2 ottobre 2019

La figura di Federigo Borromeo:

Questo sabato sarò fuori Verona. Vado a visitare Arona e le Isole Borromee, con la speranza che il tempo sia discreto e che quindi la pioggia non mi rovini il fine settimana.
Colgo l'occasione per presentarvi ciò che nel grande romanzo di Manzoni si dice a proposito del Cardinal Federigo Borromeo. 
Quasi tutto il ventiduesimo capitolo dei Promessi Sposi è dedicato alla biografia di questa figura particolarmente positiva.

INTRODUZIONE:

Però è più che giusto richiamare a ciò che viene prima.
Nel capitolo appena precedente, con una straordinaria abilità narrativa, Manzoni descrive il conflitto interiore di un Innominato che, una volta incontrata Lucia e una volta rinchiusosi in camera, si trova di fronte a se stesso e ad una vita piena di crimini e di violenze.
Compaiono forti rimorsi e, per qualche istante, persino l'intenzione di suicidarsi... Fino al punto in cui si chiede (ve lo riporto con parole mie): "Ma se ci fosse davvero l'altra vita, la vita eterna della quale mi parlavano quando ero un ragazzino? Se ci fosse davvero, perché morire?".
E allora, posa la pistola, ricordandosi della frase di Lucia che, mi raccomando, è la "scintilla", non la causa vera e propria della conversione: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!"
A questo punto, l'Innominato vuole concretizzare il proposito di liberarla, perché, in fin dei conti, chi è veramente Don Rodrigo? 
Un nobilotto di scarsa importanza, il tiranno della semplice e banale Pescarenico che vive in un palazzotto dalle imposte sconnesse e che  un po' più avanti nella narrazione incapperà tra l'altro nella disgrazia della peste bubbonica.
Poi sopraggiunge l'alba. Giù, per le strade, c'è un clima di festa. Suonano le campane e una moltitudine di persone di tutte le età affolla le vie.
Che diavolo hanno costoro?
Sono gioiosi ed esultanti perché è giunto l'arcivescovo di Milano, il cardinal Borromeo.
Ma cos'ha di così particolare quest'uomo, per rendere così allegra tutta questa gente? Voglio parlargli anch'io!
Sono questi gli ultimi pensieri dell'Innominato, prima di scendere in paese e prima di un incontro toccante, tra due uomini, ognuno con le proprie fragilità, ognuno con i propri sentimenti. 

"LA SUA VITA E' COME UN RUSCELLO":

Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume.


* la sua vita è come un ruscello è indubbiamente una similitudine che richiama una vita pura e retta, sicuramente avvantaggiata sin dalla nascita da un fattore come la buona famiglia (buona sia in senso economico che in senso morale).
Non dimentichiamo che Federigo è il cugino di San Carlo Borromeo, per cui certamente la sua è una famiglia eccellente.
Ed è un ruscello limpido che si mantiene limpido nel corso degli eventi e delle circostanze della vita.
Con quest'immagine, Alessandro Manzoni intendeva evidenziare che Borromeo è una figura molto lontana dalla corruzione e da tutte quelle mondanità che distolgono dalla saggezza, dal buon senso e dall'atto del dedicarsi sinceramente a Dio.

Quest'immagine che Luigi Russo definisce "rugiadosa" e che per me è veramente affascinante, mi fa pensare anche al fatto che Federigo Borromeo è sempre stato fedele a se stesso, è sempre stato se stesso, nonostante le difficoltà, gli ostacoli e i giudizi della gente. 
Parallelismo azzardato, ma in un certo senso vero, proprio come Zoe Trevi, la mia liceale invisibile... io, sostanzialmente io, visto che la componente autobiografica è piuttosto forte.
Certo, Zoe è nata alle soglie del terzo millennio e appartiene ad un'epoca completamente diversa, però da adolescente accetta una sfida difficile, che comporta anche sofferenza:  rimanere fedele ai suoi ideali e ai suoi sogni, malgrado le critiche e malgrado l'emarginazione e le contestazioni delle coetanee.

Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la 
vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile o santa.


Così commenta questo paragrafo di testo Luigi Russo: "Vi sono qui alcune massime della morale cattolica, contratte e simboleggiate in un uomo. Queste caratteristiche possono essere del cardinale Federigo ma anche di qualsiasi altro grande cattolico. In questo, l'agiografia si distingue dall'arte e dalla storia: l'arte individualizza e la storia umanizza, mentre l'agiografia si accontenta di simboleggiare in termini generali."

Anche qui: cos'è per voi l'arte e cos'è per voi la storia?
Ci si potrebbe discutere per ore secondo me.
L'agiografia, dal greco ἅγιος (àghios) + γράϕω (gràfo) è, letteralmente, la "scrittura di cose sante). Spesso trattava le vite dei santi. In particolare nel Medioevo, l'ho studiato recentemente in Filologia Romanza, l'agiografia era un genere letterario con l'intento di edificare il pubblico che poteva fruirne attraverso la conoscenza di buoni esempi dal punto di vista della fede e della rettitudine morale.

Dal mio punto di vista, l'arte è tutto ciò che riguarda la manifestazione di un notevole talento individuale, che sia musicale, pittorico o poetico...
E chi è dotato di uno di questi talenti è in grado di creare; di creare cultura e di trasmettere emozioni. L'artista è forse colui che è può essere più vicino alle vite degli altri...
La storia... la storia non è soltanto un susseguirsi di eventi. E' anche questo, ma non si limita soltanto a questo. E', secondo me, anche uno studio e una riflessione sui fatti stessi, e non soltanto su guerre, armistizi, trattati di pace. Fare storia vuol dire anche soffermarsi sulle organizzazioni politiche, sull'economia di una civiltà, sulle sue tradizioni religiose, sulle credenze, sul suo patrimonio di miti e di cultura.

Oltre a ciò aggiungo che il valore, o meglio, il proposito che più caratterizza la vita di Federigo, sin dall'infanzia, è l'umiltà.
L'umiltà (lat. "humilis, e") è relativa a tutti quei pensieri e a tutti quegli atteggiamenti che rendono un uomo o una donna consapevoli dei propri limiti. L'umile è per forza un individuo costruttivo, perché sa bene che la sua vita è un intenso cammino dal quale può e deve sempre apprendere qualcosa, con il tempo e con le esperienze.
Essere umili non significa mortificarsi, ma semplicemente, aggiungo io, essere molto lucidi e realisti a proposito della propria condizione umana.
L'arrogante  invece si sente, a torto, già arrivato e superiore a chiunque altro. La ragione, secondo la sua visione distorta, sta sempre dalla sua parte, anche nei casi in cui ha torto marcio. L'arrogante non apprende nulla nell'interazione con gli altri, proprio perché si sente sempre una specie di cigno in mezzo alle anatre.
Sapete da dove deriva, tra l'altro, la parola arrogante? Dal verbo latino "arrogo", o meglio, dal suo participio presente che fa "arrogans, arrogantis". In ogni tempo e in ogni modo verbale, comunque, il significato è "chiedere con prepotenza". "Multum sibi arrogare" è "presumere molto di sé".
La presunzione è qualcosa di simile, è orgoglio smisurato, è credersi molto più validi e molto più importanti di ciò che realmente si è.
(Aspettate che finisca la magistrale e che diventi insegnante e vedrete quanto sfrutterò questo romanzo per far fare ai miei studenti delle riflessioni sia sul lessico italiano sia sulle situazioni della vita!).

 ABITUDINI DI VITA:

Il testo prosegue con una data che serve da precisazione: il 1580. 
Nel 1580, Federigo, proprio come il cugino Carlo, sente la sua vocazione verso il ministero ecclesiastico ed entra quindi in un collegio a Pavia.


Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; la conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Né credette mai 
di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo (...) 


Fedele a se stesso, come dicevo poco fa.
Anche una volta divenuto arcivescovo, Federigo badava di non ismettere un vestito prima che fosse logoro affatto.
Verso la fine del capitolo, Manzoni sottolinea ancora una volta l'immensa umanità di Federigo con queste frasi: La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. 

Permettetemi un'esclamazione che deriva in parte anche dalle mie più recenti esperienze di servizio e di formazione: ce ne fossero, di ecclesiastici e di sacerdoti così! 
Sì certamente, qui ci si riferisce ad una vera e propria predisposizione a trattare con i poveri e con i bisognosi, ma ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione economico-sociale, indipendentemente dal suo modo di essere, ha bisogno di essere ascoltata, ha bisogno di umanità.
A volte mi chiedo: dov'è l'umanità nella chiesa?
Non sto generalizzando in negativo, d'altra parte come potrei, ho uno zio parroco.
E' sufficiente un'ottima preparazione teologica per essere considerato un buon sacerdote? 
Io credo ci sia anche dell'altro, tipo il saperci fare con le persone. Che, forse, è un ambito più difficile dello studio della Bibbia, ma è comunque fondamentale... Il sacerdozio, come anche il monachesimo e il matrimonio, sono prima di tutto una missione. Una missione che esige un lato umano.



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