19 dicembre 2017

Umiltà e infinito in "Città vecchia":


Stavo per finire la quinta liceo quando ho letto questo componimento di un grandioso poeta triestino che ho già citato nella recensione del film "Basta guardare il cielo".
La Trieste degli anni Dieci

CITTÀ VECCHIA, UMBERTO SABA:

Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via.

Dunque, innanzitutto, per città vecchia si intende il centro storico di Trieste, zona in cui il poeta aveva dimorato per diversi anni prima del matrimonio.
Nella prima strofa sono presenti delle parole che delineano alcuni tratti della zona e del momento in cui Saba la percorre: ci sono delle pozzanghere, quindi si potrebbe benissimo immaginare una giornata autunnale o di inizio di primavera in cui le nuvole, dopo aver riversato la pioggia sui terreni, si lasciano attraversare da tenui raggi di sole. La strada appare gremita di persone. E i fanali?
Tenete presente che questa poesia è stata scritta più di cent'anni fa. Nel 1910, anche nelle città dal Nord Italia, era molto raro vedere qualche automobile che percorreva le strade di una città.
Pensate soltanto che in "Luci della città", film di Chaplin del 1931 il possesso di un'automobile era considerato esclusivamente un privilegio per ricchi sfondati.
Nel film Chaplin, nel cercare di corteggiare una giovane fiorista cieca, riesce a farsi prestare da un amico milionario un'automobile per accompagnarla a casa dopo il lavoro.
Quando la ragazza racconta (oddio, il film è muto, però si nota l'entusiasmo nell'espressione del viso e nella concitazione dei gesti) alla nonna questo episodio, quest'ultima le dice, secondo i sottotitoli: "Oh, allora dev'essere senz'altro ricco".
Bene, parentesi chiusa.
Non dovete immaginarvi il fanale come quelli delle auto. Casomai pensate ai lampioni, perché è abbastanza probabile che l'autore alluda ad essi.


 E' un dipinto di Ernst Ludwig Kirchner, realizzato nel 1913. Si intitola "Cinque donne per la strada", relativo ovviamente alla problematica della prostituzione. Al di là delle figure filiformi e nere come i corvi delle donne, fate attenzione alla luce del dipinto: è una mezza via tra il verde e il giallo. Verdastro o giallastro si potrebbe dire.
E' la resa dell'effetto della luce dei lampioni in una strada di città.
Pozzanghere rese un pochino gialle per il colore dei lampioni nella poesia, strade e asfalti giallastri in Kirchner per rendere l'idea di una luce artificiale, accompagnata a indubbia miseria morale.

All'inizio della seconda strofa il poeta descrive ciò che vede mentre percorre le vie del centro. E, a proposito di prostituzione e di lascivia (è questo il termine??), il  lupanare è il bordello. 
Anche i grandi geni della pittura francese del XIX° secolo frequentavano questo postaccio. E in effetti penso a Manet.

"L'infinito nell'umiltà" è, almeno a mio avviso, l'espressione chiave del componimento.
Ma non è contraddittoria? L'infinito non ha confini, questo ce lo spiega il prefisso negativo "-in" ereditato dal latino, ma l'umiltà???
L'umiltà rimanda a qualcosa di piccolo, di fragile, di limitato.
In effetti, con "umiltà" Saba intende riferirsi ai passanti che egli stesso incontra con gli occhi: li vede svolgere le loro attività e il loro lavoro. Quindi, non sta certamente parlando di persone agiate, ma di ceti medio-bassi, di esponenti di una piccola borghesia che compie dei sacrifici giornalieri per poter mantenere decorosamente famiglia e casa.

L'infinito qui è paragonabile al sentimento di compassione, ma anche a un senso di condivisione. 
La tematica è chiarita più avanti: "sono tutte creature della vita e del dolore". Proprio come il poeta e come qualsiasi altro essere umano esistente al mondo.
Tutti soggetti allo stesso destino finale, tutti soggetti alla precarietà dell'esistenza e a varie emozioni e stati d'animo, tra cui il dolore.
Vittorio Alfieri, in un capitolo della sua biografia, disprezza gli umili. Penso ad un passo antologico che ho studiato relativo all'episodio in cui egli con la sua amante parigina, cerca all'inizio della Rivoluzione Francese di fuggire dalla città in subbuglio con una carrozza e con corpose valigie.
Da aristocratico quale è, Alfieri non comprende le cause della Rivoluzione. L'enorme rabbia della "plebe", da lui paragonata a "bestie selvagge e feroci".
In Saba non c'è disprezzo. Tenete presente però che Saba è sempre stato un uomo semplice, abituato ad uno stile di vita frugale e assai sobrio. Non era né nobile né alto-borghese tra l'altro e, al contrario di Manzoni, non possedeva terreni.
Il "Signore" non è Dio. E' un termine che dal punto di vista semantico è utilizzato in modo davvero insolito, dal momento che indica ciò che di fondamentale caratterizza l'esistenza umana, cioè il binomio vita-dolore.

C'è un reale contatto tra il poeta e tutti gli umili che vede?? No, perché l'autore non rivolge la parola a nessuno. E' come il sognatore de "Le notti bianche" di Dostoevskij: passeggia e osserva, ma non apre bocca.

SPESSO IL MALE DI VIVERE, EUGENIO MONTALE:

Non potevo non citarla.

Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.


Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Montale si sente invaso da questo male di vivere, che altro non è che la sua perenne condizione di angoscia e di insoddisfazione, di non armonia con il mondo che lo circonda (ha visto entrambe le guerre mondiali).
Certi participi passati della prima strofa esprimono degli elementi naturali sofferenti.
Egli proietta la sua angoscia nel dolore universale: sembra quasi che egli, come essere umano, intuisca la sofferenza degli oggetti.
Facevo così anch'io da bambina: se per esempio qualche mio coetaneo strappava dei fili d'erba, io rabbrividivo perché immaginavo che gli altri fili piangessero e fossero in grado di provare il dolore di una perdita improvvisa di qualcuno di caro. Oppure, quando in certe sere d'estate pioveva molto e il vento staccava dei rami o delle foglie, pensavo: "Ma che vento cattivo! Strappa e non pensa che magari le foglie stanno bene dove sono e vogliono cadere a partire da ottobre, e non a giugno".
Sì oddio, già da qui vi rendete conto di quanto ero e sono poco normale.

La "divina Indifferenza" non è riferita ad un atteggiamento di Dio, quanto piuttosto ad una condizione esistenziale puramente soggettiva, che in certi momenti al poeta pare quasi divina, nel senso che, se un essere umano adotta costantemente questo stato d'animo, evita di soffrire per ciò che avviene nel mondo.
Ma si vive davvero con l'indifferenza??
Secondo me l'indifferenza è sinonimo di non-vita: se non ti importa di nulla, se non ti prendi a cuore nessuno, non vivi davvero. Sei ai margini dell'esistenza, e non comprendi appieno lo scorrere degli eventi.




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