27 giugno 2024

KOSTANTINOS KAVAFIS E L'IDENTITA' INDIVIDUALE CHE MUTA NEL TEMPO:

Io e Matthias stiamo per iniziare un percorso tematico di post inerenti al tema dell'identità individuale che muta nel corso del tempo e che è influenzata dalla percezione che gli altri hanno di noi.

Iniziamo con alcune poesie di Kostantinos Kavafis.

(Solita specifica ormai ripetitiva ma a mio avviso sempre e comunque necessaria: le frasi in rosso mettono in risalto i pensieri di Matthias).

BIOGRAFIA DEL POETA:

Kostantinos Kavafis, nato nell'aprile 1863 ad Alessandria d'Egitto da ricchi commercianti greci, dopo la prematura scomparsa della figura paterna trascorre la sua adolescenza tra Londra, Liverpool e Istanbul. In quest'ultima città, il giovane prende coscienza della sua vena poetica.

Il suo stile di vita è tranquillo e abitudinario, costituito da pochi ma profondi legami.

Questo letterato ha intrapreso qualche viaggio in Europa come ad esempio quello a Parigi nel 1897.

Kavafis era conosciuto e molto stimato da Edward Morgan Forster.

Ci sono giunte due sue raccolte di poesia: la prima risale al 1904 mentre la seconda invece è stata stampata sei anni dopo.

Il poeta è deceduto nel giorno del suo settantesimo compleanno a causa di un tumore alla gola.

1) UN VECCHIO:

Interno di caffè. Frastuono. A un
tavolino, siede appartato un vecchio:
col giornale dinanzi a sé, senza compagnia.


E pensa, nella triste vecchiezza avvilita,
a quanto poco egli godé la vita
quando aveva bellezza, forza e ragione.


Sa di essere invecchiato molto: lo sente, lo vede.
Ma il tempo che era giovane lo crede quasi ieri.
Oh, che spazio breve! Che spazio breve!


Riflette. A come la Saggezza l’ha ingannato.
Se n'era sempre (che follia!) fidato:
"Domani. Hai ancora tempo" la bugiarda diceva.


Gioie sacrificate... ogni slancio represso...                                             
Ricorda. Ogni occasione persa, adesso                                                          suona come uno scherno al suo senno demente                                              

fra tante riflessioni, in tutta quella pioggia                                                       di memorie, è stordito il vecchio. Appoggia                                                       il capo al tavolino del caffé... s'addormenta.

Sono molti i parallelismi che ho instaurato tra alcuni versi di questa poesia e altre opere artistiche e letterarie. Qui ne riporto una parte.

Nella prima strofa il poeta ci introduce un ambiente interno nel quale un anziano è solo in tutti i sensi: accanto a lui non c'è nessuno e sembra estraneo all'ambiente circostante. Infatti l'aggettivo appartato, in poesia, è molto spesso sinonimo di avulso dalla realtà. In questi primi versi quindi il tema centrale è la solitudine. 

Ho subito pensato all'Assenzio di Degas:


Certamente l'artista francese, con quest'opera del 1876 dal taglio quasi fotografico, voleva mettere in evidenza il problema sociale dell'alcolismo. Tuttavia, tra i due personaggi del dipinto non c'è comunicazione. Sono soli nella loro solitudine: la donna ha gli occhi persi nel vuoto, l'uomo accanto a lei sembra indifferente, immerso nei suoi pensieri.

Questa prima terzina della poesia di Kavafis e l'opera Assenzio vogliono farci riflettere sui tipi di solitudine: c'è, a mio avviso, una solitudine positiva della quale tutti dovremmo godere, ovvero, dei momenti in cui stare con noi stessi per "ricaricarci" e per poter diventare introspettivi. Tuttavia c'è anche, decisamente più diffusa, una condizione di solitudine angosciante, analoga all'isolamento, data dall'incomprensione con gli altri. Il peggio nella vita, almeno credo io, consiste nel non poter contare proprio su nessuno, nell'essere circondati soltanto da persone false, insensibili ed egoiste, pur godendo di buona salute e di una situazione economica più che dignitosa. 

I versi della seconda strofa mi ricordano una massima di Seneca, esposta nel De brevitate vitae: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus. 

Il De Brevitate vitae è stato scritto probabilmente nel 49 d.C,  quando Seneca stava ritornando dall'esilio. E' una breve opera, sempre attuale, in cui il filosofo romano riflette sulla fugacità della vita, invitando i lettori di ogni tempo ad essere padroni del proprio tempo, vivere bene il presente dal momento che si tratta di un tempo in cui per ognuno è possibile perfezionarsi moralmente.

Questa poesia è l'antitesi del Carpe Diem di Orazio: si tratta di un testo pieno di rimpianti, soprattutto a partire dalla quarta strofa. 

Kavafis sembra pentirsi di non essere stato un po' più avventato da giovane: 

Riflette. A come la Saggezza l’ha ingannato.
Se n'era sempre (che follia!) fidato:
"Domani. Hai ancora tempo" la bugiarda diceva.

Per me qui il poeta sta rimproverando se stesso per aver rimandato magari reazioni di gioia esplosiva e per non aver approfittato di occasioni che potevano essere fruttuose per la sua crescita. D'altra parte, la nostra identità è definita anche dalle nostre scelte e decisioni di vita, prese e mancate.

E così da vecchio si ritrova malinconico e... prende atto della morte che si avvicina. Almeno, per me il verbo finale "s'addormenta" richiama alla fine della vita.

2) CANDELE:

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese,
dorate, calde e vivide.


Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.


Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.


Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

All'inizio di questo componimento le candele appaiono come un segno di speranza (dorate, calde e vivide) visto che prefigurano il tempo futuro.

Tuttavia le candele spente (fredde, disfatte, e storte) che compaiono nella seconda strofa rappresentano il passato. La fila di candele spente continua ad aumentare di numero, segnale inequivocabile dell'inesorabile scorrere del tempo: Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,/come s’allunga presto la tenebrosa riga...

Questa poesia dolente mi ricorda prima di tutto i versi del salmo 89: "Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore, passano presto e noi ci dileguiamo."

Non è certo una concezione gioiosa e ottimistica dell'esistenza umana ma... che questa lirica di Kavafis, insieme al salmo poco fa citato, alludano al fatto che la sofferenza e le fatiche cambino le persone che le attraversano?

Il tema principale di questa poesia è la morte che si avvicina. 

Le candele spente suscitano in Kavafis sia amarezza, poiché gli ricordano i giorni già vissuti e quindi il tempo trascorso che non tornerà indietro, sia angoscia, visto che la morte diventa via via più prossima. L'aggettivo "tenebrosa" che definisce la riga di candele spente che si allunga per me è un richiamo alla morte.

3) ITACA:

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
augurati che sia lunga la via,
e colma di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrìgoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se resta alto il tuo pensiero, e squisita è l’emozione                                    che ti tocca l’anima. Né Lestrigoni e Ciclopi,                                                  
e neppure il feroce Posidone incontrerai,                                             
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,                                                               
se non li drizza il cuore innanzi a te.
Augurati che sia lunga la via.
Che siano molte le mattine d'estate
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
per acquistare belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi.
Recati in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.
Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni
e che ormai vecchio attracchi all’isoletta,
ricco di ciò che guadagnasti per la via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.


Itaca, in questa poesia, è il simbolo della conquista dell'esistenza, è simbolo del percorso di vita umano, in cui sono importanti sia la meta finale sia la crescita interiore durante la sperimentazione delle tappe. Quel che si acquisisce durante il viaggio è anche, per Kavafis, un'elaborazione di ciò che si porta dentro.

La patria di Ulisse rappresenta qui anche gli obiettivi che ogni essere umano coltiva: 

"Itaca ti ha donato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via./Nulla ha da darti più."

Anche se la meta finale può non essere straordinaria (Itaca è una semplicissima isola di pecore), le difficoltà, gli ostacoli e le sensazioni positive nascono da qualcosa che si coltiva dentro. Più il viaggio di vita è lungo e meglio è per le maggiori possibilità di esperire, di incontrare luoghi e persone che arricchiscono l'anima di ognuno. 

Condivido questa lettura. Itaca qui è un'isola portavoce di desideri, obiettivi umani perseguiti nel corso del grande viaggio della vita, viaggio che dura molti anni e che, se vissuto bene, porta a conoscere meglio se stessi.

A mio avviso i Lestrìgoni (giganti antropofagi) e i Ciclopi, con Poseidone, alludono ad ostacoli, difficoltà e sfide da affrontare. L'importante è non lasciarsene sopraffare, dal momento che nessuna esistenza umana è "un cielo senza nuvole".

La prima parte della seconda strofa: Che siano molte le mattine d'estate/in cui felice e con soddisfazione/entri in porti mai visti prima; è sia un invito a gustare appieno tutte le esperienze della vita, comprese le relazioni con gli altri, sia ad approfittare per ampliare le proprie conoscenze.

4) RARITA':

Un vecchio. Ormai spossato e curvo,
deformato dagli anni a dagli abusi,
lentamente cammina per la via.
Pure, com'entra in casa, per celarvi
il suo sfacelo e la vecchiezza, medita
la sua presa superstite tra i giovani.

Adolescenti dicono i sui versi.
Trascorrono in quegli occhi vivi le sue visioni.
È sua l'epifania della bellezza
di che le sane, voluttuose menti,
le sode, armoniose carni fremono.

Qui Kavafis parla di se stesso. Nella prima strofa l'autore si pone una questione molto rilevante: la sua letteratura quale impatto ha lasciato nelle giovani generazioni? 

Di seguito, sembra che, secondo Kavafis, la poesia consista nella manifestazione della bellezza di cui il poeta è artefice: "È sua l'epifania della bellezza".

In questo componimento per me è evidente il forte contrasto tra giovinezza e vecchiaia. Da vecchio Kavafis è curvo, debole, con poche energie. 

La giovinezza, la sua e quella di chi legge e apprezza i suoi versi, è vista come il periodo di vita in cui gioire, amare, godere appieno del presente.

5) LA CITTA':

Hai detto: «Andrò per altra terra ed altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
E fino a quando in questo desolato languore?
Dove mi volgo, dove giro l'occhio,
macerie nere della mia vita miro,                                                                     
ch'io non seppi, per anni, che perdere e schiantare».

Non troverai nuove terre, non troverai altri mari.
Ti verrà dietro la città. Per le vie girerai:
le stesse. Negli stessi quartieri invecchierai;
ti farai bianco nelle stesse mura
.                                                                  Perenne approdo, questa città.                                                                        Verso altri luoghi  non sperare                                                                            non c'è nave per te, non c'è altra via.

La vita che schiantasti in questa tana
breve, in tutta la terra l'hai persa, in tutti i mari.


Nella prima strofa, l'atto di emigrare dalla città equivale al volersi allontanare da uno stile di vita insoddisfacente oppure alla volontà di superare un trauma cercando nuove opportunità. Nella seconda parte della poesia invece, il poeta vuole comunicare a noi lettori che, nel corso della vita, nessuno può fingere che il dolore non esista. E' quindi necessario riconoscerlo, accettarlo, conviverci in modo tale da poterlo superare.

Kavafis dev'essere stato pessimista e triste, come la maggior parte di chi ha scritto e scrive poesie. Nelle tue ho visto anche speranza e ammirazione di una natura abbastanza spesso personificata ma... penso che la tua migliore poesia, quella emotivamente più intensa, sia "Addio ragazzo!", cioè quella che si riferisce ad un massacro degli anni '90. Secondo me il linguaggio poetico è adatto ad esprimere e trasmettere emozioni e sentimenti forti ma per lo più negativi. I sentimenti positivi per me si vivono, mentre invece gli stati d'animo negativi permettono di riflettere e per questo vengono trasposti sulla carta in forma di versi. 

Saggi e romanzi invece hanno lo scopo di tramandare messaggi e contenuti più ragionati e più filosofici.

In realtà in questa poesia io non vedo la volontà di superare il dolore o la speranza in una vita migliore, soprattutto se penso ai versi finali:   

"La vita che schiantasti in questa tana
breve, in tutta la terra l'hai persa, in tutti i mari."

6) PITTURA:

Al mio lavoro dedico cure amorose e vive.
Ma oggi mi disanima questa grande lentezza.
È l’influsso del tempo. S’accupa la purezza

del giorno. E vento e pioggia hanno tutto sconvolto.
Ho voglia di guardare, non di scrivere.
E in questo quadro un bel ragazzo miro,
recline alla fontana, a riposare.
È stanco, forse, d’aver corso molto.
Che bel ragazzo! E come l’ha ravvolto
Il divino meriggio, per farlo addormentare.
Io così lungamente siedo e miro.
E smemoro, nell’arte, dell’arte la stanchezza.

I tempi principali della poetica di Kavafis sono: lo scorrere del tempo, il contrasto tra giovinezza e vecchiaia, l'avvicinarsi della morte e la sensualità in amore. Quest'ultimo tema lo abbiamo tralasciato dal momento che non sarebbe stato inerente al contenuto del post. Chiudiamo quindi con questa sesta poesia.

Kavafis è stato anche pittore. Nonostante sia appassionato della sua pittura e della sua poesia, lo scorrere del tempo lo rende meno efficiente. Anche qui ricompare il motivo poetico della vecchiaia che toglie le energie vitali.

Nei versi: S’accupa la purezza/del giorno. E vento e pioggia hanno tutto sconvolto il vento e la pioggia sono metaforici, come se la vecchiaia che incombe fosse paragonata all'autunno. D'altronde, in Cardarelli accade la stessa analogia: 

Autunno. Già lo sentimmo venire

nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Poi si parla di un quadro... Kavafis si è raffigurato da giovane?


19 giugno 2024

Giuseppe Parini e il degrado morale dell'aristocrazia:

Giuseppe Parini è l'autore del poema Il Giorno, satira antinobiliare suddivisa in quattro parti: Il Mattino, Il Meriggio, Il Vespro e La Notte.

A) CONTENUTI E INTENTI:

Il tema cardine del Giorno è la giornata tipica di un giovane aristocratico.

In quest'opera Parini si propone come precettore del giovin signore, personaggio principale del poema. 

In realtà il poeta finge di educare il protagonista per mettere in luce prima di tutto gli immeritati privilegi di cui l'aristocrazia gode e poi smaschera anche i vizi del giovane e l'assenza di vita interiore della nobiltà italiana del XVIII° secolo.

All'interno del poema l'ironia è palese soprattutto nei punti in cui il poeta sacralizza oggetti e personaggi: il giovin signore è definito come gemma degli eroi, la toilette della dama ara tutelar di sua beltade.

13 giugno 2024

"Il sole si spegne", O. Dazai:

Il sole si spegne è un romanzo parzialmente epistolare e di natura storico-sociale. 

La prima traduzione italiana risale al 1992.

A) CONTENUTI:

1946. La classe aristocratica giapponese è in via d'estinzione.

La protagonista della narrazione è Kazuko, una ventinovenne divorziata che vive con la madre nella vecchia casa di famiglia. Tuttavia, le due donne si ritrovano costrette a vendere la loro grande dimora in via Nishikata per serie difficoltà economiche e, naturalmente, su incitazione e pressione del pragmatico zio Wada, il quale trova per loro un'altra casa in campagna ma più piccola e più modesta:

A pian terreno c'erano due stanze piuttosto grandi, una sala da ricevere di stile cinese, un atrio ed il bagno, oltre alla sala da pranzo e alla cucina. Sopra c'era una stanza di moda straniera, con un gran letto. La casa era tutta qui, ma io pensai che non sarebbe stata stretta per due persone, e nemmeno per tre, se fosse tornato Naoji.

All'inizio del romanzo, Naoji, il fratello della protagonista, risulta tra i soldati dispersi a seguito delle operazioni militari nel sud del Pacifico. Ma, verso metà romanzo, il giovane ricompare, irrimediabilmente rovinato dalla dipendenza da oppio e da alcolici.

Kazuko trova il diario del fratello, nel quale vi sono dure critiche all'aristocrazia e un cupo pessimismo verso la vita. 

Riporto alcune frasi:

"Giustizia? Non c'è, dove si trova la cosiddetta lotta di classe. Umanità? Non essere sciocco. Lo so. Significa abbattere il tuo simile a vantaggio della tua felicità privata. Uccidere. Che senso ha, a meno che non ci sia un verdetto di morte? A nulla serve l'inganno. Nemmeno nella nostra classe vi sono persone decenti. Idioti, spettri, ladruncoli, cani, pazzi, millantatori, vaniloqui, piscio da sopra le nubi."

Naoji non riesce più ad identificarsi con la nobiltà ma nemmeno con la classe popolare.

D'altra parte, ritengo opportuno trascrivere lo stato d'animo di Kazuko non così diverso da quello di Naoji:

Sensazione di impotenza, come se non fosse più possibile continuare a vivere. Onde di dolore battono incessanti sul mio cuore, come dopo una tempesta le nuvole bianche fuggono impazzite per il cielo. A volte dinanzi ai miei occhi ogni cosa diventa nebbia e oscurità, e sento che la forza di tutto il mio corpo mi scivola via fra le dita. Tutto quel che faccio mi estenua.

Importanti, all'interno di questo classico della letteratura giapponese, sono anche le lettere di Kazuko ad Hosoda Uehara, artista e scrittore conosciuto alcuni anni prima che tuttavia non le risponde mai. Nelle lettere della protagonista del romanzo, la sigla M.C. sta quasi sempre per "Mio Caro" ma, nell'ultimo messaggio, le stesse iniziali alludono all'espressione, esplicitata, di "Mio Commediante".

Oltretutto, nell'ultima lettera, Kazuko definisce se stessa e Uehara come "vittime di un periodo transitorio della moralità".

Kazuko si trova ad attraversare un periodo difficile per lei, in cui alcuni importanti elementi della cultura occidentale, come il concetto di industrializzazione e di società di massa, fanno il loro ingresso nel mondo nipponico, determinando la scomparsa della classe nobiliare giapponese.

Quando Kazuko era sposata, il marito sospettava di venire tradito. 

Ecco qui una parte di dialogo tra madre e figlia:

"Quando ti dissi che mi avevi tradito non fu perché tu avevi lasciato la casa di tuo marito. Fu perché avevo appreso da lui che tu e il pittore Hosoda eravate amanti. Quella notizia mi venne come un colpo terribile. Il signor Hosoda era già sposato, da parecchi anni, ed aveva dei figli. Sapevo che la cosa non sarebbe approdata a nulla, per quanto tu lo amassi."

"Amanti... che cosa dici? Altro non era se non un sospetto infondato da parte di mio marito".

All'interno di questi scritti epistolari, Kazuko idealizza Uehara ma, quest'altissima opinione che lei ha, svanisce dopo averlo re-incontrato in un'osteria: la notte del loro incontro infatti Uehara è ubriaco fradicio e si dimostra tutt'altro che l'essere idilliaco con il quale lei vaneggiava di avere figli.

B) FINALE DEL LIBRO:

Naoji si suicida lasciando una lettera alla sorella in cui sostiene che gli esseri umani hanno il diritto di scegliere se vogliono vivere o morire:

Kazuko. 

Non serve. Me ne vado. Non so pensare il più tenue motivo per cui continuare a vivere. Solo quelli che hanno voglia di continuare a vivere debbono farlo. Così come un uomo ha il diritto di vivere, egli deve avere anche il diritto di morire. NOn c'è niente di nuovo in quel che penso: solo la gente ha un'avversione quanto mai inesplicabilw-per non dire primitiva- contro questa idea e si rifiuta di accettarla così com'è.

C) IL SIMBOLO DELLA SERPE:

Premesso che questo animale mi suscita sensazioni di disgusto miste a paura, in questo libro, i serpenti compaiono piuttosto di frequente.

Le serpi, in questo romanzo, sono prima di tutto dei presagi di morte. 

Eccovi alcuni esempi:

-Un giorno prima che la madre di Kazuko muoia di tubercolosi, la figlia trova una serpe nera accovacciata sulla veranda.

-Quando, anni prima, il padre della protagonista è in agonia, Kazuko nota che molte serpi si sono avvinghiate ai rami degli alberi del giardino.

D) ALCUNE NOTIZIE BIOGRAFICHE SU OSAMU DAZAI:

Osamu Dazai è stato indubbiamente una personalità talentuosa ma problematica.

Nato nel 1909 da una famiglia di aristocratici proprietari terrieri, a 25 anni aveva già tentato il suicidio per tre volte e a 26 era diventato morfinomane. Si era iscritto alla facoltà di letteratura dell'Università di Tokyo anche se, pur risultando brillante, non ha mai concluso gli studi.

Ha avuto diverse relazioni sentimentali e, per il Giappone del secolo scorso, Dazai era ritenuto un personaggio scandaloso e immorale.

Il 1947 è stato l'anno della sua fama letteraria dal momento che sono stati pubblicati due suoi romanzi: La moglie di Villon e Il sole si spegne

D'altro canto, il 1947 è stato anche l'anno del suo suicidio riuscito (si è annegato nelle acque del lago di Tamagawa nei pressi di Tokyo).

6 giugno 2024

"Il giardino dei ciliegi", A. Cechov:

Il giardino dei ciliegi è l'ultima opera teatrale di Anton Cechov. 
E' ambientata nella Russia di inizio Novecento ed è stata rappresentata per la prima volta da Stanislavskij nel gennaio 1904 al Teatro d'Arte di Mosca.

1) CONTENUTI E TEMI:

Questione centrale, in questo dramma, è una villa in campagna messa in vendita all'asta; mentre invece i temi principali sono il tramonto della classe nobiliare e il conseguente delinearsi del sistema di valori borghesi. 

E' molto importante tener presente che la casa e il giardino in vendita sono legati prima di tutto ad una memoria dolorosa, dal momento che per la protagonista Ljuba rappresentano i ricordi di buona parte della sua vita e purtroppo... la tragica morte del figlio bambino:

LJUBA= Il mio Griscia... il mio bambino... Griscia... bambino mio... Mio figlio è morto annegato...

D'altra parte però, la vendita della casa e del giardino dei ciliegi per Ania rappresenta un'opportunità di futuro, di inizio di una nuova vita.

2) PRESENTAZIONE DEI PERSONAGGI:

FIRS= E' il più anziano ed è decisamente uno zarista che rinnega l'abolizione della servitù della gleba. La sua malattia, alla fine del quarto atto, è una metafora che accentua maggiormente la decadenza dell'aristocrazia, come d'altronde le frasi conclusive del dramma:

FIRS= La vita è passata, e io... è come se non l'avessi vissuta. Sdraiamoci qua... Non ho neanche più la forza... dov'è andata a finire? Se n'è andata, la forza... se n'è andata...

Si sente un suono remoto dal cielo: il suono d'una corda di violino che si spezza, un suono triste, moribondo... Torna il silenzio, e si sente solo, lontana, la scure che s'abbatte su un albero.

LJUBA= Si tratta di una donna infelice, proprietaria della villa di campagna, che rappresenta l'aristocrazia incapace di gestire il patrimonio economico.

GAIEV= E' il fratello di Ljuba ed è emblema della nobiltà vuota che non sa trovare significato alla vita.

TROFIMOV= E' un intellettuale di idee bolsceviche.

CHARLOTTA= La governante della villa, di umili origini.

LOPACHIN= Giovane pragmatico, concreto,  materialista e intraprendente, è simbolo della borghesia mercantile.

Riporto alcune citazioni che dimostrano le caratteristiche appena enunciate di Lopachin:

LOPACHIN= "Lei (a Liuba) sa che il giardino dei ciliegi di sua proprietà dev'essere venduto per pagare i debiti... lottizzando il giardino dei ciliegi e tutta la proprietà lungo il fiume in appezzamenti da affittare per costruire villini, lei avrà una rendita netta netta di venticinquemila rubli l'anno.

LOPACHIN= A un certo punto bisogna decidersi: il tempo stringe. La questione è di una semplicità elementare. I terreni, li volete lottizzare o no?

VARVARA= E' la figlia adottiva di Liuba. Realista e volitiva, è innamorata di Lopachin.

ANIA= L'ingenua e pura figlia di Liuba.

3) I CILIEGI:

Si tratta di frutti che, in questo contesto, rimandano ad una sensazione di profonda malinconia, dovuta all'inesorabile fine di un'epoca, che permea il contenuto dell'opera.

(In Giappone l'albero di ciliegio è un richiamo alla vita terrena, unica, bella eppure effimera).

4) ALCUNI COLLEGAMENTI INTERTESTUALI:

4a) LA PRECARIETA' NELLE VITE DEI SALTIMBANCHI:

-CHARLOTTA= Non ho un vero passaporto; non so quanti anni ho, e mi sento sempre come una ragazzina... Quando ero bambina mio padre e mia madre giravano per le fiere, facevano i saltimbanchi: erano bravi... Io facevo il salto mortale e altri numeri.

Contemporaneamente a questo dramma teatrale di Cechov, in Europa; e soprattutto in Arte e in Letteratura, si mettevano in luce le condizioni di vita tristi e precarie dei saltimbanchi da circo.

Pensate ad esempio al dipinto di Picasso La famiglia dei saltimbanchi. Pur essendo una famiglia, i tristi personaggi appaiono isolati e sconnessi tra loro su uno sfondo desertico, all'insegna di una certa incomunicabilità.

C'è un'altra opera di Picasso, intitolata Acrobata e giovane equilibrista, che ben delinea la sofferenza interiore dei due personaggi, soli e senza radici. Sullo sfondo, gli unici elementi che riusciamo a distinguere tra le colline aride sono un bambino, una cane e un cavallo.


Non so quanti di voi la conoscano, ma anche Il circo, di Georges Seurat, trasmette una sensazione di tristezza e incomunicabilità data dalla netta contrapposizione tra l'entusiasmo (forzato) di chi esegue il numero e l'indifferenza del pubblico sugli spalti.

Il film Il circo di Chaplin, permeato di poesia, delinea bene la condizione di vagabondaggio, instabilità e malinconia di acrobati, cavallerizzi e saltimbanchi, soprattutto nel finale in cui Chaplin vede allontanarsi i carrozzoni del circo per il quale, per un determinato periodo, ha prestato servizio.

Passando alla letteratura moderno-contemporanea, Opinioni di un clown dell'autore tedesco Heinrich Boll è un romanzo in cui il protagonista Hans, volendo inseguire la sua aspirazione di clown, si ritrova isolato, incompreso ed emarginato dalla società oltre che senza soldi e senza successo

4b) LA NATURA È INDIFFERENTE ALLA CONDIZIONE UMANA?

-GAIEV= Oh natura divina, tu che splendi di eterna luce, stupenda e indifferente, tu, che noi chiamiamo madre, e in te racchiudi la vita e la morte, tu tomba e grembo...

I vaneggiamenti di Gaiev in questo punto mi richiamano Leopardi, o meglio, l'evoluzione del suo pensiero a proposito della natura: se infatti, il Leopardi ventenne dialogava con una luna che sembrava ascoltare il suo dolore (Ma nebuloso e tremulo dal pianto/che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci/il tuo volto apparia, che travagliosa /era mia vita: ed è...), il Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia avverte la luna e la natura come entità completamente indifferenti alla condizione umana (Dimmi, o luna: a che vale/al pastor la sua vita,/la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/questo vagar mio breve,/il tuo corso immortale?).