare dalla città. 
E sarebbe stato oltremodo disonorevole, dal momento che egli era il principe di Troia, valorosissimo combattente. Ma i Troiani, con o senza Ettore, avrebbero comunque perso la guerra. 
La vittoria achea era già stata prestabilita da alcune divinità, come Atena.
Nella Grecia arcaica l'uomo non può far nulla contro il destino.
Deve solo accettarlo, non deve affatto pretendere di poterlo cambiare o di poter posticipare la morte. Deve accettare di essere sottomesso a degli dei che governano non soltanto il mondo ma anche le vite dei mortali.

In questo discorso Ettore sembra più un profeta che un guerriero: predice la schiavitù della giovane moglie, la sconfitta troiana, la morte dei fratelli, la rovina di suo padre Priamo, re di Troia.
D'altra parte dovete pensare che "profeta" deriva da due parole greche: dalla preposizione "πρό" (pro), "prima" e dal verbo "φαìνω" (fàino), "manifestarsi, apparire." Il profeta "vede" ciò che accadrà in futuro, e lo scorge prima degli altri. L'avvenire quindi, gli appare chiaro nella mente ancora prima che divenga presente.
L'epifania, la cui ricorrenza cade sempre il 6 gennaio, è anch'essa una manifestazione. Però, poco prima di φαìνω c'è la preposizione "ἐπί" (epì), "davanti". L'epifania è la rivelazione della venuta al mondo di Gesù ai re magi, nobili ed eleganti stranieri che hanno modo di stargli dinanzi mentre lo visitano e lo onorano con i loro doni. E inoltre, il dono di Dio all'umanità si manifesta dinanzi a loro.
Ma ciò che preoccupa maggiormente Ettore è proprio il tristissimo destino di Andromaca: la sconfitta troiana distruggerà inevitabilmente la famiglia e il nido d'amore che con lei ha costruito. E' questa la spina molto appuntita che ferisce il cuore dell'eroe: l'umiliazione di Andromaca, che da principessa diverrà una serva.
Ettore le dice: "... per te il dolore sarà raddoppiato a causa della mancanza dell'unico uomo che avrebbe potuto proteggerti ogni giorno dalla schiavitù". 
La parola per mancanza in greco omerico è χῆτος (chètos). Però questo è un nominativo singolare, mentre nel testo c'è il dativo singolare χήτεϊ (chètei). Da cui anche il verbo χατω (catèo), "mancare, aver bisogno".

Se uscite da uno scientifico, da un linguistico o da un classico sicuramente ricordate che il latino ha sei casi, e che l'ablativo corrisponde a molti dei complementi indiretti italiani (causa, fine, mezzo, strumento, modo, tempo). In greco antico l'ablativo non esiste, perché tutte le sue funzioni le assolve il dativo. E questo è un dativo di causa: "soffrirai per la mancanza", si poteva anche tradurre.
Quindi, è come se il marito le dicesse: "Sentirai il bisogno di avermi al tuo fianco, ma io non ci sarò più. E la tua vita con me non potrà mai più essere rivissuta."
Oltre a perdere la sua condizione di donna nobile e libera, Andromaca soffrirà il dolore della perdita e la nostalgia. Sapete da dove deriva il termine "nostalgia"? Da due parole greche, e questo ce lo insegna l'Odissea: "νόστoς" (nòstos) "ritorno" + "ἄλγος" (àlgos), "dolore". Dunque, il dolore causato dal desiderio di ritornare in un luogo in cui non sei e in cui magari hai lasciato tutti i tuoi affetti e i tuoi legami familiari. I nostri immigrati provano "il dolore causato dalla distanza e dalla lontananza", un dolore che quasi quasi ti fa venire voglia di ritornare per riabbracciare i parenti che hai lasciato. Come Remòn, nel libro della Barra. Ma non puoi tornare giù nella miseria, perché sei in cerca di una vita economica più dignitosa.
"Mancanza" e "nostalgia" sono sinonimi? Più o meno. Anzi, dipende dai contesti. La prima parola indica il bisogno di qualcuno o di qualcosa, la seconda invece fa riferimento più a uno stato psicologico di tristezza collegata a un desiderio.
Se ho scritto che la somiglianza tra "mancanza" e "nostalgia" dipende dai contesti è perché bisogna considerare queste differenze:

A1) "Mi manca mia mamma". = Ho bisogno di parlare con una persona che in questo momento non c'è  .
A2) "Mi manca un ombrello". = E' molto nuvoloso qui fuori, mi trovo all'aperto, è probabile che cominci a piovere ma non ho portato l'ombrello e ne avrei bisogno.
 
B1) "Ho nostalgia di casa". = vorrei essere dove non sono ora. Mi manca questo ambiente.
B2) "La nostalgia dell'infanzia è tipica di molti" . = Se potessi avere una macchina del tempo, tornerei volentieri indietro all'epoca delle elementari e delle medie, per quel che mi riguarda.

C'è una tragedia di Euripide, intitolata proprio "Andromaca", in cui la giovane donna risulta la protagonista: vedova e privata del figlio, si trova nella condizione di concubina a casa di Neottòlemo, guerriero acheo. Da Neottòlemo ha avuto un altro figlio. Neottòlemo non la tratta mai male, anzi la ama più di come ama sua moglie Ermione, bellissima figlia di Elena ma sterile. Però il dramma sta soprattutto nel fatto che Ermione odia Andromaca, al punto tale che progetta di ucciderla.
"Ma la terra versata sopra il mio cadavere possa coprirmi prima che io senta le tue urla disperate."
Ettore ama talmente tanto sua moglie che desidera essere seppellito ancora prima di sentire il suo pianto disperato.  E così poi, nel ventiquattresimo e ultimo canto dell'Iliade, avviene. 
Priamo si reca alla tenda di Achille per ritirare il cadavere di Ettore, in modo tale da poter celebrare una cerimonia funebre con il suo popolo. Dopo averlo ottenuto, lo fa trasportare in città. E anche qui troviamo Andromaca che parla al cadavere piangendo: " Oh sposo, troppo giovane lasci la vita e me vedova nella tua casa abbandoni: non parla ancora il bambino che generammo tu ed io, disgraziati, e non penso che verrà a giovinezza, Prima la città intera sarà distrutta, perché tu sei morto, il suo difensore, tu che la proteggevi, salvavi le spose e i figli piccoli." (...)

Compianto sul corpo di Ettore
Ettore ama Andromaca con tutto se stesso, eppure loro due, forse poco più che ventenni, non hanno più futuro insieme. Perché guerra, odio, violenza e crudeltà del destino li divide. 
Anche in questa parte del dialogo compare il concetto di κλέος (clèos), ovvero; gloria, fama, notorietà. La notorietà che si ottiene nell'affrontare con ardimento le battaglie, per farsi onore di fronte ai propri compagni d'esercito. La κλέος εὐρύ (clèos eurù) è "la fama larga e diffusa".

Facciamo ora una breve riflessione linguistica sul punto in cui Ettore dice: "un grave destino ti opprimerà".  Per "destino" qui c'è la parola ἀνάγκη (anànche), derivata dal verbo ἀναγκάζω (anancàzo), il cui primo significato è "costringere"
Ci sono diversi termini in greco antico che indicano la sorte e il destino, ma tutti quanti costituiscono delle diverse sfumature di significato. 
Aνάγκη contiene la sfumatura di "costrizione, destino ineluttabile". E in questo contesto è dunque una parola molto idonea perché allude al probabile destino di Andromaca: in condizione di schiavitù una persona vive nella costrizione di dover fare delle cose che, se fosse libera, non farebbe di certo. 
Le schiave dei guerrieri non erano soltanto dedite alla tessitura e ai lavori domestici, ma abbastanza spesso venivano anche costrette a rapporti sessuali con il loro padrone. 
C'erano casi in cui il padrone si innamorava davvero di loro, e altri invece in cui si divertiva a opprimere e a violare la loro corporeità. In fin dei conti, le "parentele a cespuglio" esistevano già alcuni secoli prima di Cristo. Gli uomini greci potevano servirsi sessualmente di tutte le donne che volevano: della moglie (molto spesso una ragazzina), delle schiave, delle prostitute. E risultavano dunque spesso"pieni di figli".

C'è un epiteto curioso all'inizio del discorso di Ettore, attribuito alla componente femminile della popolazione troiana: "Troiane dai lunghi pepli ".  
Il peplo era il tipico abito femminile dell'epoca. Lo testimonia anche la statuaria greca:

La κόρη (kòre), in greco, è la "ragazza giovane, nel fiore degli anni". Le κόραι (kòrai),  plurale, nella scultura del VII° secolo a.C., erano sempre raffigurate frontalmente, con capelli lunghi pettinati a piccole trecce e con un peplo aderente alla forma fisica.

VV. 466-481:

Dopo aver detto questo il glorioso Ettore tese le braccia verso il bambino ma l'infante si ritrasse gridando sul petto della balia dalla bella cintura, dal momento che l'aspetto del padre lo impauriva, e temeva il bronzo e il cimiero dalla equina criniera, che vedeva ondeggiare spaventoso dalla cima dell'elmo. Il caro padre rise teneramente e anche la nobile madre e subito dal capo il fulgido Ettore si tolse l'elmo, lo depose a terra tutto risplendente e poi baciò il caro figlio e dopo che lo sollevò tra le braccia disse, invocando Zeus e tutti gli altri dei: "Zeus e tutti gli dei, fate in modo che questo mio figlio cresca così come me, il più valoroso fra i Troiani, così,  forte e valoroso e regni su Ilio e qualcuno possa dire un giorno: "è molto più valoroso del padre", quando tornerà dalla battaglia. Porti egli le spoglie d'armi cruente del terribile nemico abbattuto, e l'animo della madre si rallegri nell'udire e nel vedere ciò".

Ora magari vi chiederete: ma se un attimo prima ha predetto distruzioni, morti e rovine, perché ora si augura che suo figlio cresca e divenga valoroso e coraggioso in battaglia? 
L'animo umano è complicato, ma credo che Ettore pronunci questo augurio a causa di un attimo di serenità e di ottimismo che l'innocenza del figlioletto gli infonde, quell'innocenza incontaminata dalla guerra che non ha ancora consapevolezza della morte.
Per un padre, per un vero padre; il figlio è il futuro della famiglia, è la creatura che nei primi anni di vita va protetta ed educata per assicurarle un avvenire il più possibile sereno.
L'espressione: "ἐκ δ᾽ ἐγέλασσε" (èx d'egèlasse) significa "e ne rise". Il "teneramente" l'ho aggiunto io. Perché effettivamente fa tenerezza un bambino molto piccolo che mostra reazioni di spavento di fronte alla figura tutta ricoperta da elmi e armature.
E anche questo punto del canto sesto è molto dolce e lo rende tale il dativo plurale χερσὶν (chersìn) da χείρ (chèir), "mano". Qui andavano bene sia "lo strinse tra le mani" sia "lo sollevò tra le braccia".

L'eroe si augura che il figlio divenga re di Troia e che possa essere un combattente di grande abilità e valore, ammirato da tutti.
In realtà, purtroppo non avviene così: Astianatte, poco dopo la fine della guerra, viene gettato giù dalle mura di Troia, mentre la madre viene caricata su una nave con le altre donne troiane, dirette verso un paese in cui saranno soltanto schiave. Il nome del bambino, che tradotto dal greco all'italiano significa "signore della città", sembra quasi un nome dato per antìfrasi: il suo significato non corrisponde al suo destino e al suo essere.

VV. 482-496:

Dopo aver parlato così, mise tra le braccia dell'amata sposa suo figlio: lei lo strinse al petto per farlo addormentare, sorridendo tra le lacrime; il marito si intenerì nel guardarla, con una mano la accarezzò e le disse: "Poverina, non angosciarti troppo per me nel tuo animo: nessuno infatti potrebbe gettarmi nell'Ade contro il volere divino; io penso sicuramente che nessuno tra gli uomini possa sfuggire alla morte, né il vile, né il valoroso, una volta nato. Ma ora ritorna a casa e attendi alle tue faccende, al telaio e al pennecchio e ordina alle ancelle che anch'esse si mettano al lavoro; la guerra è cosa da uomini, soprattutto mia.
Dopo aver detto ciò il glorioso Ettore riprese l'elmo dalla coda equina; mentre la sua amata sposa si dirigeva verso casa voltandosi spesso indietro, e continuando a versare molte lacrime.

Notate intanto che ho evidenziato il gesto di affetto dell'eroe verso la moglie. Questo perché non credo sia stato l'unico in tutto il dialogo tra di loro. La letteratura e l'epica sono finzioni: sono resi bene i sentimenti umani e la psicologia interiore ma c'è sempre qualcosa che manca in un racconto. Mai è resa perfettamente bene la realtà delle relazioni in un'opera letteraria, ci sono in ogni caso dei dettagli o dei particolari importanti omessi, non specificati. Proprio come questi.
Non credo che questo dialogo sia avvenuto in modo lineare come qui è riportato, senza interruzioni di abbracci.
La parola che Ettore pronuncia per definire la moglie "poverina!" è di nuovo "δαιμονίη", come lei, all'inizio del dialogo, aveva detto ad Ettore. Ma qui le uniche traduzioni possibili sono "sventurata" e "infelice". Io ho preferito il "poverina", per attribuire all'eroe l'esternazione della compassione verso di lei.
Per "morte" qui c'è la parola "μοῖραν" (mòiran), all'accusativo singolare. La μοῖρα è letteralmente, sul dizionario "la parte di vita assegnata a ciascun essere umano".
Le tre Moire, figure mitologiche greche, erano divinità che costituivano delle personificazioni del destino ineluttabile. Il loro compito era tessere il filo del destino di ogni uomo, svolgerlo ed infine reciderlo segnandone la morte.
Nella variante del greco attico, per "parte, porzione" è molto più diffuso il termine μέρος (mèros).

Bene, questi erano 104 versi tradotti e commentati...  
Non ancora del tutto soddisfatta di questo gran lavoro che ho revisionato più volte prima di copiare qui, ho voluto attribuire in greco degli aggettivi che definissero bene il carattere dei due protagonisti di questa parte. Per poterlo fare, ho inserito una tabella:





ETTORE


Ἀγαθός
(agatòs)
“buono”
Ἀνδρεῖος
(andrèios)
“coraggioso, valoroso in battaglia”
Μεγαλόθυμος
(megalòtimos)
“di animo generoso”


ANDROMACA


Πιστή
(pistè)
“fedele”
Καθαρή
(katarè)
“limpida e pura nei suoi sentimenti”
Αἰσθητική
(aistetichè)
“sensibile, madre tenera”.



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