25 luglio 2020

Il libro del Qohelet: spunti di riflessione

In un periodo storico-sociale complicato come questo,
questo libro della Bibbia ci richiama alla nostra fragilità 
ma al contempo ci permette di riflettere sul senso di ogni esistenza.

Il libro del Qohelet è formato da 12 capitoli. In queste ultime settimane, in alcuni momenti, ho avuto modo di ragionare su alcuni passi. 

Legenda prima di iniziare il post:
 
Dal momento che teologia non è un ambito di mia competenza, per poter comprendere bene questo libro mi sono fatta aiutare da alcune fonti.

- Riflessioni mie (laicissime).
-Citazioni dalla tesi di mio papà intitolata "Aspetti dell'antropologia di Qohelet".
-Citazioni dei commenti del vescovo Gianfranco Ravasi.

Consiglio la lettura integrale. Qui sono riportati soltanto alcuni frammenti del testo.
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Capitolo 1:

1Parole di Qohèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.

Il termine Qohelet, più che un nome proprio, è lo pseudonimo dietro il quale si nasconde l'autore stesso, che stupisce i suoi ascoltatori con l'ironia e l'allusione alla figura del grande re, per dare così autorevolezza al proprio lavoro.
(...) Il nome Qohelet è uno pseudonimo collegato alla radice ebraica qahal, che letteralmente significa convocare l'assemblea.

(...) Il libro conserva una perenne attualità per le domande che pone all'uomo di sempre e per la difficoltà di comprenderle da sempre. Infatti Qohelet è stato variamente interpretato o come sapiente pessimista che trova la vita priva di senso, oppure, al contrario come un'ottimista che, proprio perché vede la miseria dell'esistenza, invita a godere degli scarsi momenti di piacere che la vita concede.

3Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole?
4Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.

Il quarto versetto mi rimanda al sesto libro dell'Iliade omerica, dove le generazioni umane vengono paragonate alle foglie:"Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;/le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva/fiorente le nutre al tempo di primavera;/così le stirpe degli uomini: nasce una, l'altra dilegua."
La stessa immagine di caducità e di fugacità dell'esistenza umana compare anche in quella brevissima lirica di un Ungaretti soldato durante il primo conflitto mondiale: si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/le foglie. Quattro versi per una similitudine che mette a confronto la condizione dei soldati in trincea con le foglie degli alberi in autunno.

11Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito.


E qui, spontaneamente, ho pensato a Leopardi; più precisamente, a quell'idillio intitolato "La sera del dì di festa" e ad un passaggio relativo alla storia antica:
Or dov’è il suono/di que’ popoli antichi? or dov’è il grido/de’ nostri avi famosi, e il grande impero/di quella Roma, e l’armi, e il fragorio/che n’andò per la terra e l’oceano?/tutto è pace e silenzio, e tutto posa/il mondo, e più di lor non si ragiona. 
Allora... per gridare, gli antichi greci e gli antichi romani, non possono gridare più, visto che sono tutti quanti morti e sepolti. Però le loro opere architettoniche, filosofiche e letterarie rimangono a noi e tuttora le si studiano! Non è vero che più di lor non si ragiona. Certo, ricordiamo e possiamo ricordare"soltanto" i molti e grandi personaggi importanti politicamente e culturalmente che sono esistiti in epoca antica... 
Dei molti contadini, schiavi e artigiani esistiti in quel periodo storico sappiamo molto poco. Eppure, mi piace pensare che ognuno di loro, nonostante la povertà e l'analfabetismo, sia stato comunque "unico", con la propria storia personale, con il proprio carattere e la propria fatica. 

Capitolo 3:
1Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. 2C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. 3Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. 5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. 7Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. 9Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?

Potremmo parafrasare quanto ci dice qui la sapienza di Qohelet così: ciò che accade, accade in un dato momento storico e accade in un preciso momento dell'evoluzione della storia di una persona. Ma ogni accadimento ha anche un suo tempo,la sua occasione favorevole.

Tutte le cose possibili che può fare l'uomo, che sono esemplificate nelle 14 antitesi, sono le occupazioni che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino(...). Se questa esperienza umana è segnata dalla difficoltà del vivere è perché Dio ha posto nel cuore degli uomini l'ansia dell'eterno, un'ansia di globalità.
Dio ha posto nell'uomo il bisogno di strutturare il suo pensiero in un sistema compiuto, ma questo è impossibile,perciò l'uomo si troverà sempre a ragionare su dei frammenti, con la volontà e il desiderio intimo di creare un mosaico intero che non riuscirà mai a completare, e questo lo renderà sempre insoddisfatto, gli farà sentire i suoi limiti.

Capitolo 5:

17Ecco quello che ho concluso: è meglio mangiare e bere e godere dei beni in ogni fatica durata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà: è questa la sua sorte. 18Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche: anche questo è dono di Dio. 19Egli non penserà infatti molto ai giorni della sua vita, poiché Dio lo tiene occupato con la gioia del suo cuore.


Qohelet scopre che la ricompensa di tutte le fatiche consiste in quello che si ottiene lavorando, nella gioia che si può avere nel fare, anche se poi questa ricompensa non è tutta la gioia. (...) tutto è determinato da Dio; il fatto che un uomo sia contento di ciò che fa è un grande dono di Dio.

In questo passaggio mi è venuto naturale ripensare a tutto ciò che finora ho fatto con entusiasmo e con passione... In questi anni universitari sono state diverse le attività nelle quali mi sono messa in gioco volentieri. Non ho soltanto studiato e io non sono soltanto la mia media accademica.
In questi ultimi anni ho capito che mi sento veramente soddisfatta ogni volta che ascolto e che aiuto gli altri. 
Equivale a dire: provo felicità sia nei momenti in cui mi rendo utile che negli attimi in cui intuisco che la serenità altrui dipende un pochino anche da me. 


Capitolo 8:

6Infatti, per ogni cosa vi è tempo e giudizio e il male dell'uomo ricade gravemente su chi lo fa. 7Questi ignora che cosa accadrà; chi mai può indicargli come avverrà? 8Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della sua morte, né c'è scampo dalla lotta; l'iniquità non salva colui che la compie.

In greco, il "soffio vitale" è πνεύμα (=pneuma). Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale... Già questo io lo leggo come un "memento mori"... è a questo concetto che rimanda la corona del rosario che, durante il colloquio con Don Rodrigo, Padre Cristoforo stringe una corona di rosario con un teschio, che inevitabilmente rimanda alla morte, inevitabile per chiunque. 

Capitolo 9:

7Va', mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere.8In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.

9Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole. 10Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare.

11Ho visto anche sotto il sole che non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti. 12Infatti l'uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l'uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui.

(...) tutto è nelle mani di Dio e l'unica ineludibile certezza è la morte che, annullando le differenze tra gli uomini, rappresenta l'ultima parola sull'esistenza. 
C'è un invito a saper godere dei piccoli piaceri della vita: il cibo, l'eleganza, l'amore fedele per la propria sposa, nella consapevolezza che a nessuno è dato di sapere quando e come lo raggiungerà la sua ora, che incomberà sull'uomo all'improvviso come pesce preso nella rete o uccello raggiunto dal laccio.


Capitolo 11:

7Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole. 8Anche se vive l'uomo per molti anni
se li goda tutti, e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti: tutto ciò che accade è vanità.
9Sta' lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù. Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi. Sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio. 10Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore, perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.

7Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole: fin dall'antichità in Oriente era diffusa la convinzione che la luce fosse indipendente dal sole, come risulta anche nel primo capitolo della Genesi, dove Dio dapprima separa la luce dalle tenebre e solo in seguito crea il sole e la luna.

L'ottavo versetto di questo capitolo mi ha fatto pensare soprattutto al romanzo di Manzoni, quando nel 36° capitolo, Fra' Cristoforo rivolge ai due promessi un auspicio di fedeltà coniugale e anche un discorso sulle sofferenze della vita terrena. Il religioso in effetti, riferendosi alla prole di Renzo e Lucia, dice: "verranno in un mondo tristo, in tristi tempi, in mezzo ai superbi e ai provocatori...".
 Siamo nel lazzeretto di Milano, i due giovani sono entrambi guariti dalla peste, ma siamo in un punto in cui a Fra' Cristoforo non rimane molto da vivere, perché avverte i primi segni del male.
Comunque, mentre pronuncia questa frase, il padre dona ai due protagonisti del romanzo "il pane del perdono", quel pezzo di pane che aveva conservato per 30 anni, quel pezzo di pane che gli era stato donato dal fratello del nobiluomo che Lodovico/Fra' Cristoforo aveva ucciso in uno scontro. 
Forse non è necessario chissà cosa per dare un senso all'esistenza... se, per vivere bene, bastano la dignità, la condivisione, un progetto di vita concreto e la vicinanza e l'aiuto al prossimo...



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