28 giugno 2019

Il lai del caprifoglio:

Realizzo ora il proposito di un mesetto fa: esporre contenuti e analisi di uno dei testi che faceva parte del mio programma d'esame di Filologia romanza.
Si trattava di un corso obbligatorio sulle opere più importanti e più significative composte in Europa nel Medioevo, con approfondimento sulla figura di Maria di Francia e i suoi lais, ovvero, i suoi racconti in versi.
E questa è stata una buona occasione per me di imparare qualcosa in francese antico!

MARIA DI FRANCIA:
Maria di Francia, miniatura del XIII° secolo

Nella letteratura medievale, avere il nome di un autore è già molto, considerando che, sia in ambito artistico che in ambito letterario, l'anonimato era molto frequente.
In questo caso abbiamo un nome con un toponimo generico (la Francia).
Della biografia di quest'autrice non sappiamo nulla, anche se la critica le attribuisce ben tre opere: i Lais, l'Espurgatoire e l'Ysopet, tutte e tre composte nel corso del XII° secolo.
L'Espurgatoire racconta sostanzialmente le sofferenze del Purgatorio, l'Ysopet invece è una raccolta di favole che vede come protagonisti degli animali che incarnano dei ruoli e che rimandano a delle caratteristiche umane. Ad esempio, penso al riassunto di una favola il cui protagonista è un corvo ingannato da un volpe: il corvo affamato prende un pezzo di formaggio esposto su un davanzale e, successivamente, si posa sul ramo di un albero accanto alla finestra. Allora sopraggiunge la volpe che esalta la bellezza del corvo e lo esorta a cantare, con un discorso del genere: "Mi piacerebbe scoprire se il suo canto è bello come il suo aspetto!". Il corvo, nell'aprire il becco, fa cadere la sua razione di cibo e quindi la volpe, con questo stratagemma, riesce a rubargli il pranzo. 
In questa situazione dunque, la volpe è l'astuto, il corvo l'orgoglioso e il vanitoso.

Ad ogni modo, risulta pressoché impossibile attribuire un'identità precisa a Maria di Francia.
Studiare questa scrittrice è stato più o meno come studiare la complessità della figura di Omero in letteratura greca, perché anche Omero, nelle questioni letterarie, non ha affatto un'identità chiara e definita.
Sono state avanzate varie ipotesi per poter collegare il nome di Maria di Francia ad una persona veramente esistita.
Si è pensato che potesse essere o la sorellastra di Enrico II°, o la sorella minore di Thomas Beckett, oppure anche una figlia di Luigi VII° ed Eleonora d'Aquitania.
Addirittura, un filone della critica letteraria medievale sospetta che, dietro al nome di Maria di Francia, si celino molte identità, e che quindi i 12 lais della raccolta siano stati composti da varie mani.
Certo, è strano e notevole che degli scritti medievali siano stati ricondotti a un nome femminile.
D'altra parte, i "lais" erano un genere letterario che, secondo l'opinione dell'epoca, interessava soprattutto le donne, dal momento che le tematiche principali erano l'amore e l'avventura del viaggio.

LA FIGURA DI ENRICO II° PLANTAGENETO:

Secondo lo storico Pietro di Blois, Enrico II°, oltre ad essere dotato di grande abilità politiche e militari, era anche un sovrano di notevole cultura.
Dopo essere salito al trono e dopo il matrimonio con Eleonora d'Aquitania, si era subito preoccupato di espandere il regno, che in pochi anni andava dai Pirenei all'Irlanda del nord. Al 1154 risale la conquista dell'Inghilterra.

Presso la sua corte, Enrico II° aveva provveduto alla promozione della letteratura e della ricerca storica, per cui al suo servizio vi erano tutti gli intellettuali di spicco dell'epoca (Giovanni di Salisbury, Thomas Beckett e il già menzionato Pietro di Blois).

E' sempre Pietro di Blois a descriverlo come un carattere irrequieto (incapace di stare seduto), eloquente, brillante, amante della poesia e molto autorevole.
Nei suoi anni di regno, Enrico II, aveva saputo favorire un ambiente culturale cosmopolita, nel quale potevano convivere la sensibilità religiosa con tutte le implicazioni dell'amor cortese.

CHEVREFOIL:

Caprifoglio
E' questo il titolo in lingua originale. In italiano è "Il lai del caprifoglio", lungo 118 versi.
Ve lo propongo perché è uno di quelli che preferisco e perché il contenuto narra un episodio della storia di Tristano e Isotta che risulta assente in tutti gli altri manoscritti.

Il contenuto è questo: Tristano, a servizio di suo zio Marco re di Cornovaglia, si innamora, ricambiato, di Isotta. Per questo motivo, re Marco decide di esiliarlo e Tristano dunque si trova costretto a ritornare nella sua terra natale, il sud del Galles, e a languire lontano dall'amata.
In Galles rimane per circa un anno, finché, oppresso dalla nostalgia, decide di ritornare di nascosto in Cornovaglia, dove si rifugia presso contadini e boscaioli.
Poi arriva anche l'occasione di incontrare Isotta in assenza del re: alcuni contadini informano Tristano sul fatto che un corteo di cavalieri, conti e baroni si sta dirigendo a Tintagel per una festa regale fissata nel giorno di Pentecoste. Con loro ci sarà anche Isotta.
Tristano allora escogita una soluzione per poter riabbracciare la donna amata: 

vv. 49-60:

Sur le chemin que il saveit
Que la rute passer deveit,
Une codre trencha par mi,
Tute quarreie la fendi.
Quant il ad paré le bastun,
De sun cutel escrit sun nun.
Se la reïne s’aparceit,
Ki mut grant garde s’en perneit – Autre feiz li fu avenu
Que si l’aveit aparceü –
De sun ami bien conustra
Le bastun, quant el le verra.


Sul sentiero che egli sapeva
che doveva passare il corteo,
taglia a metà un nocciòlo,
lo fa squadrato,
e quando il ramo è pronto,
con un coltello ci scrive il suo nome.
Se la regina se ne accorge,
che molta attenzione ci porge,-
altre volte era accaduto
che così si era accorta di lui-
Del suo amato ben vedrà
il ramo, quando lì giungerà.

Il momento del loro incontro giunge: Isotta a cavallo scorge il ramo di nocciòlo, ordina al suo seguito di cavalieri di fermarsi, legge il nome di Tristano e si reca nella foresta per riabbracciarlo.

In questi versi qui sotto diviene anche comprensibile il motivo del titolo:  

vv. 68-76: 
D’euls deus fu il tut autresi
Cume del chievrefoil esteit
Ki a la codre se perneit:
Quant il s’i est laciez e pris
E tut entur le fust s’est mis, 

Ensemble poënt bien durer,
Mes ki puis les voelt desevrer,
Li codres muert hastivement
E li chievrefoilz ensement.

Di loro due avvenne
come del caprifoglio 
che sia avvinghiato al nocciòlo:
quando si è ben attaccato
e attorcigliato tutto intorno al fusto,
insieme possono durare a lungo,
ma se li si vuole dividere,
il nocciòlo muore rapidamente,
e il caprifoglio altrettanto.

Come Odoardo e Gildippe nella Gerusalemme Liberata, due coniugi cristiani che, nel XX° canto, durante la battaglia finale per la conquista del Santo Sepolcro, muoiono simultaneamente in battaglia, e vengono paragonati all'olmo e alla vite.

E' un lai che prevede il lieto fine: nonostante, dopo questo incontro, Tristano e Isotta si trovino costretti a separarsi, a fine esilio, re Marco permette di nuovo al nipote di ritornare nel regno.

*A fine post, preciso che molti lais di Maria di Francia portano come titoli i nomi di cavalieri, per cui nomi maschili ("Lanval", "Equitan", "Guigemar", "Yonec", "Milon", "Eliduc").
Non tutti interessanti ("Lanval" e "Guigemar" mi sono comunque piaciuti). Molti lais tendono a relegare ai margini i personaggi femminili, che di solito assecondano i desideri degli uomini.

18 giugno 2019

"Bàrnabo delle montagne", Dino Buzzati:

E' una lettura estiva che consiglio volentieri (oltre che il mio libro, naturalmente)!
... Anche quest'opera era parte del mio programma d'esame di letteratura italiana.
Considerando il gran caldo, la mia stanchezza sia fisica che mentale e tenendo presente che sono sotto esami fino a fine giugno, sarà un post abbastanza breve.
Barnabo delle montagne è il primo romanzo scritto da Dino Buzzati, uno dei più famosi giornalisti del secolo scorso del "Corriere della sera".
E' uscito nel '30, l'anno del compimento dei 24 anni di Buzzati.  


TRAMA:

Il protagonista della storia è Bàrnabo, un giovane guardaboschi che vive con i suoi compagni tra le montagne, in una casa collocata nella Valle del Grave, al di fuori del borgo di San Nicola (dolomiti bellunesi). 
Fra i doveri dei guardiaboschi vi è anche quello di sorvegliare la Polveriera, un deposito di munizioni ed esplosivi. 
Del Colle, il loro capo, è il primo personaggio che compare nel racconto. Ha 56 anni, ama raccontare storie e leggende, conosce benissimo i sentieri di montagna.

Una sera, dopo la festa per l'inaugurazione della nuova casa dei guardiaboschi (quella vecchia è ormai diroccata), Del Colle viene ucciso da alcuni briganti. 
Tra i colleghi di Barnabo si diffonde un clima di angoscia e di inquietudine, dal momento che tutti hanno la certezza che ci siano dei banditi sulle montagne.
Qualche tempo dopo Bàrnabo, di ritorno da un'escursione con il compagno Bertòn, si accorge che dei briganti stanno attaccando la Polveriera. Terrorizzato, fugge e si nasconde, lasciando Bertòn da solo. Terminato l'assalto, a causa del quale Bertòn è ferito, Bàrnabo viene licenziato e congedato, dal momento che, di fronte ai compagni, non riesce a giustificare il proprio comportamento durante l'attacco.

Per alcuni anni, Bàrnabo lavora allora come contadino presso un cugino che vive in pianura. Ma la malinconia e la nostalgia delle montagne non lo abbandona mai.
Ad un certo punto però, il protagonista incontra nuovamente Bertòn, che gli consiglia di ritornare in montagna. 
Bàrnabo allora ritorna, ma qualcosa è cambiato. Non l'ambiente, che è sempre e comunque fresco, suggestivo e maestoso, quanto piuttosto la funzione della Polveriera. 
La Polveriera è stata svuotata, munizioni ed esplosivi trasferiti al paese. 
Bàrnabo accetta di rimanere solo, come unico guardaboschi e come unico custode della Polveriera.
Non gode più di alcun rapporto con i suoi ex-compagni, dal momento che questi ultimi non si presentano come suoi ospiti ad una cena, in una scura sera di settembre.

Il giorno dopo questa brutta "botta" di delusione, Bàrnabo nota dei briganti che stanno circondando la Polveriera.
Inizialmente li prende di mira; ma, ora che non ha più paura, sceglie deliberatamente di non sparare. 
I briganti dopo un po' si allontanano e Bàrnabo resta a vivere in solitudine tra le montagne.

PARTICOLARITA' DELL'OPERA:

Come notava il mio docente durante una lezione, in questo libro manca una presenza femminile e Bàrnabo è l'unico guardiaboschi senza cognome.
Oltre a ciò, l'autore lascia indeterminate alcune caratteristiche di Bàrnabo, come ad esempio l'età esatta e la famiglia di origine.
Ad ogni modo, nel libro prevale l'imperfetto che, come tutti sappiamo sin dalle elementari, è il tempo dell'indeterminatezza.
Nel corso della storia, emerge in modo chiaro che Bàrnabo ama profondamente il paesaggio in cui vive: le montagne, luoghi di fascino e di solitudine, gli danno un senso di "appartenenza".
D'altra parte, da un esame di geografia della triennale, so bene che chi abita un luogo lo "possiede", dal momento che lo vive, lo modifica e dal momento che l'individuo sviluppa sentimenti, esperienze e ricordi legati al luogo in cui abita. Abitare deriva da "habeo" latino, "avere".

Il famigerato Andrea Zanzotto definisce questo romanzo "un libro di sensazioni cromatiche".
Effettivamente, diverse volte appaiono degli scorci poetico-descrittivi del paesaggio montano, simili a scorci pittorici. 
Metto alcuni esempi qui sotto:

-"Biancheggiano le crode lontane illuminate dal sole" (cap.8) Le crode sono le cime.

-"Rimane attaccato alla vetta un lembo di nebbia, pare un fumo, bianchissimo contro il cielo" (cap.9)

-"Le ombre hanno riempito le foreste, salgono per i ghiaioni, le poche nubi si dileguano nell'azzurro. Nelle valli è scuro e i venti notturni intonano la loro voce". (cap.9)

-"Mattino limpidissimo con nubi bianche che corrono per il cielo." (cap.12)


IL "SUBLIME" NEL BARNABO:

Il sublime. Per Edmund Burke, il sublime è qualcosa di sconvolgente, qualcosa di meraviglioso ma al contempo di temibile, che ci mette di fronte alla caducità umana. 
Il bello invece, è semplicemente qualcosa di piacevole.

Io il sublime in questo romanzo l'ho riscontrato nell'espressione, al cap.13, "cime immobili e burrascose".
Le cime dei monti delle Dolomiti sono imponenti ed elevate, ma la loro caratteristica inquietante è che sono attraversate da nubi dense e pesanti, che possono preannunciare un temporale.

CLAUDIO TOSCANI E IL TEMA DEL PERDONO NEL BARNABO:

Vi riassumo in modo indiretto ciò che Toscani ha detto nella prefazione alla mia edizione del libro (cioè la più recente, del 2017).
Il commento critico di Toscani si focalizza soprattutto sulla colpa di Bàrnabo e sul finale del libro.

Bàrnabo ha sbagliato e ha pagato (forse anche troppo cara, l'ha pagata).
Quando fa ritorno sulle montagne, lo muove sia la speranza di ritrovare quell'ambiente che gli piaceva tanto e quel lavoro che gli piaceva tanto, sia il desiderio di riabilitarsi uccidendo i briganti.
Accetta dunque l'inutile posto di custode presso una polveriera di prossima soppressione, subìsce poi un brutto scherzo da parte dei compagni che non si presentano alla cena.
Quando arriva il mattino seguente, Bàrnabo avvista i briganti che si avvicinano, li inquadra nel mirino ma non spara. Perché? Perché quelli, più che briganti e assassini, gli sembrano quattro vecchi dalle facce patite che ispirano più pietà che vendetta.
Per questo, il protagonista opta per la giustizia del perdono e tralascia la sbrigativa giustizia del fucile.
E, in tutto questo, il tempo appare come una sorta di "regista delle vite degli uomini".

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Venerdì sera ho presentato il mio libro. Con mia grande soddisfazione c'erano diversi miei insegnanti di scuole medie. 
Cinque anni fa ero sotto esame di maturità e mai allora avrei pensato che, in un futuro di specializzanda, avrei scritto, fatto stampare e presentato un libro proprio su tutto quello che mi faceva stare malissimo quando ero al liceo.
Ho tanto di documentazioni video su quello che ho spiegato, ma non le carico qui e non so se mai le carichero' sul blog. Intanto devo ancora scaricarle e farle sistemare.


12 giugno 2019

Commenti della critica sull'opera di Landolfi:


A distanza di circa una settimana, ho pensato di mettere anche alcune riflessioni di studiosi molto più esperti di me in ambito letterario, a proposito della Pietra lunare.
Quello che vi ho riportato martedì scorso era infatti soltanto il contenuto del mio power-point che ho presentato durante una lezione.
Dunque vi riassumerò qui sotto le considerazioni di Andrea Zanzotto e di Cesare Pavese, perché vale proprio la pena leggerle!

1a) ANDREA ZANZOTTO:

Zanzotto è autore di una raccolta di componimenti poetici intitolata Il galateo nel bosco. Ve la raccomando! L'ho in piccola parte studiata per l'esame di ieri di metrica italiana ed è veramente tosta: ha moltissimi virtuosismi linguistici! 
Ad ogni modo, Andrea Zanzotto definisce "dirompente" la fantasia di Landolfi, dichiarandola: "uno dei punti di riferimento più radiosi del Novecento italiano".
In effetti, un libro che ha tra i protagonisti una ragazza dalle zampe di capra, si potrebbe considerare tutt'oggi compreso nel genere fantasy.
Zanzotto inoltre, oltre ad osservare che "la grazia del libro è sospesa tra un sapere e un non sapere", visto che Gurù non è una creatura dalla fisionomia chiara.
Successivamente, questo poeta italiano del Novecento, inizia a concentrarsi sullo stile di questo romanzo, dicendo innanzitutto che  "La pietra lunare è poesia in ogni sua frase".
E' infatti (sia a mio avviso che secondo il parere di Zanzotto) un'opera dotata di un lessico decisamente variegato, dove il sublime viene accostato al banale (il "fantastico quotidiano" che dicevo l'altra volta citando Calvino).
La gamma di vocaboli è molto ampia: alcuni appartengono ad un registro molto elevato, altri risultano quasi obsoleti, alcuni sono dei neologismi, altri invece sono tipici regionalismi del Lazio che non saprei riportare.
Essendo sempre vissuta a Verona, sono bilingue nel senso che parlo fluentemente italiano-veronese.
Il lessico di qualsiasi altro dialetto italiano me lo dimentico dopo appena cinque minuti.

Se avete letto bene le citazioni che ho riportato nel post del 4 giugno, trovate delle espressioni molto suggestive, e in particolare, delle similitudini naturali che rendono il testo di Landolfi una sorta di "prosa poetica".
Se quello che vi ho riassunto finora richiama più o meno i contenuti del mio post e della mia relazione, ciò che viene adesso è veramente arricchente, per qualsiasi lettore di Landolfi.

Zanzotto osserva che vi sono due frasi che introducono l'incipit:

-La prima è latina: "Bene dixisti de me, Thomas", ovvero, "Hai parlato bene di me, Tommaso".
E' una frase che, nel contesto di questo romanzo, la luna rivolgerebbe all'autore. Cioè, in questo contesto, la luna verrebbe ironizzata come dea.
Landolfi però non ha inventato ex novo questa frase, perché l'ha tratta dalla Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino, dal momento che il filosofo, all'interno del suo trattato, veniva premiato dalle stesse identiche parole, pronunciate però da Cristo.
Indubbiamente il nostro autore italiano, con questa proposizione, presupponeva che il pubblico riconoscesse subito l'allusione.

-La seconda citazione è stata tratta da Novalis, poeta romantico e riguarda delle pietre misteriose trovate in una piazza vuota. Probabilmente, la citazione di Novalis è un richiamo al Romanticismo, movimento culturale che Landolfi ammirava molto.

Zanzotto riflette anche sul senso profondo dei nomi dei due protagonisti.
Per quel che concerne Gurù, dice che questo nome richiama facilmente la memoria del Guru, sacerdote orientale. D'altra parte, la ragazza-capra è una sorta di allusione al mistero lunare.
Oppure, come seconda ipotesi, il nome dato alla donna-capra potrebbe benissimo costituire un'allusione a quel "dolce grugnìto" che Gurù emette quando sta con Giovancarlo (l'ho già detto, un uomo che ha scritto un romanzo del genere dev'essere stato un tipo decisamente strano!).

Per Giovancarlo invece, Zanzotto elabora una piccola riflessione sul cognome (che a dire il vero fa abbastanza sorridere) "Scarabozzo".
Secondo Zanzotto, questo singolare cognome richiamerebbe alla parola "scarabocchio", e alluderebbe dunque alla paura dell'autore di non risultare abbastanza efficace nell'arte poetica.

Nella conclusione al suo articolo, Zanzotto si sofferma sul finale del romanzo; precisamente, su una nuova fisionomia che acquisisce la luna:

" (...) si levò la luna e il suo volto tranquillo intraprese il solito cammino. Pareva annunciare pace in terra agli uomini".

La luna appare qui come soave elemento naturale garante di pace e di serenità.
Ma solo nell'epilogo, dato che, per tutto il resto del romanzo, appare come una sorta di "madre dell'abnorme".
In effetti, la festa macabra che avviene tra i capitoli 7-9 del romanzo, è ambientata in piena notte, con la luna alta nel cielo, spettatrice anch'essa di orgie, delitti violenti, apparizioni demoniache e comparse improvvise di banditi e altre figure losche che narrano a Giovancarlo l'inquietante storia del rapimento di una sua antenata.

1b) LANDOLFI E LEOPARDI:

Landolfi nutriva un'ammirazione sconfinata per Leopardi, che viene menzionato nel primo capitolo dallo zio di Giovancarlo e che il lettore ritrova poi in appendice, alla fine di tutta la storia.
Landolfi aveva dato questo titolo all'appendice del libro: del giudizio del signor Giacomo Leopardi sulla presente opera.

Leopardi, nel giudicare La pietra lunare, si esprime attraverso alcuni frammenti dello Zibaldone, tutti relativi alla luna:

“UN UOMO TANTO MENO SARÀ GRANDE QUANTO PIÙ SARÀ DOMINATO DALLA RAGIONE; TUTTI QUELLI CHE POSSONO ESSER GRANDI NELLA POESIA E NELLE LETTERE DEVONO ESSER DOMINATI DALLE ILLUSIONI. (…)"

"MENTRE L’UOMO SI ALLONTANA DA QUELLA PUERIZIA IN CUI TUTTO È SINGOLARE E MERAVIGLIOSO, IN CUI L’IMMAGINAZIONE SEMBRA NON ABBIA CONFINI, ALLORA L’UOMO PERDE LA CAPACITÀ DI ESSER SEDOTTO, DIVENTA ARTIFICIOSO, CADE TRA LE BRANCHIE DELLA RAGIONE CHE GLI VA A RICERCARE TUTTI I SEGRETI DELLA REALTÀ. MA QUESTO SENNO E QUESTA ESPERIENZA SONO LA MORTE DELLA POESIA”.

Leopardi, questo lo sappiamo più o meno tutti, affermava che un poeta, per riscoprirsi tale, doveva tralasciare razionalità e freddezza calcolatrice per riscoprire il fascino dell'ignoto, dell'indefinito, della fantasia. Landolfi adotta proprio questo modo per risultare poetico.

Aggiungo un breve confronto fra Leopardi e Landolfi:

Il Leopardi poco più che ventenne, nell'idillio Alla luna, la definisce  "graziosa" e "diletta". E' in sintonia con lo stato d'animo del poeta, che sembra dialogare con lei. La luna risveglia, nell'animo del poeta, i ricordi del passato e le speranze verso il futuro.

Nella Pietra Lunare invece, la luna, nel corso del racconto, non è "umana" ma magica, misteriosa, dal momento che è legata alla comparsa di Gurù e di altre creature fantastiche che popolano le montagne di P.

1c) LANDOLFI E SLATAPER:

Visto che ci sono, aggiungo anche questa mia osservazione.
La luna nel Mio Carso, parte 1 pagina 25:

“E a mezzo mese, nell’ora in cui la
luna emerge dal lontano cespuglio e
si fa strada tra le nubi, candida e
limpida come un prato di giunchiglie
in mezzo al bosco, io mi sentivo
adagiato in una dolce diffusità
misteriosa, come in un tremor di

quieto sogno infinito”.

E' il mio passo preferito dell'opera di Scipio Slataper.
La luna, simile a un prato di giunchiglie, instilla nel giovanissimo Scipio sensazioni di dolcezza e di armonia con l'Universo. Però, se notate bene, traspare lievemente anche un senso di "piccolezza", di fragilità, come dimostra l'ultima parte: "in un tremor di quieto sogno infinito".

Slataper si sente parte di un mondo pieno di meraviglie ma, probabilmente come Ungaretti ("docile fibra dell'Universo", I Fiumi), si riscopre una fragile creatura.

Gurù e la luna, cap. 1 p.31:

“L’argento diffuso della luna non
voleva cedere alla giada dell’alba,
che pareva un più pallido e diafano
plenilunio, a oriente (...) Il tì ti
insistente d’una pernice si faceva
udire a dritta molto in alto (...) Gurù
si allontanava agilmente fra le
rocce, i suoi piedi di capra trovavano
con sicurezza la loro strada per
quel malagevole cammino;
scomparve un istante allo sguardo,
ricomparve più lontana, scomparve

ancora definitivamente”.


Gurù è un essere che, in piena notte, si trova perfettamente a suo agio fra i sentieri rocciosi, illuminati soltanto dalla luce lunare. E' una creatura che fa un tutt'uno con la natura montuosa, che è perfettamente a suo agio di notte, fra i colori e fra i suoni di un paesaggio naturale.


2) CESARE PAVESE:

E' un articolo del 1939 (la Pietra lunare era uscita due anni prima), in cui lo scrittore ed editore piemontese si rivolgeva direttamente a Landolfi:

" (...) il tuo motivo del caprone era il motivo del nesso tra l'uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto per la preistoria, tempo in cui si intravede una promiscuità dell'uomo con la natura-belva."

Pavese dunque considerava un po' riduttivo catalogare il romanzo di Landolfi come esclusivamente fantastico.
E' un'opinione interessante la sua comunque.
Tra l'altro, ricordo che nel 1936, il regime fascista aveva censurato una poesia di Pavese intitolata "Il Dio caprone", ma non perché fosse blasfema, quanto piuttosto perché aveva dei contenuti sessuali espliciti.
La poesia di Pavese comunque iniziava con l'immagine di un giovane che ritornava in montagna dai parenti per le ferie estive, proprio come Giovancarlo all'inizio della vicenda.


4 giugno 2019

"La pietra lunare", Tommaso Landolfi:

Circa a metà marzo, in accordo con il mio docente, ho presentato, durante una lezione di "letteratura italiana moderna e contemporanea" Landolfi e il suo romanzo più originale.
In questo post non vorrei soffermarmi a raccontare che, subito dopo la mia relazione, che è piaciuta soltanto al professore, sono letteralmente scappata dall'Università, visto che buona parte dei miei compagni di corso ridevano di gusto.
Gli adolescenti del mio paese in generale mi rispettano molto di più.
Propongo una breve inquadratura di Landolfi con l'analisi di alcune parti della Pietra Lunare.
A fine post giudicherete voi lettori se sono degna di rispetto o "meritevole" soltanto di prese in giro.
Io questo esame l'ho appena dato. Sei libri di sei autori diversi da leggere attentamente + un plico di fotocopie di critica letteraria su ognuno di loro sei: Slataper, Campana, Buzzati, Comisso, Landolfi e Pavese.
Io mi sono fatta il mazzo e, se ho passato l'esame con il massimo dei voti, non è certo stato per il mio vestitino a fiori e per i sandali con la zeppa alta!
Non c'è molto da ridere di fronte ad una domanda come: "Può ricordare alcune immagini che riporta Campana quando, nei suoi Canti Orfici, descrive l'esperienza del pellegrinaggio al santuario della Verna?"
Bisogna studiare e basta! Perché anche se abbiamo poco più di 20 anni (sì, anche 28 o 30 in certi casi!), e anche se una triennale l'abbiamo presa tutti, il coltello dalla parte del manico ce l'hanno comunque i professori, sempre! Soprattutto quando è il momento di interrogare.
Ad ogni modo,  la collocazione geografica è completamente diversa da quella di Scipio Slataper. 
Se la fonte di ispirazione di Slataper era il paesaggio triestino, per collocare Landolfi e La pietra lunare bisogna spostarsi nell'Italia centro-meridionale.

BIOGRAFIA DI LANDOLFI:

Tommaso Landolfi nasce il 9 agosto 1908 da due genitori discendenti da nobili famiglie.
Il suo paese natale è Pico Farnese, un borgo circondato da montagne che nel secolo scorso era in provincia di Caserta, ora invece è compreso nel territorio di Frosinone.
A due anni gli accade una grossa disgrazia, visto che sua madre, Maria Gemma Nigro, muore in seguito ad un aborto spontaneo al quinto mese di gravidanza.
Il primissimo ricordo della sua vita che lo scrittore porta nella mente è proprio il giorno della morte della madre.
Tommaso dunque si ritrova a dover sopportare nell'infanzia e nell'adolescenza un padre rigido, anaffettivo, che non lo comprende e che lo spedisce in vari collegi d'Italia.
Inizia a comporre le prime poesie a 12 anni.
Da adolescente, Landolfi era riservato, timido, malinconico, dotato di un'intelligenza brillante. Proprio nell'età dello sviluppo si appassiona alle lingue europee e alla filosofia.
Ottiene, nel '32, la laurea in Lettere a Firenze con il massimo dei voti. E dopo un po' di tempo (anni '50) riesce anche a metter su famiglia, con due figli: Landolfo e Maria (detta Idolina).
Muore a Ronciglione (Roma) per enfisema polmonare, nel 1979.

L'enorme difetto di Landolfi era la sua forte dipendenza dal gioco d'azzardo. Dunque, se durante l'estate si recava a Genova e nei dintorni, non era soltanto perché amava le spiagge liguri. Era anche perché nel capoluogo ligure, nel secolo scorso, fiorivano molti casinò.



Pico Farnese ai nostri giorni
Consiglio mio: andateci ogni tanto in vacanza in località del centro Italia. Ve lo dice una che, da ragazzina, amava anche gli Appennini toscani, umbri, marchigiani e laziali. Nelle regioni centrali lo stile di vita è più semplice, il tempo scorre più lentamente, l'ospitalità è sincera, la gente molto spesso è aperta e simpatica. Quando è ora di "ripartire per il nord" viene quasi da piangere, perché quel calore umano non c'è qui.


LA PIETRA LUNARE:


A) TRAMA:


Giovancarlo è uno studente universitario che è ritornato nel proprio paese natale di P. per le vacanze estive. Una sera, egli conosce Gurù, una ragazza che vive sola in un maniero abbandonato, venuta a visitare i parenti del giovane.
Giovancarlo si innamora di Gurù, che tuttavia sembra avere un’ inquietante caratteristica: di notte, quando la luna è alta nel cielo, le sue gambe sono identiche alle zampe di una capra.

Questa è la trama ridotta all'osso.

"P." probabilmente sta per "Pico Farnese".
E' una storia molto strana (come molto strano doveva essere stato il suo autore), al cui interno però ho trovato alcuni parallelismi con altri autori letterari.


B) I DUE PROTAGONISTI:


-GIOVANCARLO: 



    “Giovancarlo Scarabozzo (...) era (...)

un giovane timido. Studente ormai
al second’anno, egli amava passare
l’estate a P., dove, prima che i suoi
lo raggiungessero, menava un’assai
distesa e sufficientemente strana
vita: quasi sempre solo col suo gatto
e la sua cagna da caccia (...), egli
componeva versi, andava a caccia
sulle più lontane montagne, e
fantasticava tutto il giorno.”

(Inizio cap.3, p.41, ed. Adelphi)

La personalità del più importante personaggio maschile appare quasi identica a quella dell'autore.


-GURU':

“In primo luogo abitava lassù, dove
rimaneva quasi sempre sola, come se
non fosse fatto suo. Secondariamente
leggeva libri. Eppoi prendeva spesso
la via dell’aperta campagna, la via
verso i monti, anche di notte (...). Da
ultimo cantava tutte le ore, e qualche
volta anche dopo l’avemaria, certe
nenie strane e rivoltanti che
nessun’altra conosceva e non si sa
dove le avesse imparate. (...) qualcosa
di misterioso doveva esserci sotto;
insomma per dirla tonda, la fanciulla
era caduta in sospetto di

stregoneria.”


(Cap. 2, p.38, ed. Adelphi)

Giovancarlo e Gurù hanno in comune la caratteristica della solitudine.
Notate che in questo estratto, la figura di Gurù risulta enigmatica.
Gurù è solitaria, canta nenie strane. Secondo le dicerie di paese è sospettata di stregoneria. Quest'ultimo particolare richiama alla mente il contesto socio-culturale della prima età moderna (parlo più che altro del periodo Quattrocento-Cinquecento): le ragazze e le donne isolate o comunque sole erano sospettate di stregoneria e quindi tutte condannabili al rogo.
Altra cosa: Gurù, lo dice più volte il testo, è "lunare". Ho scoperto che in questo contesto "lunare" è sinonimo di sterile.
E' un aggettivo che mi è parso piuttosto strano, dal momento che se c'è un elemento in natura che, sin dall'epoca del neolitico, è stato ricondotto al ciclo delle donne, è proprio la luna.
La luna, per attraversare quattro fasi (nuova, crescente, piena e calante) impiega 28 giorni, ovvero, la durata ideale del ciclo femminile per realizzarle tutte. Ideale... se fosse sempre perfettamente regolare. 
Gurù è una creatura che vive soprattutto di notte e che vaga a suo agio sotto le stelle lungo i sentieri rocciosi di montagna.
Le domande che sia il lettore che Giovancarlo si porranno saranno: "Donna o capra? Quale la realtà e quale la finzione?"
Ma sull'affascinante intreccio di realtà del quotidiano e fantastico ci ritornerò fra poco, e meglio.

C)L'INCIPIT DELL'OPERA:



“«Buonasera, buonasera, da quanto tempo! Come
va?». Lo zio, in maniche di camicia e con certi
pantaloni incartapecoriti che gli torcevano le gambe
come quelle dei cavallerizzi, reggendo la porta con una
mano, coll’altra faceva grandi gesti di benvenuto e poi
d’invito a entrare.”
(...)
“Sospinto dal padrone di casa, Giovancarlo entrò nella
cucina, che era il luogo abituale di trattenimento della
famiglia.”

(cap.1 p.11, ed. Adelphi)


Il primo personaggio che compare in scena è lo zio di Giovancarlo, attraverso un discorso diretto, di saluto verso il nipote. Plateale nei gesti ma vestito assai poco elegantemente ("incartapecoriti" significa "giallastri").
Per tutto il primo capitolo prevale l'ambientazione interna: Giovancarlo e i parenti si trovano in cucina, attorno ad una tavola, a cenare.
L'atmosfera è quella di una convivialità quotidiana. Addirittura, lo zio chiederà poi a Giovancarlo se, secondo il suo parere, Leopardi è migliore di Tasso.

D) IL FANTASTICO-QUOTIDIANO:



Il sottotitolo che Landolfi dà a questa sua opera è scene della vita di provincia, e può suggerire l’idea che si tratti di una storia basata più che altro sulla rappresentazione del dato reale. 
Invece, all’interno della narrazione, si sviluppano molte situazioni assurde e grottesche.
In quest’opera realtà e fantasia si mescolano senza alcuna distinzione. 
Per questo motivo Calvino, nel recensire La pietra lunare, parla di “fantastico quotidiano”.

Un esempio di improvvisa comparsa dell'elemento fantastico-grottesco nel mezzo di una situazione realistica e quotidiana come quella della chiacchierata in famiglia è questo:



“ Il sangue gli si gelò nelle vene e quasi nel medesimo istante
gli rifluì tutto con violenza alla bocca dello stomaco. In luogo
della caviglia sottile e del leggiadro piede, dalla gonna si
vedevano sbucare due piedi forcuti di capra, di linea elegante,
a vero dire, eppure stecchiti e ritirati sotto la seggiola. E il
curioso era che queste zampe (...) parevano la logica

continuazione di quelle cosce affusolate.”

(cap. 1, pp.22-23, ed. Adelphi)

Delle zampe caprine però si accorge soltanto Giovancarlo, con un senso di sorpresa misto ad orrore.
E sembra l'unico ad accorgersi di questo particolare interessante, visto che gli altri familiari non lo notano, anzi, gli danno del matto quando dice: "Costei ha zampe di capra".


In questa storia inoltre, non sono affatto rari i “colpi di scena” e le comparse inaspettate di alcune figure, come ad esempio la prima apparizione di Gurù:

“Dal fondo dell’oscurità, resa più cupa da un taglio alto di luce
lunare sul muro di cinta, due occhi neri, dilatati e selvaggi, lo
guardavano fissamente. Egli sobbalzò, ma uno stupore e un
terrore tanto forti lo invasero, e d’altra parte quegli occhi lo
fissavano con tanta intensità, che non poté parlare né stornare
lo sguardo.”

“(...) i due occhi cominciarono a muoversi, o piuttosto a
ingrandire giacché procedevano direttamente verso Giovancarlo,
e una forma precisarsi dall’oscurità: un volto pallido, dei capelli
bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo (...). Una ragazza

ad ogni modo.”


(cap. 1, p.21, ed. Adelphi)


E) IL TEMA DELLA MONTAGNA NEL ROMANZO:


“(...) Infine ella cominciò a pregare Giovancarlo
d’accompagnarla in un’uscita sulla montagna. «Non
resisto più qui dentro», esclamava smaniosa,
contraddicendo a tutto quanto aveva detto prima
«fuori, via, sui monti, lontano! E’ più forte di me»
aggiungeva, balenandole oscuramente il cavo degli

occhi nella penombra lunare.”

(cap. 5, p.77)

Gurù implora Giovancarlo di accompagnarla in un'uscita sulla montagna. Questo passo l'ho messo soprattutto perché mi ricorda parte del contenuto di una lettera che Slataper aveva inviato a Gigetta il 18 gennaio 1912:
“Gigetta, andrem a star soli un mese nella
neve di monte? Una tenda, un sacco
impellicciato”.

D'altra parte: quale posto migliore dei sentieri di montagna per condividere cuore e corpo con la persona che si ama più di ogni altra cosa al mondo??



-La montagna e i pastori-


“ (..) presa di sbieco la costa, toccata una casipola di contadini
all’apparenza disabitata, (...) inerpicatosi faticosamente per il
Vallone del Cerro Bianco, (...) - il sentiero infine rifiata e dà
sull’aperto delle prime vallette montane, perdendovisi
amenamente con ramificazioni di ruscello; da questo punto il
cammino diviene per un tratto pianeggiante, fino alle prossime

e più dure erte. Qui è il regno dei pastori e dei carbonai (...)”

(cap. 6, p.79)

La montagna come regno dei pastori, figure sociali isolate dal contesto cittadino-borghese e immersi nella natura.
Cosa ho pensato? Proveniendo da "Lettere Classiche", all'Arcadia, regione montuosa al centro della Grecia continentale, nella quale, almeno così è il contenuto degli idilli di Teocrito, vivevano dei pastori che cantavano soavi melodie e suonavano flauti e cetre, o altrimenti danzavano al suono degli strumenti musicali.
Non era così idilliaca e paradisiaca la vita dei pastori però! Non lo è mai stata!


Ad ogni modo, anche nel corso della storia della letteratura italiana, in alcune opere del Quattrocento e del Cinquecento, l'Arcadia è stata idealizzata come "regione verso la quale andare per sfuggire dalle invidie, dalle falsità e dalle gelosie degli ambienti cortigiani". 
Questo è il "succo" dell'Arcadia del campano Jacopo Sannazaro: Sincero, il giovane protagonista, per sfuggire dalle ipocrisie della corte di Napoli, giunge in Arcadia fra i pastori e, in mezzo a loro, conosce la semplicità, la frugalità e il rispetto per la natura e per gli animali: mentre infatti, alla reggia di Napoli, gli uccelli sono tutti rinchiusi in gabbie. In Arcadia invece, volano liberi e leggeri.

-La montagna e la bellezza di Gurù-

Questo passo è particolarmente sensuale e suggestivo:

“Da una cresta di monti alle spalle di
Giovancarlo scoppia il primo sole e
investe con raggio d’ambra la fanciulla,
che raggrinza le palpebre contro la
luce. Ma al giovane un solo balenio dei
suoi occhi, ombrati da lunghe ciglia, è
bastato (...) le sue braccia nude,
abbagliano fra l’ambra come latte in una
coppa di topazio, come alabastro al di
qua d’un fuoco, come perle fra l’oro,
come neve fra i campi dorati d’autunno
(...)”.

(Cap.3, p.48, ed. Adelphi)

La montagna è strettamente legata a Gurù, come accennavo prima. 
E il sole mattutino risalta il fascino di questa creatura, dal momento che investe il suo corpo.
In questo estratto prevale il senso della vista associato alle piacevoli sensazioni di un occhio maschile. E' infatti unicamente Giovancarlo a vedere come incantevoli le braccia di Gurù.

F) LE IMPRESSIONI SOGGETTIVE DEL PROTAGONISTA:

“A Giovancarlo, durante il tragitto dal luogo
della battaglia, era parso d’udire dietro di sé
un rumor di passi nell’ombra (...)”
...

“Sembrò insomma al giovane conturbato che
da diverse parti una frotta di creature
invisibili, frusciando talvolta fra i cespugli, li
seguisse (...)”

(cap. 9, p.120)

Quel che è abbastanza evidente è la ricorrenza di verbi quali: "sembrare", "parere".
Quello che vive Giovancarlo durante quella notte (rapporti sessuali, apparizioni di fantasmi e di altre figure fantastiche durante la notte, suoni e visioni) è reale oppure è soltanto frutto della sua immaginazione? O appartiene alla sfera del sogno notturno?

E' stato soprattutto Landolfi a farmi intuire che io non sarò mai esattamente un'esperta di letteratura, nemmeno dopo questa magistrale, perché la letteratura va continuamente riscoperta attraverso riflessioni, confronti, commenti critici, ampliamento di conoscenza.
L'interesse verso delle opere letterarie, verso la poesia, verso le parole mi si rinnova continuamente, insieme alla voglia di riscoprire la loro ricchezza e il loro fascino.