27 agosto 2018

"Il quartiere", Vasco Pratolini:


Questo romanzo è di tutt'altro stile rispetto a Palomar.
Stavolta però la mia modalità di svolgimento della recensione è diversa: parto dalla vita dell'autore per poi delineare le caratteristiche sia del protagonista del romanzo sia di altri personaggi a lui vicini.
Infine, concludo il post con alcune considerazioni sullo stile di vita del proletariato urbano degli anni '30.

1. BIOGRAFIA DI PRATOLINI:

Non è molto conosciuto; ma dal punto di vista letterario è stato operativo nella prima metà del Novecento.
Nato all'inizio del secolo scorso, nel '13, ha trascorso infanzia e adolescenza in un quartiere povero di Firenze e ha avuto una vita piuttosto travagliata, sin dall'inizio: a cinque anni era già orfano di madre, mentre il padre era combattente in guerra.
Ben presto aveva dovuto interrompere gli studi a causa di serie difficoltà economiche.
Da allora però, oltre al suo umile lavoro di garzone di bottega, era stato in grado di ritagliarsi alcuni momenti della giornata in cui poter leggere opere letterarie di valore: si trattava per lo più di scritti di Dante, Manzoni, Dickens e Jack London.
Nel corso degli anni '30 aveva conosciuto Elio Vittorini e il gruppo dei poeti ermetici.
Nel '39 si era trasferito a Roma dove, durante la guerra, aveva partecipato alla lotta partigiana.
A partire dal '45 aveva iniziato a insegnare Lettere in un Istituto d'Arte.
E' morto nel '91.
Si ritiene che l'opera più importante di Pratolini sia il romanzo Metello, in cui vengono narrate le vicende sentimentali di un giovane muratore fiorentino, che pian piano, nel corso della storia, acquisisce anche una coscienza di classe.

Tuttavia, io credo che nel romanzo Il quartiere, l'autore abbia voluto rappresentare una realtà che egli stesso aveva vissuto durante il periodo della prima giovinezza.
Valerio infatti, narratore delle vicende, vive una situazione familiare ed economica molto simile a quella dello scrittore. 
Valerio è il narratore, come dicevo prima, ma un narratore particolare: conosce le storie delle famiglie del quartiere e dei ragazzi che frequenta e le racconta attraverso digressioni abbastanza ampie e piacevoli. Ecco il motivo per cui egli non è mai al centro dell'attenzione nel corso degli sviluppi della storia.
 
2. VALERIO:

In uno dei suoi volumi di letteratura italiana Roberto Carnero, a proposito di questa figura, scrive:
" (...) Più che la vicenda di un singolo personaggio conta la collettività del quartiere che viene rappresentata nell'opera: Valerio (...) non è un vero e proprio protagonista, ma soltanto la voce che narra in prima persona esprimendo i sentimenti, le aspettative, le preoccupazioni, i turbamenti della gente che gli sta intorno."

Il romanzo è ambientato negli anni '30: inizia nel 1932, quando Valerio ha 15 anni e termina nel 1938, quando ne ha 21.
L'ambientazione è piuttosto statica: si tratta infatti di un povero quartiere di Firenze, all'interno del quale si dipanano le esperienze di un gruppo di adolescenti amici tra di loro.
I ragazzi svolgono una vita umile e lavori onesti (sono magazzinieri, commessi, operai, camerieri, segretari).
Alla loro vita quotidiana si intrecciano anche alcuni eventi storici dell'Italia fascista: la guerra d'Etiopia induce i ragazzi ad acquisire una coscienza politica e a prendere delle posizioni riguardo alla dittatura.

Valerio, come l'autore, è rimasto precocemente orfano di madre e dunque si trova costretto a lavorare in un magazzino per far fronte alle esigenze economiche quotidiane.
Egli, oltre a delineare il buon rapporto che nel corso degli anni instaura e mantiene con alcuni amici, svela molto anche delle sue vicende sentimentali.
A 20 anni ha già due storie d'amore fallite alle spalle: la prima con Marisa e la seconda con Olga.

La storia con Marisa era caratterizzata soprattutto da erotismo e passionalità.
Ma, almeno da parte di Valerio, non sembra mai esserci stato un amore sincero.
In alcuni punti il narratore lo esplicita:

" (...) soffocavamo  bocca contro bocca la nostra amorosa vitalità. Ma l'intimità di cui abusavamo, invece di legarmi a Marisa, lentamente mi distaccava da lei. Marisa era sempre docile e cara, ma qualcosa sui cui io avevo creduto poggiare il mio affetto oscillava sotto i miei piedi: non v'era più nulla di segreto che essa mi potesse svelare. Ora capivo che avevo creduto di amarla per il suo sperperato donarmisi corpo e anima. (...) Io non le avevo dato nulla di mio, non avevo partecipato a quello scambio inesausto e ineffabile che è l'amore partecipato e corrisposto (...)"

Marisa, coetanea di Valerio, dopo la fine della loro storia va incontro ad un destino tristissimo: fidanzatasi con Carlo, un altro dei ragazzi del quartiere, diviene vedova a soli 20 anni.
Il ragazzo infatti, volontario nella guerra coloniale d'Etiopia del '35, ritorna gravemente ferito e contrae le nozze in punto di morte.

 Olga invece viene "sublimata". Valerio, nei primi tempi del fidanzamento, non osa toccarla per paura di "guastarla". Gli sembra di stare accanto a un angelo del Paradiso:

"Olga era bella ai miei occhi come la più bella creatura della terra. Vicino a lei la mia fantasia trovava le immagini più umili e caste; sentivo la sua figura al mio fianco  un po' restia e quasi in continuo allarme, e questo suo atteggiamento me la rendeva più cara. Io temevo, toccandola, di poterla sciupare. Era veramente come se avessi una cosa preziosa nelle mani, da riparare nel cavo con tutta la trepidazione e l'affetto di cui fossi capace."

Purtroppo però, questo romanticismo e questo sentimento ardente sfociano in un dolore atroce, davvero duro da sopportare: una notte, la madre di Olga, vedova che nel frattempo si era risposata e si era trasferita a Milano, scende da una carrozza per prendere la figlia e portarla a vivere con lei.
Tutto questo mentre Valerio già coltivava dei progetti di matrimonio con una ragazzina di soli 15 anni.
Provate a immaginare l'immenso dolore di questo ragazzo!!
Dopo due anni di servizio militare a Roma, Valerio ritorna nel quartiere, senza aver dimenticato del tutto Olga.
Olga resta sempre "il suo Amore" con la A maiuscola.

3. ALTRE FIGURE MASCHILI DEL ROMANZO:

Sono le altre tre giovanissime figure maschili che alle spalle portano il peso di storie molto tristi.

CARLO:

Carlo, nato nel 1915, è orfano di un padre che è morto in guerra. Nel punto in cui si racconta la storia di questo ragazzino, il tono narrativo di Pratolini diviene quasi lirico:

(parte di testo riferita alla madre di Carlo) "C'era una ragazza giovane e sola, con una casa vuota, un letto troppo grande per sé e i suoi ragazzi, un cuore stretto dalla delusione e gli occhi degli uomini addosso. Cose antiche quanto l'Iliade di Omero, quanto il sanscrito."

Sì ma...  nell'Iliade, Andromaca voleva una vita intera con Ettore.
Separata dal suo marito-eroe a causa di una lunga e sanguinosa guerra, sarebbe volentieri rimasta all'interno della sua reggia con le serve e il figlio neonato, se gli Achei non l'avessero ridotta in schiavitù.
Andromaca era una ragazza dai sentimenti forti, quindi probabilmente sarebbe stata fedele ad Ettore anche una volta divenuta vedova. E non avrebbe mai amato un altro uomo come amava Ettore.
Anzi, non avrebbe mai accettato volentieri un secondo matrimonio.

Invece la madre di Carlo si era presto trovata degli amanti.

"La madre rientrava tardi la sera, e un uomo la seguiva mentre traversava furtiva il salotto ove riposavano i due figlioli. Carlo imparò a vegliare origliando suo malgrado, attraverso il muro, nella camera della madre. La guardava risentito al mattino. E col tempo (siccome egli era un ragazzo desto e sensibile) l'oscura rappresentazione al di là del muro gli accese di naturali istinti la carne. Penetrato il senso delle cose egli trascorreva la notte in ascolto: riversò sul proprio corpo l'angoscia che lo sconvolgeva, all'unisono coi convulsi e i sussurri della madre e dell'uomo. Una muta avversità si generò tra madre e figlio, chiuso ciascuno nella propria ostinazione, nel proprio silenzio".

Carlo viene definito dai compagni di giochi un ragazzo astioso e cinico.
A me è sembrato più che altro un adolescente che vive il proprio dolore con risentimento.
Si sente solo; nel corso delle vicende la sua condizione esistenziale di solitudine lo accompagna costantemente.
E' arrabbiato con il mondo, fatica ad accettare la sua condizione di povero proletario e di fanciullo non amato, dunque per questo, nel pieno della sua età evolutiva, si dimostra frequentemente irritabile e scontroso.
Però non è affatto cattivo: è, come dice Valerio, abbastanza sensibile, e anche piuttosto sveglio perché cerca di comprendere le dinamiche della situazione politica italiana ed è l'unico membro della compagnia che si chiede: "Ma che cosa c'è al di là di questo quartiere?"

GINO:

Le vicende familiari ed esistenziali di Gino non sono tristi, sono tragiche. Anzi, catastrofiche!
La sua infanzia si è consumata tra le violenze domestiche, tra gli incivili e terribili litigi dei genitori.
Ma, come potete facilmente intuire, Gino e sua madre erano vittime di un padre-bestia:

"Da quando ho avuto coscienza di avere occhi e ritenere immagini, se non pensieri, ho visto la faccia vermiglia di mio padre accanirsi su mia madre e colpirla con le grosse mani. Si toglieva la cinghia dei calzoni e la faceva ricadere a mulinello sulla poveretta. Da quando ho memoria delle sensazioni fisiche, ricordo gli schiaffi infertimi per un nonnulla da mio padre, che mi toglievano per alcuni istanti la vista e mi annichilivano di dolore e di paura."

Questo scrive Gino in una lettera indirizzata all'amico Giorgio, mentre si trova in carcere.
Gino purtroppo non era benvoluto nemmeno dalla madre.
Quando entrambi i genitori erano morti, Gino era stato mandato a vivere a Roma da una sorellastra al di fuori del quartiere, per poter studiare. Era venuto a contatto con una vita agiata, con persone ricche e facoltose, fino al punto in cui era diventato un giovane senza scrupoli, dissoluto e attaccato al denaro.
Era arrivato addirittura a uccidere un uomo per avidità di denaro. E, quel che mette i brividi al lettore, dopo l'omicidio, è che Gino non prova alcun genere di rimorso per ciò che ha commesso.

GIORGIO:

Anche le condizioni della famiglia di Giorgio non sono affatto tra le più felici.
Giorgio è il ragazzo più buono, più calmo e più pacifico della compagnia.
E' una specie di leader che spesso induce gli altri membri della compagnia a riflettere.

"Giorgio era nato al Canto delle Rondini, nel cuore del nostro Quartiere. Egli aveva abitato, ragazzo, un ultimo piano: fu l'unico di noi a godersi il cielo aperto ad ogni risveglio. Forse per questo i suoi occhi erano celesti".

Il fatto che un personaggio sia spesso a contatto visivo con il cielo; questo solitamente in letteratura indica la sua naturale inclinazione al bene.
Giorgio aveva un ottimo rapporto con la figura paterna; i due vengono descritti come grandi amici.
Però, un brutto giorno, la polizia era entrata nella loro casa e aveva arrestato il padre.
Al momento del triste evento, Giorgio aveva appena 14 anni, dunque, era stato costretto a interrompere gli studi e andare a lavorare.

4. FIGURE FEMMINILI:

All'interno del romanzo non vanno assolutamente tralasciate delle ragazze che compiono un percorso di formazione umana davvero molto positivo.

MARISA:

Marisa, come dicevo sopra, era stata la prima vera fidanzata di Valerio. Ecco come il narratore la descrive all'inizio del loro primo incontro:

"Marisa fu puntuale. Il suo volto mi parve meglio dipinto con cipria e rossetto. Non aveva più il fermaglio sulla tempia; ed i capelli, pettinati indietro, le scoprivano la fronte tagliata da una piccola vena azzurra che partiva di mezzo alle sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli. Si poteva immaginare la sua carne raccolta nel proprio tepore, sotto i risvolti di pelliccia."

Nel corso della prima parte del libro i coetanei di Marisa, pur riconoscendo la sua bontà e la sua sensibilità, si rivelano incapaci di amarla davvero.
Marisa si getta a capofitto delle relazioni, desiderosa di condividere i propri stati d'animo con gli altri.
All'inizio è una ragazzina troppo precipitosa e troppo disinvolta in amore, è inquieta e perennemente alla ricerca di affetto; alla fine invece diviene proprio una giovane di solida levatura morale e di grande forza: sorride, lavora, apprezza le piccole cose del quotidiano... Nonostante la guerra d'Etiopia le abbia portato via per sempre il fratello e il fidanzato.

OLGA: 

Olga è la più piccola del gruppo.
La storia d'amore con Valerio inizia quando lei ha 15 anni, ma il lettore intuisce facilmente che il narratore inizia a provare interesse per lei molto prima.
Quando è ancora bambina, la descrive sempre con parole delicate e tenere:

"Con una serietà che le si addice come un vezzo, Olga si reca al mercato e nei negozi. Non penetrano la sua ingenuità gli ammiccamenti dei garzoni: le donne le porgono gli involti se essa non arriva al banco con il suo braccino teso."

Olga però non ricambia sufficientemente il grande affetto di Valerio. D'altra parte, è poco più che una bambina!
Segue la madre a Milano, senza fare troppe resistenze e senza particolari rimpianti verso la vita del quartiere.
 
MARIA:

E' la ragazza che ha la grande fortuna di divenire moglie di Giorgio.
Maria, orfana di padre, compie proprio un bel percorso di formazione: da adolescente frivola e un po' superficiale diviene una donna vera, moglie fedele e, a 24 anni, già madre felice di due figli.

Nei primi capitoli è definita dagli abitanti del quartiere una poco di buono: una signorina troppo truccata, troppo attenta al suo aspetto fisico e "piena di merli che le girano intorno".

Questa ragazza ha il pregio di essere sempre sincera e autentica nei suoi sentimenti:

"Maria era ritta vicino al tavolo, guardava la propria immagine riflessa nello specchio della credenza. Una serena certezza nasceva in lei. Come sciogliendosi dalle funi che sembravano averla stretta in quei giorni, risentiva libere le sue membra; disposta a Giorgio con un sentimento spontaneo sorgente dal profondo (...)"

Grazie alla maturità e alla dolcezza di Giorgio, Maria cresce in semplicità e modestia, anche se non smette mai di essere al centro dei pettegolezzi della gente del quartiere, che nel periodo del fidanzamento ufficiale con Giorgio farneticano invano a proposito di una sua gravidanza pre-matrimoniale, cosa ritenuta scandalosa all'epoca.

Il matrimonio tra Giorgio e Maria avviene nell'aprile del 1934.
Maria appare pallida e addolorata quando, pochi mesi dopo il matrimonio, suo marito deve allontanarsi a causa del servizio militare obbligatorio.
Ma la triste realtà della storia è che purtroppo Giorgio non riesce a conoscere i suoi due figli; prima perché in servizio di leva e poi perché viene arrestato in quanto anti-fascista.
Maria trascorre i periodi delle due gravidanze da sola, con pochi aiuti.

IL PROLETARIATO URBANO DEGLI ANNI '30:

Chiunque, durante la lettura di quest'opera di Pratolini, potrebbe esclamare: "Com'era diversa la gioventù di 80 anni fa!"
E infatti, si tratta di un mondo completamente diverso dal nostro, dove lo strumento più tecnologico era la radio.
Io ho avuto il mio primo cellulare a 13 anni e il mio primo smartphone a 16 e, vi dico la verità, faccio molta fatica a concepire il mondo senza internet e senza wi-fi.
La vita in alcuni quartieri urbani nella prima metà del Novecento era davvero difficile, i ragazzi non potevano permettersi di studiare sia a causa di difficoltà economiche sia perché spesso in famiglia mancava un genitore. E quindi, sin dalla prima adolescenza, accettavano la fatica di un lavoro in genere sottopagato. Non vivevano certo nel benessere come noi!!
Eppure, al di là del loro livello culturale, mi sono tutti sembrati molto più maturi dei giovani di adesso.
In questo romanzo, Pratolini descrive dei ragazzi onesti che già a 19 anni coltivano e realizzano progetti di matrimonio (Giorgio e Maria si sposano diciannovenni, idem per gli sventurati Carlo e Marisa), delle ragazze che alla mia età si scoprivano incinte del secondo figlio, dei giovani che nei giorni feriali lavorano con impegno e che tutte le domeniche pomeriggio si ritrovano per chiacchierare, ballare, cantare...
I giovani di Pratolini a 19 anni sono già "uomini", nel senso che appaiono già molto maturi e responsabili, appena terminata la fase della loro crescita.
Non immaginate le ragazze come dedite esclusivamente ai lavori domestici e al ricamo: in questo romanzo Marisa lavora come commessa in un negozio, Olga, all'interno di una fabbrica, aveva il compito di incartare cioccolatini e Maria invece era impiegata in una modisteria, negozio artigianale dell'epoca in cui si fabbricavano oggetti per donne.
Quello del proletariato urbano era un mondo con dei valori ai quali la gente credeva per davvero: l'impegno sul posto di lavoro, la dedizione per la cura della casa e per la famiglia, la lealtà verso gli amici, la sana semplicità dello stile di vita, la generosità verso il prossimo (il poco cibo che era a disposizione veniva suddiviso tra famiglie).

Certo è vero, Gino non ha assimilato tali valori, ma questo perché la sua famiglia di origine gli ha fatto conoscere il male e la cattiveria troppo presto.
Le famiglie di Giorgio, Valerio, Marisa e Maria, seppur economicamente povere, culturalmente limitate e non certo tra le più felici a causa della mancanza di un membro importante, sono dotate di calore umano: in queste famiglie si dialoga con i figli anche dopo una pesante giornata di lavoro, non c'è quindi conflitto generazionale.

I giovani del quartiere non hanno grandi aspirazioni: desiderano soltanto delle "oneste gioie": una casa, un lavoro e una famiglia.
Però, certe circostanze esterne come il servizio militare e la politica coloniale fascista costringono buona parte dei personaggi a spostarsi, loro malgrado, dall'ambiente natale.






24 agosto 2018

"Palomar", Italo Calvino:

Ho letto un bel po' durante quest'ultimo periodo.

Una delle mie letture più recenti è stata proprio Palomar, ultimo romanzo di Calvino, pubblicato nell'83. 
Si tratta della sua ultima opera che ci è giunta di testo completo.
L'ultimo suo scritto infatti, le Lezioni americane, saggio riguardante i metodi di scrittura pubblicato postumo nel 1988, manca di un capitolo. 
L'intenzione di Calvino era quella di scriverne 6 di capitoli ma poi, a causa della sua improvvisa scomparsa, le lezioni sono rimaste cinque.  

Palomar è un'opera molto particolare, non caratterizzata da una vera e propria trama durante la quale si sviluppano le vicende narrate.
Palomar è un misto di minuziose descrizioni, di elaborate riflessioni sulla condizione umana, di viaggi, di esperienze visive e uditive.

IL MOTIVO DEL TITOLO:
Ritengo utile chiarire le varie sfumature di significato del titolo.
Partiamo innanzitutto dal fatto che Palomar è il nome del protagonista e che, sebbene questo nome in spagnolo significhi "colombaia"; ciò non ha nulla a che vedere né con i contenuti del romanzo né con le intenzioni dello scrittore.
Dunque, risulta decisamente più opportuno collegare questo titolo all'osservatorio astronomico californiano del Monte Palomar. In questo luogo l'astronomo Edwin Hubble aveva compiuto le sue osservazioni per poter catalogare i diversi tipi di galassie.
E' inoltre possibile istituire un'associazione mentale con il termine "palombaro": l'atteggiamento del protagonista, grande e attento osservatore delle realtà che lo circondano, risulta simile al mestiere del palombaro che "si immerge nella superficie".
Le osservazioni e i pensieri di Palomar, uomo di mezza età, vengono raccontati dall'autore in terza persona con un frequente utilizzo del tempo presente.
E' bene inoltre precisare che questo personaggio risulta attratto dall'astronomia: attraverso un telescopio osserva i pianeti e i loro satelliti e persino quando si trova in vacanza sul lungomare si interroga sulle fasi lunari e sul percorso del sole.
Osservatorio astronomico "Palomar"
STRUTTURA DELL'INDICE E PARTI DELL'OPERA:
Le cifre 1,2,3, che numerano i titoli dell'indice, corrispondono a tre tipi di esperienze diverse presenti nel libro: gli uno sono tutti riferiti a esperienze visive, delineate con delle descrizioni precise e dettagliate dei fenomeni naturali, i due invece sono relativi a elementi antropologici e culturali nei quali, oltre al senso della vista, sono coinvolti anche simboli e forme di linguaggio, i tre invece corrispondono a esperienze speculative sul cosmo, il tempo, l'infinito e la mente.
Qui dunque, oltre alla descrizione e alla narrazione vi è anche l'aspetto della meditazione.

Il romanzo inizia nel mese di agosto, periodo in cui Palomar si gode le vacanze al mare, tra passeggiate lungo il litorale, nuotate nell'ora del tramonto del sole e osservazioni dei movimenti delle onde.
Diverse pagine dopo lo ritroviamo a casa, in città.
Questo signore però viaggia anche molto: si reca in Messico con un amico per poter conoscere l'arte e le tradizioni delle antiche popolazioni dell'America Centrale, sperimenta le botteghe e le strade dell'India, osserva affascinato le aiuole di sabbia dei musei giapponesi.
E soprattutto, egli medita osservando un cielo molto più grande di lui e interrogandosi sulla vita e sulla morte.
Palomar è sposato, ha una figlia ragazzina alla quale piacciono gli animali esotici e non parla molto, proprio perché è predisposto alla riflessione.

DIVERSITÀ TRA OSSERVAZIONE E CONTEMPLAZIONE:
C'è modo e modo di osservare.
Questo vorrei mettere in evidenza, prima ancora di accennare ad alcune tematiche proposte da Calvino all'interno di quest'opera.
Riporto qui sotto una parte del testo di Calvino ed alcune righe invece che ho scritto io nel mio libro inedito. Così li confronto bene, ma senza alcuna pretesa di diventare una rinomata scrittrice (io non sono affatto brillante come Calvino!!!).
Il primo paragrafo di questo romanzo di Calvino è intitolato Lettura di un'onda, ed è incluso nelle esperienze visive.
Inizia così:
"Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un'onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un'onda e la guarda. Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci vuole un temperamento adatto, uno stato d'animo adatto e un concorso di circostanze esterne adatto: e per quanto il signor Palomar non abbia nulla contro la contemplazione in linea di principio, tuttavia nessuna di quelle tre condizioni si verifica per lui. Infine non sono le onde che lui intende guardare, ma un'onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso.
Il signor Palomar vede spuntare un'onda in lontananza, crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire e rifluire. A questo punto potrebbe convincersi d'aver portato a termine l'operazione che s'era proposto e andarsene. Però isolare un'onda separandola dall'onda che immediatamente la segue e pare che la sospinga e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile, così come separarla dall'onda che la precede e che sembra trascinarsela dietro verso la riva (...)"

Pensieri di una liceale invisibile, inizio capitolo quinto (ordine e contenuti dei capitoli ancora provvisori!):
"Durante il viaggio di andata in autobus sto tutto il tempo appiccicata al finestrino ad ammirare la luce dorata del sole che accarezza immensi campi ricoperti dalla brina.
Se Alex Supertramp avesse avuto la possibilità di farsi un viaggio anche in Italia, chissà come avrebbe descritto bene nel suo diario questa meravigliosa luce di un sole appena sorto che fa brillare le campagne, le foglie secche cadute al suolo e i sottili rami degli alberi!
Canto mentalmente alcune parole della canzone Long nights di Eddie Vedder.
E' una canzone dolcissima che si sente all'inizio del film.
Le parole alludono al concetto di viaggio come opportunità per crescere, maturare e trovare la pace interiore attraverso la meditazione: I'll take this soul that's inside me now, like a brand new friend I'll forever know."


Che differenze notate? Pensateci due minuti prima di leggere qui sotto ;-)

1) In Calvino l'osservazione delle onde appare dettagliata, quasi scientifica: un'onda deve essere rapportata alle altre, dal momento che ad esse è simile ma al contempo diversa. Diversa per ampiezza, altezza e velocità di percorso, simile perché anch'essa, come tutte le altre, è fatta dello stesso colore e come le altre è destinata a svanire e a rifluire.
Palomar è a contatto visivo con il mare in piena estate, la protagonista della mia storia è invece a contatto visivo con un paesaggio di campagna, in pieno autunno.

2) Calvino precisa la differenza tra sguardo e contemplazione. Quello di Palomar infatti è uno sguardo, quello della mia alter ego è invece un'ammirazione della Natura che diviene contemplazione perché quel paesaggio le suscita determinati pensieri e la fa un po' volare con la fantasia. Nel mio caso dunque, al senso della vista, si aggiunge la dimensione mentale del ricordo e della memoria di una canzone.

3) Palomar è fermo sulle rive del mare, è molto vicino al suo oggetto di osservazione. 
Zoe non così tanto, però. Lei si trova su un veicolo in movimento, anche se non sta osservando dei corpi naturali in movimento: i campi sono infatti immobili alla luce del sole. Eppure, anche se di Natura immobile si tratta, a lei sembra quasi che i raggi del sole abbiano un animo benevolo visto che accarezzano "immensi campi ricoperti da brina".
Gli elementi della natura acquisiscono, nel suo immaginario, dei sentimenti.

4) Il linguaggio di Calvino è attento a "catturare" i dettagli delle osservazioni di Palomar. 
Il mio modo di scrivere è semplice e poetico, come potrebbe esserlo quello di un'adolescente.

5) In Calvino il linguaggio è tutto italiano doc. Da me no, c'è anche l'inglese, collegato e integrato con i pensieri prevalentemente italiani di Zoe.

Io tendo a mischiare: contenuti di opere inglesi con opere italiane o latine, il dialetto veneto con l'italiano, la glottologia con la letteratura o con il diritto, la storia della musica con la letteratura, l'arte con la geografia, le lingue classiche con l'archeologia, ricordi con emozioni, natura con immaginazione e sogno... Io tendo a collegare e a intuire. Non sarò mai così oggettiva nell'approccio alle cose, come invece lo è Palomar.

TEMATICHE PRINCIPALI DI PALOMAR:

A) La scarsa interazione con gli altri uomini:
Palomar sembra essere immerso in un proprio mondo senza riuscire a rendere partecipe dei suoi pensieri nessun altro; nemmeno la moglie e la figlia.
Il personaggio appare distaccato e alienato dalla società. Gli scambi di Palomar con gli umani sono rari.
Nel paragrafo Il fischio del merlo, compreso nella seconda parte del romanzo, Palomar comunica praticamente per monosillabi con sua moglie: entrambi si trovano in giardino ad osservare dei merli e Palomar ascolta il loro fischiare.
In questa circostanza allora prende forma il tema del linguaggio come sistema di segni.

"Se l'uomo investisse nel fischio tutto ciò che normalmente affida alla parola, e se il merlo modulasse nel fischio tutto il non-detto della sua condizione d'essere naturale, ecco che sarebbe compiuto il primo passo per colmare la separazione tra... Tra che cosa e che cosa? Natura e cultura? Silenzio e parola? Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. (...) Dopo aver attentamente ascoltato il fischio del merlo, egli prova a ripeterlo più fedelmente che può. Segue un silenzio perplesso, come se il suo messaggio richiedesse un attento esame; poi echeggia un fischio uguale che il signor Palomar non sa se sia una risposta a lui, o la prova che il suo fischio è talmente diverso che i merli non ne sono affatto turbati e riprendono il dialogo tra loro come se nulla fosse."

Palomar riscontra dunque delle difficoltà nell'espressione orale, manifestata nel paragrafo Del mordersi la lingua:
"(...) devo pensare non solo a quel che sto per dire o non dire, ma a tutto ciò che se io dico o non dico sarà detto o non detto da me o dagli altri".

B) Interdipendenza fra singolarità e unità:
Questo emerge in particolar modo nel corso dell'esperienza visiva.
Se quindi un'onda deve essere rapportata ad altre onde, anche un filo d'erba deve essere rapportato ad altri fili d'erba. Lo si desume nel paragrafo Il prato infinito:

"Il prato è un insieme di erbe, che include un sottoinsieme di erbe coltivate e un sottoinsieme di erbe spontanee dette erbacce (...) I due sottoinsiemi a loro volta includono le varie specie, ognuna delle quali è un sottoinsieme, o per meglio dire è un insieme che include il sottoinsieme dei propri appartenenti che appartengono pure al prato e il sottoinsieme degli esterni al prato. (...) E' il prato ciò che noi vediamo oppure vediamo un'erba più un'erba più un'erba?"

La relazione tra insieme e singolarità è visibile anche nel paragrafo L'invasione degli storni:

"Se si sofferma per qualche minuto ad osservare la disposizione degli uccelli uno in rapporto all'altro, il signor Palomar si sente preso in una trama la cui continuità si estende uniforme e senza brecce, come se anche lui facesse parte di questo corpo in movimento composto di centinaia e centinaia di corpi staccati ma il cui insieme costituisce un oggetto unitario, come una nuvola o una colonna di fumo o uno zampillo, qualcosa cioè che pur nella fluidità della sostanza raggiunge una sua solidità nella forma. Ma basta che egli si metta a seguire con lo sguardo un singolo pennuto perché la dissonanza degli elementi riprenda il sopravvento (...)"


CONCEZIONE DELLA CULTURA E RICERCA DI SIGNIFICATI:

Ho trovato molto interessanti i contenuti del paragrafo Serpenti e teschi, incluso nella terza parte del libro.
Palomar si trova in Messico con un amico di origini messicane. Stanno visitando le rovine di Tula, antica capitale del popolo estinto dei Toltechi.
L'amico di Palomar è un esperto conoscitore dell'arte dei Toltechi.
Giungono di fronte al tempio della Stella del Mattino, che in realtà è una piramide a scale.
Mentre Palomar si trova di fronte a sculture e bassorilievi dell'archeologia messicana, nota un gruppo di allievi in visita al tempio accompagnati da un loro insegnante piuttosto giovane il quale, nello spiegare le figure e gli animali contenuti nei fregi della piramide, dice sempre: "Non si sa cosa significhino".
Il protagonista del romanzo nota quindi subito la differenza tra il modo di spiegare dell'amico, ricco di riferimenti mitologici e di interpretazioni originali e l'atteggiamento dell'insegnante, che sembra quasi mancare di vero interesse verso l'arte. 
Eppure, Palomar è affascinato da entrambi.
Relativamente alle modalità di approccio all'arte del maestro, egli pensa:
"Una pietra, una figura, un segno, una parola che ci arrivano isolati dal loro contesto sono solo quella pietra, quella figura, quel segno o parola: possiamo tentare di definirli, di descriverli in quanto tali e basta; se oltre la faccia che presentano a noi essi hanno una faccia nascosta, a noi non è dato saperlo.
Il rifiuto di comprendere più di quello che queste pietre ci mostrano è forse il solo modo possibile per dimostrare rispetto del loro segreto".

Ad un tratto, sia la scolaresca sia i due uomini giungono di fronte a un fregio nel quale vi sono figure di serpenti che tengono in bocca dei teschi.
Mentre il maestro ribadisce che non si sa che cosa voglia dire questa raffigurazione, l'amico di Palomar interviene, dicendo invece che il muro rappresenta una sorta di continuità tra la vita e la morte: i teschi dunque sarebbero la morte, i serpenti invece la vita.
E a quel punto Palomar pensa tra sé: "Che cosa volevano dire morte e vita per i Toltechi?"
Mentre l'insegnante si allontana, dicendo agli allievi: "Ciò che vi ha detto quel signore è sbagliato. Non si sa cosa significhino".

Alla fine di questa avventura, Calvino scrive:"Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare."

Mi sono laureata per "indagare" sulla profondità delle cose.
Per me porsi di fronte ad un testo letterario o ad un'opera d'arte è come indagare su di essi: dopo aver raccolto informazioni sul contesto storico e sul poeta/artista, credo sia legittimo iniziare a "interiorizzare" ciò che è stato rappresentato con le parole o con i colori o con le figure.
E interiorizzare vuol dire proprio interpretare e chiedersi quale potrebbe essere l'essenza profonda di quel prodotto d'arte.
Azzardare delle interpretazioni non è sbagliato, anzi, accentua e stimola l'elasticità mentale.

Il Calvino maturo degli anni '80 accetta e comprende entrambi gli approcci verso la cultura: quello interpretativo che si prefigge di trovare il senso profondo di ogni rappresentazione e quello più letterale, che si limita a descrivere ciò che è raffigurato. D'altra parte, non può esserci interpretazione senza iconografia!

PALOMAR E LA MORTE:

Per concludere ricopio qui sotto delle citazioni verissime e intelligenti dell'ultimo paragrafo del libro, intitolato Come imparare ad essere morto.

"Per prima cosa, non si deve confondere l'essere morto con il non esserci, condizione che occupa anche la sterminata distesa di tempo precedente alla nascita, apparentemente simmetrica a quella altrettanto sconfinata che segue alla morte."

Se non si deve confondere la morte con il non esserci, è anche vero che durante la gravidanza il bambino, anche se non è uscito, esiste eccome, dal momento che si sta formando!
Noi, non dimentichiamolo, non esistiamo a partire dal giorno della nostra nascita, ma già alcuni mesi prima di quel momento. I genitori, ovvero, i primi ad essere consapevoli della nostra futura venuta al mondo, pensano ai migliori preparativi per accoglierci (la stanza, i primi abitini, le coperte...).

Ma prima del concepimento??!! 
"Prima del concepimento esistevi nei pensieri di Dio", mi dicono in famiglia. Stupendo! 
Mi piace considerarmi un progetto che Dio ha sempre pensato di introdurre ad un certo punto delle vite dei miei genitori.

Tenete presente però che Calvino non andava in chiesa nemmeno a Natale e a Pasqua, dunque, secondo i suoi canoni, nessuno esiste prima di venire al mondo. La nostra non-esistenza è risucchiata in una vasta distesa di tempo, che la mente umana non può concepire.
Però io mi domando: va bene che non era credente, ma nel '64 è nata sua figlia, Giovanna Calvino, ora docente universitaria di Letteratura Italiana negli Stati Uniti.
Dunque, da buon futuro padre (e lo era stato, perché nelle interviste Giovanna ne parla sempre benissimo), alcuni mesi prima che nascesse sua figlia avrà pur pensato con la moglie al miglior modo di accoglierla nel mondo...  Per dei genitori, indipendentemente dal loro rapporto con la fede religiosa, la vita di un figlio inizia ad esistere prima della nascita.

"Palomar pensando alla propria morte pensa già a quella degli ultimi sopravvissuti della specie umana o dei suoi derivati o eredi: sul globo terrestre devastato e deserto sbarcano gli esploratori d'un altro pianeta, decifrano le tracce registrate nei geroglifici delle piramidi e nelle schede perforate dei calcolatori elettronici; la memoria del genere umano rinasce dalle sue ceneri e si dissemina per le zone abitate dell'universo. E così di rinvio in rinvio si arriva al momento in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto (...)"

"Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante-pensa Palomar,- e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine".





20 agosto 2018

Ragazzi... Guai a voi se perdete di vista l'essenziale...(!!!)


Sono tornata e fa ancora molto caldo. Sono ritornata da quegli splendidi bagni di sole della scorsa settimana... con la pelle che sembra aver assunto il colore delle donne del sud-est asiatico!
Al di là di ciò, ormai mi conoscete... D'estate la mia mente non va mai in vacanza, nel senso che non rinuncia mai a pensare e a ragionare.
In questi ultimi giorni infatti ho spesso ripensato alle parole del Papa in una delle giornate del Sinodo Giovani. Ho seguito alcuni passaggi del suo discorso nella mia stanza d'albergo e devo ammettere che il punto riguardante la questione dell'amore mi ha lasciata piuttosto perplessa!

Innanzitutto, mi pareva di vedere, al di là dello schermo, un Papa stanco, con una voce piuttosto flebile e non certo energica ed entusiastica.
Ha sostanzialmente detto a migliaia di giovani (non so quanti fossero esattamente in piazza San Pietro) che l'amore vero va vissuto, che non si deve attendere la fine degli studi universitari per poterlo vivere. Per ben venti minuti ha continuato a ripetere questo concetto. E a questo punto, riporto le sue testuali parole:
"L'amore non tollera mezze misure, o tutto o niente. Nell'amore devi mettere tutta la carne al fuoco. Se l'amore viene oggi perché devo aspettare tre, quattro, cinque anni per renderlo stabile?"

Ma il problema non è fidanzarsi a 19, a 22, a 23 o a 25 anni. Il punto non è questo: impegnarsi sentimentalmente con qualcuno quando si è ancora nel pieno degli studi accademici, quando non si è ancora economicamente indipendenti.
Se quello che provo per l'altro è un affetto forte e sincero, allora questo sentimento può felicemente convivere con il duro e impegnativo percorso universitario.
IL PROBLEMA NON E' ESSERE STUDENTI E AL CONTEMPO FIDANZATI!!

Bisognerebbe che Papa Francesco si chiedesse:
COME I GIOVANI OCCIDENTALI DEL XXI° SECOLO VIVONO L'AMORE?

Io credo che l'amore sia fatto di passi che devono essere percorsi in maniera graduale, senza troppa fretta e senza troppa passionalità.
Nell'amore vero e autentico c'è il DONO DI SÉ. Ma prima di arrivare a questo, c'è bisogno di incontrarsi, di frequentarsi, di dialogare, di conoscersi, di scoprire e di valorizzare le qualità e le doti dell'altro, di accettare e di accogliere le fragilità dell'altro.
Prima della convivenza e/o del matrimonio avvengono la conoscenza, la pazienza, l'apertura verso l'alterità, il desiderio di condividere la mia interiorità con l'altro. Tutto questo dovrebbe precedere anche l'atto sessuale.
Ma quanti giovani sono consapevoli dell'impegno e della grande gioia che comporta il costruire una relazione d'amore? Molto pochi, caro Papa Francesco.
L'atto sessuale è RESPONSABILITÀ DI PROCREAZIONE.
L'atto sessuale implica RESPONSABILITÀ, DONO, UNITÀ, PROGETTO, RICCHEZZA, VALORI E CULTURA.
Ma noi giovani ne siamo veramente consapevoli oppure tendiamo a privilegiare l'aspetto del piacere di un orgasmo?
Penso a delle mie coetanee: a certe mie compagne di corso e ad alcune ragazze che ho conosciuto al di fuori dell'Università. Ecco, alcune di loro, pur essendo mantenute dalle famiglie a causa degli studi, convivono con il loro ragazzo, spesso molto più grande di loro (30 anni e più). Io, lo dico candidamente, non conviverei mai con un trentenne, ora come ora. Mi sentirei sporca.
Cavolo, appartengo ad un'altra generazione, mi manca ancora un po' per raggiungere l'indipendenza economica e... e sono ancora una ragazzina.
Sarò anche portata per ciò che studio, sarò anche corretta e seria con gli altri ma certe reazioni e certi discorsi tipicamente adolescenziali non li ho ancora abbandonati del tutto.
Al momento non sento la convivenza come un'esigenza di assoluta priorità (a parte il fatto che semmai a me piacerebbe proprio sposarmi, possibilmente senza una fase intermedia di "limbo" tra fidanzamento e matrimonio): voglio terminare definitivamente il mio percorso universitario, voglio fare sport, voglio continuare il mio servizio negli ambiti del volontariato per poter donare serenità e sollievo agli altri, voglio ancora trovare il tempo per scrivere, suonare e per le escursioni e le passeggiate in montagna.
Magari, se nel frattempo mi succedesse di incontrare un ragazzo che desidera costruirsi un progetto di famiglia con me, ecco che allora questa mia quotidianità già volta al bene potrà divenire ancora più ricca di doni e di amore.
Sono già una ragazza contenta ora, con una bella famiglia, con una triennale e con un'opera di narrativa sul desktop del computer, ma se questo mi accadesse per davvero, potrei tranquillamente affermare di aver iniziato a vivere il Paradiso durante la mia vita terrena!
Però, prima di pensare e di concretizzare un progetto di famiglia, dovremmo attraversare la fase della conoscenza l'uno dell'altra. Ma per poterlo fare, bisogna mettersi in cammino, come insegna il racconto di Valle Yubi!
Sto pensando anche a ragazze che trascorrono le ferie estive con i loro fidanzati, per diversi giorni.
Dal punto di vista economico si tratta di nullatenenti, i cui viaggi "da sogno" sono finanziati dai genitori, ovviamente!
Se fossi impegnata con un ragazzo, io non mi permetterei mai di chiedere soldi ai miei per andarci a convivere o per farmi una vacanza insieme. Già mi pagano le rate universitarie, il cibo, i vestiti, i corsi sportivi. 
Ma andando al di là di ciò che penso io: voi lettori lo definireste un amore vero convivere con qualcuno senza un minimo progetto di famiglia, lo chiamereste un amore vero buttare la verginità senza alcuna certezza e sicurezza, senza alcuna promessa di fedeltà?
Io penso che finché una persona non è autonoma anche dal punto di vista economico debba vivere le relazioni d'amore entro determinati limiti, ma con lungimiranza.
Lungimiranza viene da "longus"+ "miro", ovvero: "guardare lontano".
Cioè, nella relazione affettiva: ti conosco, mi piaci, ti frequento, mi innamoro di te, condivido con te i momenti migliori e i momenti più tristi, con te vorrei costruire un futuro perché ti amo.
E no, non è vero nemmeno che si deve attendere il raggiungimento di un posto lavorativo sicuro e prestigioso per potersi sposare. Quello, con i tempi che corrono, solitamente arriva poco dopo i 40 anni!
Basta avere un po' di soldi messi da parte con gli stipendi lavorativi, basta sapersi gestire la propria economia con un po' di sale in zucca.
Intorno ai 20 anni ci si dovrebbe "vivere": fare delle esperienze collettive, aprirsi al mondo esterno, cogliere insieme delle occasioni e delle opportunità per poter crescere.
Il Papa ha anche detto:

"Qual'è il compito dell'uomo? È rendere più donna la donna che ha accanto, così come la donna deve rendere più uomo l'uomo. Ma l'uomo non può crescere da solo, è la donna che lo fa crescere e viceversa. Questo è l'ideale dell'amore. Questo è un noi. "

Sì, ma io credo che l'energia e la forza per poter crescere e maturare insieme la diano soprattutto degli stimoli esterni: volontariato, gruppi di amici, dialoghi con altre coppie o con persone fidate, campi-scuola, conferenze edificanti.
La volontà di impegnarsi nella relazione dev'esserci da entrambe le parti e deve emergere da entrambe le parti. Altrimenti io non posso rendere "più uomo" un uomo. 
Non posso far divenire un uomo "più uomo" se io non sono in grado di osservare, ascoltare e recepire ciò che di edificante e di meraviglioso posso riconoscere nel mondo e in persone diverse dal mio fidanzato.
Non riuscirò mai a far diventare un uomo "più uomo" se io non riesco a praticare l'introspezione, se cioè non riesco a scorgere le mie fragilità e i miei punti forti, se non provo a conoscermi nel profondo.
E non potrò mai far crescere l'uomo che amo se non confido nelle sue potenzialità di padre.

Caro Papa Francesco, perché i giovani oggi come oggi non riescono a vivere in modo graduale e maturo l'amore?
Perché la generazione che li ha preceduti non ha mai pensato al loro vero bene! Non li ha ascoltati, ma li ha riempiti di cose, non di valori. Ha demolito in loro la forza di sognare e di credere nel futuro.
Riempiendoli di cose, li ha indotti a vivere nell'apatia e nella malinconia di un "eterno presente".
E il presente non è fatto per essere eterno, perché il tempo scorre come i ruscelli del Trentino: ogni momento che è appena trascorso diviene passato e ogni momento prossimo a venire o in procinto di accadere fa parte del futuro, di un futuro che diventa continuamente presente.
L'eterno presente è l'anticamera dell'infelicità e rende "amorfi", incapaci di gustare la bellezza.

Quello che io mi sento di dire ai giovani (e sono una giovane che parla a dei giovani come me) è sostanzialmente questo: NON PERDETE MAI DI VISTA L'ESSENZIALE!
Non è vero che l'essenziale è invisibile agli occhi. Basta valorizzarlo nel corso della nostra vita quotidiana. Non perdere di vista l'essenziale significa apprezzare il dono delle relazioni, significa portare dentro di sé un frammento dell'altro, significa tendere la mano all'altro.
L'essenziale sta nella capacità di intendere ogni relazione come una possibilità di crescita interiore, di scambio, di opportunità per rendere il mondo migliore.
Già un sorriso e un abbraccio accompagnati da sincera benevolenza rendono il mondo un luogo degno di essere vissuto e rendono la propria vita degna di essere vissuta.
Ragazzi, pensate a VIVERE, A VIVERE, NON A MORIRE!! E SOPRATTUTTO, A MORIRE DENTRO!!

Ed un esorcista arrogante che continua a ripetere a dei diciottenni durante un incontro in parrocchia: "Tempus fugit, memento mori", vi manca di rispetto.
Se è vero che la morte fa parte della vita e che tutti noi dobbiamo morire prima o poi, è anche vero che Dio ci vuole pieni di entusiasmo verso la vita. Ci vuole sereni e disposti ad accogliere con gioia ogni singolo istante della nostra esistenza. E dobbiamo vivere in Cristo.
Dovete pensare a vivere.
Quella frase latina detta con toni arroganti non costituisce un incitamento a vivere.
Il male, il dolore, la morte e la malattia non hanno mai l'ultima parola, almeno così credo io da cristiana. Questo doveva dirvi quel frate urlone!
Anche nei momenti più drammatici e più bui io ho trovato dei motivi per poter sorridere e per poter ringraziare Dio dentro di me per il solo fatto di esistere. Dentro di me sono risorta cento volte.
Penso ad esempio a quando avevo 6 anni e mezzo ed ero malata. In quel periodo non potevo frequentare regolarmente la scuola, purtroppo.
Per poter guarire dovevo essere seguita dai medici specializzati in quel brutto male dell'ospedale di Padova.
Ricordo che nel giorno in cui mi avevano operata, poco prima di entrare in sala operatoria avevo la vista offuscata dalle lacrime, da lacrime che non cadevano. Avevo molta paura.
L'infermiera che doveva farmi l'anestesia, prima di farmi addormentare mi aveva preso le mani e mi aveva detto: "Tranquilla piccola. Stai per guarire."
Avevo dato un'occhiata all'orsacchiotto che mamma teneva tra le braccia e avevo sorriso.
Sono guarita. Fortunatamente. Ho recuperato tutte le mie facoltà motorie.

Sei anni fa mio nonno Francesco era in fin di vita. Era pallido e debole, con un occhio pieno di croste.
Non si muoveva più dal letto l'ultimo mese di vita. E di notte mugolava dal dolore.
Eppure, in questa sua sofferenza, il nonno riusciva sempre a trovare un motivo per sorridere, non ha mai perduto la sua proverbiale ironia.
Io quando potevo gli stringevo la mano, seduta sulla sponda del letto. La stringevo. Se gli tenevo una mano tra le mie, riuscivo a sorridere e ad alleviare la tristezza dettata dalla consapevolezza che presto lo avrei perduto.

IL MALE, IL DOLORE, LA MALATTIA E LA MORTE NON HANNO MAI L'ULTIMA PAROLA, E MAI L'AVRANNO!

RAGAZZI: TEMPUS FUGIT, ERGO: MEMENTO VIVERE!!!!!!!


8 agosto 2018

Come mai i programmi ministeriali si ostinano a proporre ai ragazzi autori come Dante e Manzoni?

Questo è il titolo di un tema che un amico di famiglia ha assegnato ai suoi allievi.
E, coincidenza incredibile, questa traccia me la sono trovata nel test d'ingresso il giorno 10 dicembre 2014.

Subito dopo aver conseguito la laurea triennale in Lettere, in quali modi potrei argomentare l'utilità di apprendere i contenuti di opere scritte da letterati e poeti così eminenti?
Io certamente, nello scrivere questo tema, mi ritrovo più avvantaggiata di un liceale, ma non soltanto perché sono un po' più grande, perché ho studiato di più e perché ho superato ben sei esami di italiano previsti dalla mia facoltà (tre di letteratura, uno di storia della nostra lingua, uno di italiano scritto e un altro di linguistica relativo ai suoni di vocali e consonanti della nostra madrelingua).
La comprensione profonda della letteratura non è soltanto legata all'avanzamento dell'età e all'elevato livello di cultura...
Ci sono persone molto più adulte di me che, pur avendo conseguito la mia stessa laurea, risponderebbero che Dante e Manzoni non riescano a comunicare nulla di interessante ai giovani del XXI° secolo.
I diplomi e le pergamene, a mio avviso, valgono solo se si crede per davvero in ciò che si è studiato.
La mia recente e importante meta la devo soprattutto al mio forte innamoramento verso la letteratura, una passione che a partire dalla mia piena adolescenza mi ha spinta non soltanto a studiare molto volentieri ma anche a voler spesso approfondire le conoscenze attraverso letture individuali e riflessioni sulle parole.

(E' un post lunghissimo, ma è il mio saluto a voi lettori prima di partire per le mie stra-meritate vacanze, che quest'anno saranno un po' più lunghe del solito!!)
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A CHE COSA SERVE STUDIARE DANTE?

Io partirei da Dante.
Dante è un uomo del medioevo, vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento (1265-1321 circa).
Cosa può comunicare di avvincente e di bello un poeta che è morto circa settecento anni fa?
Il suo corpo è diventato polvere da un bel pezzo.
Ma, per nostra fortuna, le sue opere stanno sopravvivendo al tempo.
Esse ci rivelano infatti la sua formidabile intelligenza, la sua acuta capacità di introspezione, i suoi molteplici stati d'animo, le sue ottime conoscenze della mitologia classica e la sua grande e profonda fede in Dio.

Io credo che siano soprattutto due le opere dantesche in grado di interrogare la coscienza dell'uomo moderno.
Ritengo che la prima sia proprio la Vita nuova, prosimetro (si tratta infatti di una commistione tra prosa e poesia) risalente al periodo giovanile di Alighieri, in cui viene narrata la storia dell'amore per Beatrice.
Si tratta della prima opera della letteratura italiana di carattere autobiografico, in cui la memoria permette al narratore di compiere dei "viaggi mentali" nel passato che riconducono ai momenti degli incontri con Beatrice.

Riporto i primi quattro versi del sonetto che si trova nel ventesimo capitolo dell'opera:

Amore e ’l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l’un sanza l’altro osa
com’alma razional sanza ragione.


Che cosa ha di attuale questo sonetto? Per capirlo, basta soffermarsi su alcune espressioni.
Amore e ’l cor gentil sono una cosa, dice il primo verso. Questo significa che Dante attribuisce il sentimento dell'amore soltanto a chi è dotato di gentilezza, a chi è quindi nobile d'animo.
Partiamo dall'etimologia di questa parola. "Gentile" deriva dal latino "gens, gentis". Questo vocabolo è un "false friend", proprio come "salus, salutis" che significa "salvezza", non "salute". (Per designare la "salute" c'è "valetudo").
In epoca romana "gens" non voleva dire esattamente "gente"! 
Voleva indicare solitamente un determinato gruppo di famiglie di carattere aristocratico: "gens Iulia", "gens Flavia"... (tutte famiglie da cui sono discesi e provenuti gli imperatori romani). 
"Gentes" al plurale poteva anche riferirsi a "popoli".
In epoca tardo-antica, a seguito della diffusione del Cristianesimo, il termine era passato ad indicare "i gentili", ovvero, i pagani.
In pieno Medioevo (secoli VIII°, IX°, X°, XI°) la parola "gentile" in lingua volgare (da "vulgus", e quindi, lingua parlata dal popolo) designava gli aristocratici: i duchi, i principi, i conti, i marchesi. 
Per cui, i poeti provenzali come Guglielmo IX° d'Aquitania e i poeti siciliani del primo Duecento, collegavano il sentimento d'amore all'elevata condizione sociale. 
Per gli stilnovisti e per Dante non è più così: loro danno alla parola "gentile" il significato che si è mantenuto anche ora, nel nostro italiano.
"La nuova aristocrazia è dello spirito, non più della società", scrive Asor Rosa sul mio manuale universitario.
Gentile è sinonimo di affabile. 
Una persona gentile ci sa fare nei rapporti con gli altri, è delicata perché fa molta attenzione a non ferirli mai, all'interno di un gruppo si mostra un'ottima complice dei leader positivi, è sincera e cerca di aiutare chiunque si trovi in un momento difficile. In poche parole, chi è gentile è decisamente sensibile.
Ne consegue quindi che amare qualcuno deriva soprattutto da una certa nobiltà d'animo, non da una nobiltà di sangue. Questo lo afferma anche un caro amico di Dante, ovvero, lo stilnovista Guinizzelli: al cor gentil rempaira sempre Amore.
Ditemi se non è vero! Dante qui trasmette un messaggio anche facile. Gli egoisti, i grossolani e i giovani adulti di indole ancora infantile non sono in grado di amare realmente. Possono essere soltanto attratti da alcune caratteristiche di una persona, ma se loro stessi si considerano "l'ombelico del mondo" (Jovanotti, 1995) e se manifestano certi atteggiamenti di poca finezza non potranno mai essere davvero dediti all'altro, perché il loro modo di comportarsi li rende degli immaturi incapaci di portare rispetto verso l'alterità.
Questo tipo di persone non sa nemmeno cosa significa amare, appassionarsi, essere interessati agli altri.
Sto pensando, ad esempio, ai concorrenti che partecipano a programmi come "Temptation Island".
A me fanno abbastanza schifo: se fossero davvero gentili, sensibili e capaci di amare non si farebbero filmare su un'incantevole località balneare mentre stanno "flirtando" con donne diverse dalla loro compagna. Se fossero davvero maturi non andrebbero a Santa Margherita di Pula per verificare se i loro sentimenti d'amore sono autentici. Se avessero un minimo di sale in zucca non farebbero nulla per ledere la loro dignità e non mancherebbero mai di rispetto alle donne che amano.
Che vuotezza d'ideali!!!
Ammettiamo pure che questa trasmissione sia tutta una recita, una farsa: è comunque una finzione deleteria!
Si recita come attori in spettacoli culturali che valgono per davvero, come "La fattoria degli animali" di Orwell, "Il ritratto di Dorian Gray" di Wilde, "Uno, nessuno e centomila" di Pirandello.  
Ma non a "Temptation"!!!
Altro programma senza senso, seguito da un bel po' di giovani: "Uomini e donne", che io personalmente rinominerei: "Galletti str**** e galline cretine".
Anche qui: se uno è davvero interessato ad approfondire il rapporto con una persona non esce con altri corteggiatori per "allargare le conoscenze" e/ o "per mettersi in gioco"! Piuttosto: mette la ragazza che gli interessa al centro dell'attenzione, al centro della sua quotidianità... se prova dei veri sentimenti. 
A volte mi viene da pensare che l'umanità sia talmente tanto superficiale da non riuscire più a comprendere nemmeno gli aspetti relazionali più elementari!
La letteratura è una didattica per la vita, non l'infelice televisione.
Un sentimento sincero verso l'altro implica naturalmente il massimo rispetto per l'altro: questo insegna Dante.
Il "cor gentile" si preoccupa di giovare alla persona che ama e per questo la rispetta massimamente.
Andiamo avanti.
Se siete allo scientifico o comunque, ex studenti dello scientifico, vi rimando a questa proporzione, ricavabile dalla fine della prima strofa: gentilezza: amore = razionalità: ragione.
Questa però è una proporzione lessicale, non matematica, occhio.
L'animo gentile sta al sentimento dell'amore come la razionalità sta a chi è dotato di ragione.

Interessante è anche il contenuto delle due terzine:

Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;

e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’Amore.
E simil face in donna omo valente.


Qui Dante vuole dire che l'incontro con qualcuno dotato sia di bellezza esteriore sia di bellezza interiore risveglia facilmente il desiderio di amare.
Gli occhi, nel Medioevo come anche ora, sono il mezzo con il quale l'animo coglie l'autentica bellezza.
E' sempre stato così, in ogni epoca storica: il senso della vista è la chiave per arrivare a captare le meraviglie della natura e il dono delle relazioni. 
Perché gli occhi osservano l'aspetto, i comportamenti e le espressioni.

Oltre a questo componimento, vorrei riportare anche le prime due quartine del sonetto del ventunesimo capitolo della Vita nuova, dal momento che esprimono un altro messaggio di verità:


La mia donna porta negli occhi Amore,

per che si fa gentil ciò ch'ella mira,

ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira

e cui saluta fa tremar lo core,



sì che, bassando il viso, tutto smore,

e d'ogni suo difetto allor sospira:

fugge dinanzi a lei superbia e ira.

Aiutatemi, donne, a farle onore.

Questo è un elogio della donna amata.
Nella prima quartina Dante esalta la capacità di Beatrice di suscitare l'amore anche nei cuori non predisposti ad amare.
Ritengo opportuno però focalizzarmi sugli ultimi due versi: ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira/

e cui saluta fa tremar lo core.
Quando si è molto giovani succede e, nel mio caso, più di una volta. Mi è successo di tremare leggermente nel momento in cui un ragazzo che mi piaceva mi salutava o mi rivolgeva la parola. 
Mi tremavano le gambe e sentivo una specie di brivido che mi attraversava il cuore.
E' una reazione che mescola il piacere all'imbarazzo. 

Nella strofa successiva Beatrice appare come una santa: il solo contatto visivo con lei fa vergognare gli uomini dei loro difetti e dei loro peccati.
Avete mai incontrato nel corso della vostra vita una persona così bella, ma talmente bella da farvi vergognare di alcuni lati negativi del vostro carattere?! O almeno, qualcuno che vi facesse venire la voglia di migliorarvi?
Io sì, ed è avvenuto recentemente.
Quando si sente la benevolenza di qualcuno che è umano non soltanto in carne ed ossa ma anche nell'animo, ecco che questa nostra ammirazione può spingerci a voler per davvero migliorare alcuni aspetti del nostro carattere.
E' benefico incontrare individui con molte qualità e risorse!

Talvolta capita anche che un sentimento di vero amore verso l'altro spinga qualcuno a rinnovarsi interiormente, a cambiare in meglio per il bene della persona amata.
Questo è accaduto a Landon, protagonista del film I passi dell'amore. Era un bullo arrogante all'inizio, ma la conoscenza e la relazione con Jamie hanno profondamente modificato la sua personalità, lo hanno reso un ragazzo forte, in grado di sognare un futuro e in grado di vivere intensamente.

Prima di passare alla Divina Commedia, vorrei accennare ad un componimento delle Rime di Dante, di cui riporto tutti i versi:


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.


Questa poesia fa riferimento a un viaggio immaginato da Dante. I compagni di viaggio di Dante sono Guido Cavalcanti (altro stilnovista) e Lapo Gianni (poeta anch'egli suo contemporaneo).
Ci sono loro tre, giovani uomini bisognosi di "staccare la spina" dalla loro intensa vita intellettuale, su un vascello in mezzo al mare, su un vascello magico che si muove soltanto su ordine dei passeggeri!
Nemmeno qui mancano le donne: Vanna e Lagia però sono le donne amate dagli amici di Dante.
Che belli, sembra quasi di vederli tutti!

Credo che almeno una volta nella vita tutti noi, bambini, adolescenti, giovani e adulti, abbiamo desiderato fortemente e forse anche immaginato con un pizzico di fantasia dei momenti di svago con le persone che ci stanno a cuore, durante i periodi più stressanti al lavoro, a scuola o all'Università.
Tutti noi studenti, in pieno maggio, tra un prova e l'altra (per i liceali) e tra un capitolo e l'altro di un grosso manuale (per noi universitari), abbiamo agognato al relax estivo dopo la fine della scuola e dopo gli esami in compagnia dei familiari e degli amici più fidati!  
E magari qualcuno di noi ha sognato ad occhi aperti un'esperienza di evasione dal tempo come questa di Dante: barca immobile in mezzo a un lago o al mare, tappeti volanti magari, alte vette di montagne circondate da nuvole...
E' questo il messaggio del componimento: le amicizie sincere e i legami duraturi sono delle risorse e possono anche costituire dei piacevoli pretesti a causa dei quali possiamo permetterci, nei momenti di ansia e di tensione, di sognare e di immaginare le cose più positive, più originali e più edificanti che la nostra mente riesca ad inventare!

Passo ora alla Divina Commedia!

Perché ci si ostina sempre a proporre questo vastissimo poema scritto in una fase decisamente florida per la nostra lingua e letteratura? A che serve conoscere la rigidissima mentalità di un credente vissuto nel Basso Medioevo?!
Dante mette all'Inferno gli omosessuali e i suicidi, vi rendete conto? Un cosa inconcepibile con i tempi che corrono ora!
Ma... è educativo e utile per dei ragazzi in fase di crescita leggere dei canti della Commedia?
La mia risposta è sì, decisamente sì!
Innanzitutto perché in quest'opera formidabile è racchiusa tutta la tradizione culturale Europea, che, vi ricordo, è fatta sia di mitologia che di cristianesimo.
Nel poema dantesco troviamo innumerevoli figure che sono appartenute alla cultura classica greco-latina: Virgilio, poeta dell'Eneide e guida del poeta-narratore, Caronte nel III° canto dell'Inferno che percuote i dannati con un remo della barca mentre li traghetta al di là del fiume, Minosse nel V° canto dell'Inferno, che ha il compito di giudicare le anime e di condannarle, arrotolando la coda attorno al suo corpo un numero di volte pari a quello d'ordine del cerchio cui un'anima è destinata.
E poi ancora: Plutone nel VII° canto dell'Inferno, Ulisse nel cerchio dei fraudolenti, Teseo nel XXIV° canto del Purgatorio (esempi di gola punita), Aracne sempre nel Purgatorio, canto XII°, come esempio di superbia punita... e chi più ne ha più ne metta!!
Oltre a ciò, in quell'opera anche i nomi dei fiumi sono tratti dalla mitologia: l'Acheronte (fiume del III° canto dell'Inferno) e il Flegetonte (XII° canto dell'Inferno), fiume di sangue in cui sono immersi gli assassini.
Nella Commedia inoltre è importante mettere in risalto anche gli aspetti cristiani.
Li elenco qui: i tre regni dell'Oltretomba, Lucifero, apice ed emblema del male, il Regno del Purgatorio, luogo ultraterreno di transizione in cui per l'appunto si espiano dei peccati commessi in vita prima di poter raggiungere la redenzione, le schiere angeliche del Paradiso, i beati che contemplano Dio, Sommo Bene, i dilemmi morali di Dante che, a dire il vero, apparirà anche rigido a noi uomini del XXI° secolo, ma non condanna e non disprezza mai nessuno.
Osserva e prova, sì, dei sentimenti di paura, di smarrimento, di angoscia durante il suo viaggio nell'Inferno, ma da parte sua non viene mai pronunciata nessuna pesante critica nei confronti dei dannati. Un esempio di ciò è sicuramente il V° canto dell'Inferno, dove Dante incontra Paolo e Francesca, i due lussuriosi (lei adultera). Il poeta prova compassione per loro, quasi si commuove nell'ascoltare la loro tragica vicenda.
Egli si affida a Virgilio, proprio come un bambino fa verso i genitori o verso un fratello maggiore.
Da notare infine che Dante è autore e protagonista della Commedia.  E questa è una grande differenza verso poemi antichi come l'Iliade o l'Eneide, in cui gli autori non si identificavano mai con i protagonisti. In ambito cristiano l'individualità è un fattore molto presente, come nelle Confessioni di Sant'Agostino. E questa, come afferma Asor Rosa, è la prima volta in cui l'individualità e la soggettività di un letterato emergono in un'opera di carattere sia religioso che laico.

Ora vorrei concentrarmi per alcuni istanti sull'incipit della Divina Commedia, che colpisce molto: 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita. 


Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!


Dante ha 35 anni nel momento in cui scrive la cantica dell'Inferno. All'epoca 35 anni erano il culmine della maturità. Arrivato a questo punto dell'esistenza egli sente il bisogno di riflettere su se stesso, sulle proprie fragilità e sui propri errori.
Si trova in un momento della vita in cui sente il bisogno di compiere un grande lavoro di introspezione per poter riflettere bene sulla sua gioventù, sulle sue scelte di vita, sui suoi comportamenti morali e sulla forza della propria fede in Dio.
Ma, ed è quel che mi chiedo io, si deve attendere la maturità della vita (che nella nostra epoca corrisponde più o meno ai 50 anni) per poter ripensare a se stessi??
Ci sono dei momenti e dei periodi in cui magari anche noi giovani, dopo delle delusioni nei rapporti con gli altri oppure dopo un lutto, ci troviamo in una sorta di "selva oscura mentale"che rappresenta la nostra delusione e il nostro dolore.
In pratica, la "selva" rappresenta il nostro bisogno di pensare e di piangere affinché fuoriescano i sentimenti negativi. 
Poi è dalle lacrime e dall'amarezza che si riparte, con delle valide guide al nostro fianco.
La selva oscura è la condizione di transizione per poter accedere ad una speranza. Mette paura, la selva, mette paura la decisione di manifestare i propri stati d'animo, di ripensare a se stessi, ma in certi momenti cruciali e difficili è necessario, se non altro per poter scovare dentro di noi delle risorse e per poter recuperare sorriso e positività.

 A CHE COSA SERVE STUDIARE MANZONI?

Manzoni è stato un meraviglioso prosatore del XIX° secolo.
Che vi piaccia o no, noi italiani dobbiamo molto a lui, dal momento che la sua personalità è un misto di cristianesimo e illuminismo: ha finalmente dato voce alle sofferenze e all'umiltà dei ceti bassi della società, ha ricercato costantemente la verità storica, ha fondato una lingua letteraria comprensibile ad una larga parte degli italiani: il volgare fiorentino con elementi un po' milanesi e un po' latineggianti.
E soprattutto, ha lavorato per ben 19 anni su un romanzo decisamente composito: ci sono notizie storiche, c'è il romanzo di formazione di Renzo (capitoli XII°-XVII°), c'è il romanzo nero di Gertrude (capitoli VIII°-X°), il romanzo di redenzione e di conversione dell'Innominato (capitoli XIX°-XXII°).
Il primo romanzo italiano è stato Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, ma era un romanzo epistolare su modello di Goethe.
Questa di Manzoni è proprio un'opera narrativa in prosa, il primo romanzo storico-sociale italiano.

Prima di commentare alcuni passi dei Promessi Sposi, preferirei focalizzarmi su un'espressione manzoniana arcinota che concerne un metodo narrativo: "l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante come mezzo".

Questa è teoria della narrazione. In questa espressione traspare un consiglio di Manzoni rivolto a tutti gli scrittori che vogliono realizzare un'opera degna di fama e di apprezzamenti.

Per Manzoni, un racconto deve avere l'utile come finalità. L'utile è direttamente riconducibile alla sfera morale, didattica e pedagogica.
"L'utile per scopo" lo si può cogliere certamente nelle Epistulae morales ad Lucilium di Seneca, scritte per fornire all'amico una serie di spunti filosofici ed etici riguardo alla vita umana e riguardo al giusto modo di vivere l'esistenza.
I contenuti, in sostanza, devono istruire i lettori, devono insegnare ai lettori la cultura e dei buoni valori da interiorizzare.
"Il vero per soggetto" è la verità storica o comunque, nel caso del romanzo manzoniano, la verosimiglianza storica. Narrare fatti realmente accaduti o comunque verosimili permette al lettore anche un coinvolgimento intellettivo e mentale negli eventi letti.
E qui io penso ad uno scrittore del Neorealismo italiano, Elio Vittorini. Il suo romanzo più conosciuto, Uomini e no, narra le travagliate vicende di un gruppo di partigiani milanesi durante l'ultimo periodo della seconda guerra mondiale. Vittorini non risparmia particolari crudi e macabri.
Questo è il vero per soggetto: essere cristallini, non sinceri, ma addirittura cristallini nel momento in cui si raccontano drammi umani.
"L'interessante come mezzo". Bisogna che lo scrittore sappia interessare i lettori. Attraverso informazioni interessanti inserite all'interno di una pagina o di un capitolo, un autore può invogliarli a continuare la lettura. 
E qui io mi azzardo a pensare allo storico del V° secolo a.C., Erodoto di Alicarnasso. Nelle sue Storie, egli inserisce delle digressioni che riguardano notizie geografiche ed etnografiche dei popoli con i quali durante i suoi viaggi è venuto a contatto. In quest'opera egli narra le guerre persiane, ma spesso si focalizza sulle tradizioni culturali e sulla storia dei popoli. Più o meno come talvolta fa Cesare nel De bello Gallico.

Cose che nessuno sa è stato pubblicato cinque anni fa e presenta a mio avviso tutte le caratteristiche di un buon libro di narrativa: si prefigge "l'utile per scopo", ovvero, parla agli adulti e a tutte quelle figure educative che dovrebbero occuparsi del benessere psicologico dei ragazzini; e quindi dà loro dei chiari messaggi di umanità. Dice in pratica che ascoltare un adolescente triste e angosciato è una delle cose migliori che si possano fare.
In questo secondo romanzo di D'Avenia c'è indubbiamente "il vero per soggetto": i genitori di Margherita, la protagonista, stanno per separarsi, il padre tradisce la madre con un'altra donna e si allontana dai figli. Situazioni come questa purtroppo se ne sentono troppe in questi ultimi anni.
C'è inoltre anche "l'interessante come mezzo": l'autore illustra gli interessi di Margherita, i suoi sentimenti, il suo modo di relazionarsi con il mondo esterno dopo questo dramma familiare, la sua fuga con Giulio in autostrada alla ricerca del padre... Tutti elementi che contribuiscono al coinvolgimento del lettore nella storia.
Ecco che cosa è importante ricordare di Manzoni: i suoi consigli in ambito narrativo, validi, a mio avviso, in ogni tempo!



I personaggi dei Promessi Sposi sono di un'estrema varietà antropologica!
Ognuno unico nel proprio genere, con il suo particolare aspetto fisico e con la sua particolare personalità, diversa da quella delle altre figure!
In questo romanzo c'è tutta la varietà del genere umano: ogni figura umana è rappresentata da una caratteristica della propria indole: Don Abbondio è un pavido, Don Rodrigo è un viziato, prepotente, capriccioso, Fra' Cristoforo è molto sensibile, Lucia è dolcissima e delicata, Agnese è semplice e schietta, Perpetua è un po' pettegola, il Cardinale Borromeo è intelligente ed equilibrato, l'Innominato compie un cambiamento straordinario: da crudele e malvagio a generoso e gentile.

Lucia e Fra' Cristoforo sono l'emblema di un'ardente fede in Dio. Anzi, mi verrebbe da dire che sono il riflesso della presenza di Dio sulla terra: con la loro bontà e la loro pazienza si rendono amabili e con il loro modo di essere stimolano il cambiamento di altri personaggi: la sofferenza di Lucia prigioniera nel castello dell'Innominato aiuta a convertire quest'ultimo, il severo discorso di Fra' Cristoforo sulla misericordia induce Renzo a perdonare un Don Rodrigo pallido e morente, quel nobile che ha impedito il matrimonio con la sua amata.
Per analisi di alcuni personaggi e riassunto di alcuni capitoli particolarmente significativi vi rimando ai seguenti link:
A) http://riflessionianna.blogspot.com/2017/06/la-monaca-di-monza-malvagia-o-debole.html
B) http://riflessionianna.blogspot.com/2016/10/la-quasi-santita-di-fra-cristoforo.html

Altro particolare importante: Manzoni, narratore esterno, non giudica nessun personaggio.
Non giudica male nemmeno le figure peggiori, come la monaca di Monza. La chiama infatti  "sventurata" e "infelice".
Manzoni non insegna soltanto la storia... da bravo cattolico in grado di interiorizzare dei principi evangelici, egli ci insegna anche la compassione verso il prossimo. Il suo è un atteggiamento da imitare, decisamente!
Grazie a Manzoni ho imparato il senso profondo della "compassione".
La compassione, da "cum"+ "patior" ("soffrire con") è un'intensa e vera partecipazione al dolore altrui, la compassione è solidarietà, è desiderio di sostenere l'altro, di aiutare l'altro a convivere con una tragedia accaduta.

CAMBIERESTI QUALCOSA ALL'INTERNO DEI PROGRAMMI MINISTERIALI DI ITALIANO ALLE SUPERIORI?

Da futura insegnante di italiano e latino nei licei scientifici, rispondo sì!
Allora, oramai è risaputo che i programmi didattici prevedono la storia della letteratura italiana a partire dal terzo anno di superiori, mentre invece in seconda, la lettura del romanzo manzoniano.

C'è un problema da un po' di anni a questa parte: i ragazzi arrivano alla maturità che sanno poco degli autori del Novecento, perché non c'è abbastanza tempo per poterli approfondire.
"Quando io ho fatto la maturità classica, nel '51, il programma si fermava a Montale. E più o meno è così anche ora. Mi dispiace che i programmi, da allora, non siano cambiati.", ha dichiarato Asor Rosa in un'intervista.
Ha ragione. Per questo motivo, lo studioso proporrebbe ai docenti di lettere di "ridurre, per quanto riguarda gli autori dei secoli precedenti al Novecento, la gamma dei testi da analizzare e da commentare in classe". A suo parere infatti, bisognerebbe affrontare 6 canti dell'Inferno di Dante, 4 sonetti di Petrarca anziché 10, far leggere 3 e non 6 brani dell'Orlando Furioso, limitarsi a studiare 3 o 4 brani tratti dal poema di Tasso... e così via, fino ad arrivare ad affrontare in quinta tutto il Novecento e soltanto il Novecento.
Asor Rosa consiglierebbe dunque ai professori di scegliere soprattutto dei testi che mettono in risalto per linee generali le caratteristiche formali e le tematiche di un autore, in modo tale da poter offrire ai ragazzi una panoramica globale ma al contempo variegata del nostro passato letterario.
Altrimenti alla maturità si ritrovano ad affrontare spezzoni di testi di autori sconosciuti, ma molto recenti e molto eloquenti.

Non oso criticarlo, ma io propongo un'altra via d'uscita a questo problema: e se il programma di letteratura partisse già in seconda?!
In prima si può continuare a fare grammatica ed epica, ma in seconda già si potrebbe iniziare ad affrontare Duecento e Trecento.
Almeno, i ragazzi di qualsiasi scuola superiore avrebbero già ben chiara, alla fine del biennio, le divergenze tra i poemi antichi greco-latini e la Divina Commedia, soprattutto, saprebbero ben memorizzare l'aspetto già citato sopra dell'individualità del poema dantesco in contrasto con tutto ciò che è venuto prima, caratterizzato da oggettività.
Secondo me i quindicenni non sono troppo "piccoli" per poter capire Dante, Petrarca e Boccaccio.
Basterebbe spiegarglieli con "criterio", cercando di far capire loro quegli aspetti che si riflettono nel quotidiano degli uomini del XXI° secolo.

Altra cosa che a mio parere non funziona: non è possibile affrontare Manzoni due volte nel corso del quinquennio, no! Manzoni in seconda e Manzoni anche a fine quarta!
Lo si fa una volta soltanto in quarta e lo si affronta bene, punto.
Seguendo questa mia idea di iniziare la letteratura in seconda, in terza allora si dovrebbe passare a Quattrocento, Cinquecento e Seicento.
Di conseguenza, in quarta si dovrebbe partire da Goldoni, Parini, Alfieri e Foscolo per arrivare al pieno Ottocento con Pascoli e Verga.
Così in quinta si lascia spazio soprattutto al XX° secolo e si ha tempo di studiare diversi autori del secondo Novecento, non soltanto Calvino ma anche Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Vasco Pratolini, Mario Luzi, Giorgio Caproni... anche loro in effetti avrebbero delle tematiche "scottanti" e intriganti per dei giovani.
Ormai ritengo sia impensabile fermarsi con il programma ad un Montale degli anni '30, o a un Ungaretti poeta della Prima Guerra Mondiale senza cercare di andare oltre!

In quanto a Dante, è risaputo che ogni docente di letteratura delle superiori è tenuto, durante gli ultimi due anni del triennio, sia a seguire la cronologia degli autori previsti sia a svolgere l'analisi e il commento di alcuni canti del Purgatorio in quarta e del Paradiso in quinta.
Io non mi trovo d'accordo: si tratta di una notevole sfasatura temporale che non dovrebbe esistere, soprattutto in quinta, quando, oltre ad affrontare gli autori dell'Ottocento e del primo Novecento, è assolutamente necessario potenziare, ogni settimana dell'anno scolastico, le abilità di scrittura dei maturandi, in vista della prima prova.
La maturità è un esame di stato, è un evento serio, i ragazzi devono arrivare preparati, non angosciati, ma preparati! Per questo non ci si può permettere, da parte dei docenti, di trascurare la parte di italiano scritto, con tutte le tipologie testuali che ne conseguono, per spiegare Dante!
Non lo trovo giusto, anche perché molto raramente (nello 0,2% dei casi) all'orale di maturità si chiede all'esaminando la parafrasi di un canto del Paradiso.
Anche Dante va studiato una volta soltanto, non tre.
Per cui, se ci si sforzasse di anticipare in seconda l'inizio del programma di storia della letteratura, ci sarebbe sicuramente tempo di approfondire, per l'appunto nel corso della fine del biennio, tutte le tre cantiche di Dante.
Altrimenti, nel corso del terzo anno bisognerebbe limitare il numero di testi tratti dall'Inferno per poter lasciare spazio anche a Purgatorio e Paradiso. Si potrebbero illustrare prima i contenuti generali e le strutture dei tre regni dell'oltretomba descritti da Dante e poi selezionare 6 canti dell'Inferno, 6 del Purgatorio e 6 del Paradiso. E tutto questo lo si dovrebbe fare in terza, l'anno della letteratura medievale.

Pensate soltanto al fatto che per noi universitari di Lettere lo studio di Dante era necessario soltanto per preparare Letteratura Italiana I.
Il nostro docente di Verona inoltre, seppur molto preparato e appassionato, per poter includere nel suo programma didattico anche Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Tasso, aveva deciso di farci leggere soltanto la cantica dell'Inferno, di cui aveva troncato (per cause di forza maggiore, come il tempo materiale a disposizione) le spiegazioni al tredicesimo canto.
Ma Purgatorio e Paradiso non erano inclusi né in Letteratura italiana II (studio degli autori dal Seicento all'Ottocento), né in Letteratura Italiana III (esclusivamente sugli autori del Novecento).

E' proprio vero che i programmi di italiano previsti nelle scuole superiori necessitano di una revisione! Il materiale da apprendere è molto vasto, bisogna sia fare una selezione degli autori e dei brani, sia cambiare il metodo di insegnamento: cercare di avvicinare Dante e Manzoni alla vita reale o comunque, cercare di mettere in evidenza ciò che di positivo essi possono comunicarci con i loro scritti. Questo è il modo migliore per interessare i ragazzi!

Ad ogni modo, concludo il posto con il ribadire che si deve continuare a proporre Dante nelle scuole: certi passi delle sue opere possono farci pensare a situazioni particolari della vita reale.
Oltre a ciò, la Commedia è un'opera spettacolare, che soltanto un uomo di grande statura intellettuale e morale poteva pensare e scrivere.
Manzoni, da quel che avete potuto intuire nel secondo paragrafo del post, è un ottimo antropologo.
I Promessi Sposi non vanno letti soltanto per accrescere le proprie conoscenze storiche, ma anche per
apprendere dei valori in linea con gli insegnamenti di Cristo e conformi al Vangelo.
In pratica, Dante e Manzoni dovrebbero essere letti per risvegliare le nostre radici cristiane.

Voi che cosa condividete di più??! La mia idea o l'idea di Asor Rosa?