7 settembre 2021

"Non ci resta che vincere": la bellezza del crescere insieme

L'arte di vincere la si impara nella sconfitta.

(Simòn Bolivar)

Io lo definirei un film di formazione. 
In effetti in questa storia tutti i personaggi imparano qualcosa di importante e di costruttivo: il protagonista si rende conto che per lui è finalmente arrivato il momento in cui prendersi delle grandi responsabilità e il gruppo di disabili ai quali è chiamato a fare da allenatore impara a divenire una vera e propria squadra; e non soltanto in senso sportivo.

TRAMA E CONTENUTI:

Siamo in Spagna. 

Marco Montes, uomo ormai in età matura, è un allenatore professionista di basket. Va molto orgoglioso del suo lavoro, da molti è considerato un ottimo allenatore ma... a inizio film appare al pubblico come una persona scontrosa e piuttosto prepotente: questo comportamento è dovuto soprattutto ad una profonda crisi con la fidanzata Sonia, con la quale ha interrotto la convivenza. 

"Vogliamo due cose diverse", spiega con nervosismo a qualche suo collega che gli raccomanda di tenere a bada i nervi nonostante i problemi personali.  Ad ogni modo, Marco e Sonia sono in crisi per il fatto che lei sarebbe molto più determinata ad affrontare il passaggio cruciale da coppia a famiglia. 

La vicenda fra questi due adulti rimanda a due personaggi di D'Avenia, presenti nel romanzo Cose che nessuno sa, comunque più giovani dei personaggi di questo film: nel secondo romanzo di D'Avenia infatti il professore di Lettere di Margherita non si sente abbastanza pronto a sposarsi e a iniziare un progetto di famiglia con la fidanzata Stella. Indubbiamente D'Avenia, oltre a proporre tematiche come la crescita, il dolore, l'abbandono, l'evasione, l'importanza dell'espressione artistica e la forza di volontà, tratta anche di due giovani adulti che, dopo qualche tempo dall'inizio della loro relazione affettiva, si trovano ad un bivio: siamo stati e stiamo molto bene insieme. Finora ci siamo supportati a vicenda. Perché non passiamo oltre? 

Adesso che sono adulta anch'io e che, in senso sentimentale, mi trovo in una situazione di attesa, riesco a comprendere bene la figura di Stella e le sue motivazioni, che tanto criticavo quando avevo 17 anni. 

Cioè, lei, proprio come Sonia in Non ci resta che vincere, si chiede: Perché io mi sento pronta a compiere un grande passo e lui da questo punto di vista è ancora un ragazzo? Cosa sta succedendo alla nostra coppia? Perché l'uomo che amo è ancora così insicuro, pur conoscendomi bene, pur sapendo di potersi affidare a me?

Vorrei riportare alcune frasi di una lettera che Stella scrive al professore di Lettere. Una lettera che adesso so comprendere appieno e che giudico bellissima ed emozionante:

Hai il coraggio di un leone, quando ti metti in testa di costruire... Ma quando ti chiedo di costruire giorno per giorno, torni fragile, ti perdi nelle macerie di ciò che hai creato tu stesso e che distruggi subito dopo, per paura che quella casa ti soffochi. (...)

Per i tuoi ragazzi a scuola, per i tuoi amici sei un grande, la tua armatura di parole luccica al sole della vita come quella del cavaliere inesistente. Ma io ti vedo oltre quell'armatura, io ho guardato dentro quell'armatura e per me sei un ragazzo dai mille buchi.

(...) ma sono io ad amarti più di tutti, perché di te vedo tutto e amo tutto.

Tu non vuoi che gli altri vedano le tue fragilità. Hai paura che ne ridano. Ma quello che ti sfugge è che io ti guardo da vicino. Io ti ho scelto. Io ti amo. Io voglio vivere con te. (...) 

Forse ti sfugge che io sono dalla tua parte, combatto con te.

Tornando al film, ricordo bene una scena in cui Marco e Sonia, ancora poco dopo l'inizio del film, si incontrano in un bar e, quando si arriva a parlare della questione figli, Sonia gli dice: "Sei un eterno Peter Pan". 

Ed ha ragione. Una quarantenne non può più rimandare il momento della maternità. Marco Montes non è cattivo. Però ha una paura boia al pensiero di divenire padre.

Io credo che nei ragazzi e negli uomini sopravviva sempre un po' della loro parte bambina, anche nei più sensibili. Ad ogni modo questo non significa che automaticamente tutti loro siano immaturi e irresponsabili. 

A volte essere un po' bambini significa più che altro mantenere un pizzico di ingenuità anche da grandi, oppure essere dei sognatori.

Ma per quale motivo Marco Montes si ritrova a insegnare le regole della pallacanestro a dei disabili intellettivi?


Marco viene licenziato dal lavoro dopo aver aggredito un suo collega durante una partita.
Una sera guida ubriaco per le strade della città in cui vive e provoca danni ad un veicolo della polizia. Quando viene fermato dai poliziotti oppone resistenza.
Per questi motivi gli viene ritirata la patente per due anni e viene assegnato per nove mesi a lavori socialmente utili. Così si trova costretto ad entrare in una comunità per disabili in modo tale da poter fare loro da allenatore di pallacanestro. Gli approcci iniziali con il gruppo non sono affatto facili; anche perché ammettiamolo, Marco inizialmente non ha voglia di occuparsi dei suoi giocatori: "Non posso essere responsabile di persone di trent'anni che si comportano come bambini di sei!", "Il mio lavoro è allenare giocatori normali. Loro non sono giocatori e non sono normali". 

Ritengo il direttore della cooperativa di disabili una figura molto positiva: è lui che in un primo momento spiega all'allenatore che "quei sub-normali" sono tali per complicazioni dovute al parto o durante la gravidanza. Eppure, le loro vite quotidiane risultano ben organizzate, con sveglia la mattina presto e orari di lavoro ben precisi. 

Inoltre, per motivare maggiormente Marco, il coordinatore del centro iscrive "i  ragazzi" ad un campionato nazionale. 

A quel punto allora Marco e "i ragazzi" iniziano ad allenarsi duramente per raggiungere l'obiettivo della finale, migliorando sempre di più i loro rapporti di settimana in settimana. L'allenatore prende coscienza dell'importanza dei rapporti umani proprio grazie a dei disabili intellettivi che iniziano a mostrargli riconoscenza e iniziano a riconoscere il suo talento come giocatore e come istruttore. 

Pensate alla frase di Roman, uno di loro: "Sai, sei bassetto... ma non per la pallacanestro!".

Da segnalare inoltre l'importanza che proprio Sonia riveste nel creare un gruppo non soltanto di giocatori ma anche di persone: per un periodo infatti, ogni fine settimana, è lei a guidare un pullmann che li porta in varie città e in varie località per poter giocare le partite.

Bellissima infine la scena finale in cui la squadra di Marco, ovvero, i "Los Amigos", affronta una partita, quasi sempre in situazione di parità, con un'altra squadra di disabili (i "Los Enanos"). 

Bellissima perché, pur perdendo per un pelo, i "Los Amigos" abbracciano i loro avversari e godono con loro della vittoria. 

Alla fine dei suoi nove mesi da allenatore e da volontario, Marco Montes lascia il gruppo piangendo dalla commozione, pronto per affrontare un importante cambiamento di vita.

Se penso a quante volte è successo e succede a me, nei giochi, di perdere una partita per un punto o due per via di un errore casuale o anche banale... e non me ne è mai importato granché di perdere.

Concludo la recensione, per poi passare ad un breve confronto con un altro film, con un commento che ho trovato sul web:

Questo è un film che non sfrutta i disabili per far ridere pur consentendoci di divertirci (e non poco) dinanzi alle loro reazioni. C'è un profondo rispetto nei loro confronti perché li si racconta come sono e, attraverso la figura di Marco, si portano sullo schermo i pregiudizi che i cosiddetti normodotati nutrono (talvolta negandolo a se stessi) nei loro confronti.


"NON CI RESTA CHE VINCERE" VS "HARDBALL":

Preciso che Non ci resta che vincere è un film uscito nella primavera del 2018. 

Quando ero educatrice adolescenti un mio "collega", ritenendomi una figura "troppo accademica" per i ragazzi dal momento che, a suo parere, proponevo temi troppo impegnativi come la fiducia, i sogni, l'identità vs gruppo, ha proposto a me, ai ragazzi e agli altri co-animatori, la visione del film Hardball. (Don Marco non lo conosce affatto questo film, lo so perché un po 'di tempo fa glielo avevo chiesto).

"Va bene", abbiamo detto. E io, per nulla prevenuta, intanto pensavo: "Abbiamo lavorato per buona parte dell'anno sull'identità e sull'importanza dei legami e della fiducia. Magari sarà un film che propone proprio questo tema. Quindi non è affatto un male!"

La trama invece non è molto significativa: siamo negli Stati Uniti e, per la precisione, nelle periferie di Chicago, e c'è questo giovane, Conor O'Neill, sbandato, sghiandato e pieno di debiti che trascorre, tra l'altro, mezze giornate nei bar a cincischiare. Ma un amico, un buon samaritano, gli propone un lavoro abbastanza redditizio (da 500 dollari la settimana se non ricordo male): allenare una squadra di bambini in un quartiere malfamato di Chicago. Lo sport però in questo caso è il baseball. Come è facile immaginare, i bambini hanno un po' tutti delle situazioni socio-familiari da paura. D'altra parte tutt'oggi i quartieri nei quali dimorano i neri sono quartieri degradati e poveri. Non credo che gli Stati Uniti siano cambiati molto da questo punto di vista rispetto al secolo scorso.

Bisogna riconoscere tra l'altro che c'è più di una scena di violenza in Hardball.

Si è cercato di parlare con i ragazzi dei contenuti del film (si trattava di un gruppo di quattordicenni- quindicenni ormai alla fine del loro primo anno di scuola superiore).

Risultato: mutismo, indifferenza, nessun riscontro o commento entusiastico da parte dei nostri "animati".

Solo un ragazzo ha detto su Conor: "Veramente a me sembra che facesse l'allenatore più che altro per prendere soldi, non per voglia o entusiasmo. Non gli interessava nulla dei bambini".

Saprete che a quell'età non hanno molti peli sulla lingua. Però aveva ragione.

C'è una scena in Hardball relativa alla morte di un bambino, Gerrius Evans soprannominato G-Baby. Pareva anche a me l'unica scena "salvabile" del film, come poi mi ha detto in disparte una ragazzina. 

Al funerale di G-Baby Conor sale sull'altare per parlare di un episodio di squadra, accaduto pochi giorni prima della morte del bimbo. Ma il succo è questo: "Ha fatto due tiri giusti e ci ha fatto vincere. Per alcuni istanti mi sono sentito una persona migliore".

Ora ci ripenso e mi faccio alcune domande critiche anche su questa scena: che significa? La vittoria ad una partita ti rende una persona migliore? Vedere un bambino piccolo, basso per gli standard del baseball, segnare due punti esatti ti rende felice oppure ti rende felice e migliore il rapporto, al di là di una singola partita, che hai instaurato con il bambino e con gli altri bambini? Perché allora non ricordare in generale la figura di G-Baby al suo funerale piuttosto che un singolo episodio in cui fa vincere la squadra? (E' questo a mio avviso che si fa fatica a capire.) 

Ad ogni modo questa storia di Hardball mi aveva fatto capire che, se siamo animatori/educatori adolescenti e il curato che dovrebbe coordinarci è una figura debole o assente, bisogna stare più uniti: trovarsi insieme per le programmazioni e anche per vedere se il film che propone una persona è effettivamente adatto a degli adolescenti, cioè, se può trasmettere qualcosa. 

E poi, mi dispiace ammetterlo per i ragazzi che avevo allora come "animati", ma quell'anno mancavano i giochi, che secondo me sarebbero importanti per la gente da primo biennio. Cioè: non siamo a scuola. E' il gruppo adolescenti di due ore la settimana, di una sera la settimana in sostanza... è utile proporre ed esporre argomenti che li toccano da vicino, però è bene che si divertano anche. Io ero più portata a proporre riflessioni brevi sulle tematiche proposte e a organizzare attività semplici su fogli in A5, su cartelloni e su biglietti. Mancava proprio il gioco.

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