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30 aprile 2019

Il sonetto e la tecnica dell'epifonema:


Il sonetto e la tecnica dell'epifonema.
Post su come la "ferrea" logica della metrica italiana si relaziona ai contenuti e ai motivi dei testi.Provo a scrivere, senza libri di testo né quaderni davanti, alcuni degli argomenti di stilistica e metrica italiana che ho studiato in queste settimane.

LA FORMA METRICA DEL SONETTO:


La parola "sonetto", come spiega Pietro Beltrami nel suo manuale "Gli strumenti della poesia", deriva dal provenzale "sonet", che è il diminutivo di "son".
"Son" corrisponde all'italiano "melodia".
E' importante tener ben presente che, sia in epoca medievale che in epoca rinascimentale, le forme poetiche erano più o meno tutte legate a delle esecuzioni in musica.
Ad esempio si pensi al mottetto, (dal latino, "mottus"), componimento in 15 versi, fiorito soprattutto nella Francia del XIII° secolo; e destinato alle celebrazioni liturgiche.
Sulla base della sua originaria etimologia il sonetto quindi, è ritenuto una "piccola melodia", dal momento che la sua lunghezza è decisamente minore rispetto a quella di una canzone.
Basti richiamare alla mente le canzoni del "Rerum vulgarium fragmenta" di Petrarca: esse sono componimenti ben più ampi e dotati di una struttura un pochino meno rigida rispetto alla metrica dei sonetti.
Nelle canzoni infatti, il numero di versi e il numero delle strofe è variabile, lo schema delle rime abbastanza, dal momento che, a partire dalla seconda strofa, l'autore deve impegnarsi a rispettare con coerenza lo schema delle rime applicato nella prima strofa.
Riporto indirettamente un'osservazione di Dante a proposito del sonetto e della canzone, espressa nel "De vulgari eloquentia" ("Sulle capacità espressive della lingua volgare"): la canzone è un genere superiore al sonetto, dal momento che tratta e deve trattare tematiche politiche, amorose e filosofiche.
Partiamo dal fatto che il sonetto è una forma poetica chiusa, ovvero, una forma poetica dotata di una struttura strofica che non può essere variata e formata da un preciso numero di versi (14 in totale).
I versi che compongono un sonetto sono sempre endecasillabi (11 sillabe)?
Nella maggior parte dei casi sì. 
Ma, nei sonetti minori (composti tra Trecento e Settecento), tipici di un nostro ramo culturale un più popolareggiante, si trovano degli ottonari (otto sillabe totali- accenti fissi nelle posizioni di  7° e 3°).

Anche se gli studenti lo incontrano più che altro nell'affrontare quella parte del programma di letteratura italiana che include Duecento e Trecento, in realtà, la forma del sonetto continua ad essere utilizzata nella tradizione italiana fino al Novecento inoltrato, in particolare, con Andrea Zanzotto e la sua raccolta intitolata "Il galateo del bosco".
Da non dimenticare inoltre anche Foscolo (Primo Ottocento), con poesie in forma di sonetti come "A Zacinto", "Alla sera", "In morte del fratello Giovanni".

Il sonetto, lo sa qualunque sedicenne che studia alle superiori, è suddiviso in due parti: la prima, ovvero, la fronte (frons, frontis), è formata da due quartine, la seconda, cioè la sirma (σύρμα, "sirma", "strascico"), da due terzine.

Matematicamente, dunque, i versi si contano in questo modo: 

[(4+4) + (3+3)]=
 [8 +6]= 14.

IL SONETTO IN DANTE:

Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,

sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond’è laudato chi prima la vide.

Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.


("La vita nuova", cap. XXI°).

Due quartine e due terzine, giustamente. 
Questo sonetto è sicuramente monotematico: in tutti i 14 versi si parla degli effetti che questa donna meravigliosa suscita in tutti coloro che incontra.
E' un sonetto "circolare", perché l'aggettivo "gentil" compare all'inizio (v.2) e anche alla fine (v.14).
Gentile in questo contesto è sinonimo di "nobile" e di "amabile".
Bella è anche la disposizione della sintassi, volta a rispettare le strutture metriche: un periodo occupa le due quartine, un altro comprende solo la prima terzina e il terzo, tutta la seconda terzina.
Dante fa anche delle analisi sui suoi componimenti, e bisogna ammettere che risulta essere un ottimo critico letterario.
Sostanzialmente, dice che questo sonetto contiene tre variazioni del medesimo tema: la prima, che comprende le due quartine, è relativo agli effetti benefici che lo sguardo della donna genera nei passanti: il cuore trema, si prova vergogna per i propri difetti, ira e arroganza scompaiono miracolosamente.
La seconda variazione sta tutta nell'ultimo verso della seconda quartina: "Aiutatemi, donne, farle onore". E' un'esortazione rivolta ad altre donne.
Non so come fossero caratterialmente le donne del Duecento (e mai lo saprò), ma, con i tempi che corrono, "ciaone" che si faccia "onore" a qualcuna per delle sue particolari qualità! Casomai tra donne quasi sempre ci si invidia, si è gelose, ci si fa le scarpe l'una contro l'altra, ci si ignora.
La terza variazione infine, consiste negli effetti che la bocca della donna crea: umiltà, benedizioni e nobiltà d'animo.
Ad ogni modo, saranno pur sempre delle variazioni, ma il tema è identico per tutta la composizione.

Ma nei casi in cui 14 versi comprendessero motivi molti diversi tra loro e addirittura comportassero dei rovesciamenti di situazioni?

UN SONETTO IN PETRARCA:


Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e ’n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.

      ("Rerum vulgarium fragmenta")

Questo sonetto è stato scritto dopo la morte di Laura.
Ho la sensazione di averlo già analizzato in un post di qualche tempo fa, forse con il poeta greco Ibico per via delle somiglianze dei contenuti.
Comunque è l'unico che ora come ora mi viene in mente per poter rendere un concetto del titolo.
Le prime due quartine, dense tra l'altro di figure derivate dalla mitologie greco-romana, includono un suggestivo idillio primaverile: ritorna il bel tempo, grazie al vento caldo (Zefiro, figura presente nella "Primavera" di Botticelli, quadro in cui la figura di Flora sembra incinta di circa sei mesi, ma in realtà questo è dovuto alla forma dell'abito).
Botticelli, "La primavera", Firenze, Galleria degli Uffizi.
La primavera, anche nella seconda quartina, è la gioiosa stagione del ritorno alla vita (spuntano i fiori) e delle gioie dell'amore.
Il "ma" della prima terzina introduce la desolazione del poeta, in netto contrasto con i contenuti precedenti.
Natura primaverile VS Dolore dell'autore.

Marco Praloran dice che si tratta non di due temi diversi, ma di due motivi diversi.
E, in merito a questo importante cambiamento di tono a metà sonetto, afferma che si tratta  di un epifonema, ovvero, di uno scarto concettuale che comporta un passaggio "dall'universale al particolare" e quindi in questo caso, dal sereno cosmo e dalle bellezze naturali ad un'interiorità lacerata. 
Aristotele già ne fa accenno nei suoi studi attraverso il termine μεταβολ (metabolè, "cambiamento").


Esempi di epifonemi si trovano anche nei fumetti:



Anche qui... dalla vastità degli ambienti geografici (vallate, colli e città) al muso di Snoopy, soggetto al cadere della pioggia, che "sentenzia" con il pensiero: "... e sulla mia faccia".

L'epifonema si trova anche in altre letterature europee.
Eccone un esempio qui sotto:

SONETTO SPAGNOLO CON EPIFONEMA:


Colora abril el campo que mancilla
agudo yelo y nieve desatada
de nube obscura y yerta, y, bien pintada,
ya la selva lozana en torno brilla.

Los términos descubre de la orilla,
corriente, con el sol desenojada;
y la voz del arroyo, articulada
en guijas, llama l'aura a competilla.

Las últimas ausencias del invierno
anciana seña son de las montañas,
y en el almendro, aviso al mal gobierno.

Sólo no hay primavera en mis entrañas,
que habitadas de Amor arden infierno,
y bosque son de flechas y guadañas.

("Colora abril el campo", di Francisco De Quevedo, 1580-1645).

De Quevedo è stato uno dei rappresentanti più influenti della letteratura barocca della penisola iberica.
Ad ogni modo, questa sotto è la traduzione di Vittorio Bodini:

"Colora Aprile i campi che deturpa
un aspro gelo e la neve caduta
da una scura e fredda nube. Tutt'intorno
è la selva una vivida pittura.

I margini ora scopre della riva
la corrente col sole rappaciata;
la voce del ruscello articolata
in sassi chiama il vento per sfidarlo.

Come ultimo rimpianto dell'inverno
sopra i monti è rimasto un segno antico
e il mandorlo denunzia il mal governo.

La primavera io solo non conosco,
che abitato da Amore ardo d'inferno
e son di falci e di saette un bosco."

E' un aprile decisamente fresco, che ancora "lotta" con i segni dell'inverno (la macchia di neve nei campi, la neve sui monti).
Però anche qui, dalla primavera, nell'ultima terzina si passa al negativo stato d'animo dell'io.
Lo scarto è un colpo di scena per i lettori.
L'ultima frase "e son di falci e di saette un bosco" è in antitesi con "è la selva una vivida pittura" della prima quartina.

A Hokkaido (Isola settentrionale del Giappone), la natura a fine aprile è quasi come quella descritta nel sonetto spagnolo di De Quevedo.
Ciliegi già fioriti, cielo limpido ma montagne con le cime innevate.



Dovessi fare un viaggio di nozze opterei anche per una meta insolita e originale come questa.
Ora è un sogno campato per aria ma, quando sarà il momento, forse potrà essere una scelta o almeno, uno dei molti luoghi pensati.

5 aprile 2019

Scipio Slataper, un padre che non ritornò mai dalla Grande Guerra (III):

...all that you are is all that I'll ever need.
 (Ed Sheeran, "Tenerife sea")
Cresta Ovest del monte Kal
Cosa succede a Scipio adolescente, una volta sceso dal monte Kal?
La settimana scorsa ho chiarito che si trova ad assistere ad un tumulto di studenti che manifestano per l'Università italiana.
La seconda parte del suo unico romanzo può essere a sua volta suddivisa in due parti: una ambientata a Trieste, l'altra invece, durante un'escursione sul Secchieta, monte nei pressi di Firenze.
Prima di addentrarmi nelle parti più significative della seconda parte, riassumo, con una citazione di Alfredo Luzi tratta da una conferenza su Slataper svoltasi a Udine qualche anno fa, i contenuti alla fine della prima parte:

"Il monte Kal è il luogo in cui l'animo di Slataper si dilata alla ricerca della fratellanza, della collettività umana, della civitas solidale. Si inserisce, in quel momento, il desiderio di ricostruire la propria esistenza attraverso l'immersione nel brulicame della città".

SECONDA PARTE:

La città (e su questo non ci piove!) è un ambiente pensato, edificato e vissuto dagli uomini. La città non è fatta soltanto di strade, case e monumenti, ma è anche costituita dalle tracce che il lavoro degli uomini lascia nel corso della storia. Per "lavoro umano" intendo sia la costruzione/demolizione/restauro di edifici, sia le attività economiche, sociali, culturali e intellettuali che si svolgono quotidianamente in un ambiente cittadino.
Questa premessa era necessaria per introdurre le diverse "valenze" che la città assume nel corso di questa parte.
Inizialmente, Scipio scrive:

Anche la città è divertente, sebbene qualche volta m'abbia seccato. Mi piace il moto, lo strepito, l'affaccendamento, il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devono arrivare presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione. Nei visi e negli stessi passi voi potete riconoscere subito in che modo il passante sta preparando l'affare. Se guardate bene, siete subito presi in un gioco eccitante d'operosità, e la vostra intelligenza batte e rimanda istantaneamente i possibili attacchi d'astuzia, di coltura, di bontà, di vendetta. Un inquieto e giovine animale s'agita in voi, e voi andate per le strade ricchi della sua vita istintiva, com'uno a cui ricircoli il sangue nella mano stecchita di freddo sotto il guanto.

Moto, strepito, affaccendamento, lavoro, operosità...
... Molte parole di questo paragrafo mi ricordano il significato del dipinto futurista La città che sale di Boccioni:

E' stato realizzato tra il 1910 e il 1911, dunque, è un'opera quasi contemporanea al Mio Carso di Slataper.
E' indubbiamente un'opera caotica, estremamente dinamica, originariamente intitolata Il lavoro.
Boccioni l'ha realizzata a Milano e il suo scopo, con la realizzazione di quest'opera, era quello di esaltare il lavoro umano. 
Sullo sfondo vedete dei palazzi in costruzione e, in primo piano, degli uomini piuttosto esili che cercano di tenere le briglie di un cavallo.
Vi ricordo che, nei primi anni del XX° secolo, un po' tutte le città del nord Italia stavano attraversando una fase di sviluppo economico e industriale, cosa che entusiasmava i futuristi, pienamente fiduciosi nel progresso, nella scienza e nelle nuove tecnologie.

Ritornando al romanzo, ecco come vengono delineati i caratteri dell'ambiente cittadino:

1) Città come luogo di formazione scolastica per immaginarsi in determinate professioni future:

Primavera, calda primavera, amici miei, nuovo sole su grano nuovo, strade più larghe e braccia piene di rami fioriti - e noi andiamo a scuola con il pacco di libri al fianco. Andiamo fra la gente e le carrozze, trasognati dietro i nostri desideri di commercianti, di soldati, di pompieri; levandoci ogni mattina alle sette, alle sette e qualche minuto di dolce coscienza semisveglia di letto, ogni mattina, perché, la domenica, c'è messa. Primavere lampanti ai verdi scuretti. Grigia piovosità d'inverno. Pomi e pere grasse sugli alberi. Autunno ritornato. Ogni mattina.

Se notate, in questo punto, la città è anche luogo che, nell'offrire tutte le sue opportunità didattiche e culturali a dei giovanissimi, presuppone una "routine" quotidiana ("ogni mattina").
Messa ogni domenica??! Eh certo: Slataper era figlio di contadini e, questo lo si riscontra anche nel pensiero di Pasolini, i contadini del primo Novecento sono uno strato sociale profondamente credente. La loro fede in Dio dà un senso alle loro fatiche quotidiane. 
Adesso è piuttosto raro che gli adolescenti e le famiglie ci vadano a messa, soprattutto a causa dell'ignoranza, della poca spiritualità e dell'incapacità di molti educatori parrocchiali di parlare di Dio attraverso la coerenza del loro stile di vita. Ma questa è una parentesi dolente, che mi fa stare male e che preferirei non aprire. A parte il fatto che sto scrivendo un post di letteratura, non di pastorale.

2) Città come luogo di propaganda e di diffusione di idee politiche. Nel caso di Trieste e di Slataper, idee politiche di aspirazione all'annessione alla "patria Italia":

Ero stato socio della "Giovine Trieste", non mi ricordo più sotto che nome, perché il regolamento delle scuole medie austriache proibiva allora di far parte di qualunque società, "specialmente se politica". Pagavo regolarmente i dieci soldi settimanali. Assistevo regolarmente alle sedute.

3) Città come luogo di prostituzione e di degrado morale:

Qua abbasso c'è le solite otto, nove che passeggiano con il loro andare di oche culone, incappottate sulla camicia veste. Fin qui arriva il belletto rosso, qui comincia il viola del freddo, a zone. Come passo mi toccano il braccio: «'Ndemo su mulo?». Divento rosso, passo via senza rispondere. Mi fanno schifo. Schifo terribile. Questa è la ragione. Specialmente i capelli e le mani. Sento un untume muschiato che non posso sopportare. Se no, non mi parrebbe niente. Capisco benissimo senza romanticherie. Io dò tanto; tu dai tanto. È pulito. Porca è la società che per pulizia ha chiamato ciò... amore. (I puntini non sono miei: ma della società. Io non adopero puntini.) Dal caffè dove bevvi petess la sera della calata, sbocca una comitiva di ominacci con barba, vestiti da donna; donne spanciate e altro negrume, urlando, saltando con fanaletti e bastoni. Mi tiro da parte. Sono contento di avere a casa un letto bianco, pulito, senza cimici. Ma una donna, una femmina, per me, per avvoltolarsi insieme nel letto, per farla urlare di strette e morsi! Questo letto è troppo grande. Troppo soffice. È meglio dormire con una coperta per terra.

Grandioso Scipio! Ciò che mi piace di più di questo passaggio è la distinzione tra "femmina" e "donna". 
Questa distinzione lessicale mi fa pensare alle scelte di vita di certe mie coetanee. Hanno l'età ormai per poter essere considerate "giovani donne adulte", e buttano nella spazzatura (lo dico in senso figurato) la loro dignità. Esibendo online ciò che dovrebbero tenere nascosto e "saltellando" come farfalline da un ragazzo ad un altro, per non impegnarsi veramente con nessuno. L'alterità maschile a loro "serve" solamente e unicamente per soddisfare il bisogno di sesso.
Uguali a loro sono certi maschi.
Scipio è anche un adolescente schifato e indignato.
Ad ogni modo, la femmina è corrotta e sporca. La donna invece sa amare, ma non soltanto nei rapporti sessuali. Le donne vere sanno rendere tutta la loro vita un atto d'amore.
A proposito della prostituzione, fenomeno purtroppo ancora visibile anche nel nostro XXI° secolo, vi rimando a ciò che ho scritto nel dicembre 2017 sulla poesia di Saba intitolata Città vecchia:
https://riflessionianna.blogspot.com/2017/12/umilta-e-infinito-in-citta-vecchia.html
In quel frangente avevo accennato al dipinto di Kirchner Cinque donne per la strada
In questo post, vi metto la versione, sempre di Kirchner, delle Due donne per la strada:


4) Città come luogo di lavoro e di salario:

... il Piccolo è il giornale più diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il critico teatrale.

Allora... preciso che Scipio inizia a lavorare come giornalista già da adolescente a Trieste.
Ma gli anni passano ed egli, trasferitosi all'Università di Firenze, conosce i vociani, inizia a collaborare con la loro rivista e amplia la sua cultura.

Rapidamente passo al punto in cui egli si ritrova solo, di notte, sul Secchieta. Dalla Venezia Giulia anche noi lettori siamo passati alla Toscana:

Anche se affondandosi tutto, t'avverte che la neve è alta come te, non camminare a serpentina; pianta dritte le pedate. Niente mi giunge dentro di consentaneo, attorno a cui s'affollino l'idee e lo poppino e lo assimilino restituendolo mio, frutto dell'anima più profonda. Tutto è sensazione di ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo; altro no. E non devo esser che io, in vetta. Ti volti a contemplare? Sei già stanco che ti metti a fare il poeta, caro amico mio? Se i polpacci ti scoppiano e la schiena ti si ripiega insieme e per ogni centimetro di conquista stronchi col viso, col petto un ramo; e un altro ramo, e rami chissà fino a dove ti aspettano, duri, ghiacci, ipocritamente velati di neviscolo come una fiorita di mandorli, e i ghiaccioli ti si frantumano nel collo, negli occhi abbacinati dall'eterno luccicor del bianco; e il berretto che ti sguizza giù ti costringe a ricalare, e l'alpenstoc ti s'incunea tra ramo e tronco, cosicché tutte le cose indispensabili tentano d'impedirti ciò che devi - agguanta coi denti la lingua che vorrebbe imprecare, e cammina. E se la neve intenerita dal sole cala sotto il tuo piede, in modo che tu potresti adagiarti dolcemente su essa, e riposare, non cedere alla soffice bontà, non poggiar lieve gli scarponi: batti, affondati, tirati fuori e avanti lassù. E lassù - non sai dove, perché forse tu non cammini verso la cima reale, delle carte geografiche - e il tuo lassù è grave di nebbia, forse; onde tu raggiuntolo a cuore spasimante non vedrai gli Appennini imbrunirsi come giovane carne sotto il sole, né la neve immensa, che tu hai vinto, accendere i colori, né lontano, in basso, Firenze.

Oh, questo è proprio il momento di titanismo di Slataper (io e la montagna): cammina in montagna, affronta un percorso difficile. Come difficile è stato, in certi periodi, il suo percorso di vita.
"La vita non è un cielo senza nuvole", ho detto io ai miei adolescenti durante una catechesi, in un venerdì di fine gennaio.
...Ho una voglia di inverno ancora... Ho voglia di dicembre, di luci natalizie, di mostre di presepi, di abbracci, di neve cristallina, della luna che splende a metà pomeriggio, di calde coperte di lana... 

Poche pagine prima, c'è un accenno al periodo in cui Scipio compie questa escursione sul monte fiorentino.
Preciso che, in compagnia di alcuni vociani, di tanto in tanto egli si recava in montagna per delle escursioni.

 Forse i miei occhi troveranno tra le foglie brune e il musco la prima primola, accanto alla macchia di neve.

Da questa frase capite che la camminata di Slataper verso il Secchieta è ambientata alla fine dell'inverno (inizio marzo), periodo in cui nelle zone montuose i residui di neve convivono con la nascita dei primi timidi fiori.
Vedere un connubio primavera-inverno è capitato anche a me lo scorso anno, quando, con un gruppo di amici, ho percorso un sentiero al di sopra di Cerro Veronese.
Ad ogni modo, questa frase mi fa pensare al canto XXX° del Purgatorio dantesco, quando Dante, nei versi 85-100, propone una similitudine meteorologica che corrisponde di fatto ad una miniatura realistica sulla neve negli Appennini che scompare gradualmente con l'arrivo della primavera. 
Ve la riporto parafrasata: Come la neve si congela sui rami e si scioglie al soffio dei primi venti africani, così la mia angoscia si scioglie in lacrime al canto degli angeli.
Dante si trova in cima alla montagna del Purgatorio e, dopo aver udito i rimproveri di Beatrice sulle sue debolezze e le sue mancanze, avverte il canto degli angeli.

TERZA PARTE:

Non mi soffermerò molto su quest'ultima parte.
E' una sezione del romanzo drammatica nella quale Slataper, in seguito al suicidio di Anna Pulitzer (da lui soprannominata Gioietta), riflette sul senso della vita.
Tuttavia, per introdurla, cito Cristina Benussi (dall'opera: Per il mio Carso di Scipio Slataper):

"In questa terza parte, emerge il dolore per la morte di Gioietta. Questo dolore gli farebbe abbandonare la città per ritornare nel Carso, ma gli fa anche desiderare una vita da professore di Lettere a Trieste, terminati gli studi. (...) Dopo un periodo di cupa disperazione, Slataper conclude che amare e lavorare diviene l'endiadi dominante di una chiusa che può vincere la morte."

Altolà: il messaggio che Scipio vuole trasmettere con questa opera è in un certo senso un "messaggio pasquale" (la Pasqua cade quest'anno il 21 aprile): la forza dell'amore vince la morte. Il male, il dolore, la morte e l'angoscia che non hanno mai l'ultima parola, perché la nostra umanità è un'umanità ferita ma al contempo piena di bellezza.
L'inizio di questa parte di romanzo è struggente, perché si intuisce subito e facilmente uno stato di profondo dolore, accompagnato tra l'altro dal giudizio pesante di un amico.

Avevo bisogno di star solo. Andavo per le strade poco frequentate, nell'ombra degli alti casamenti rettangolari, e mi guardavo intorno spiando di lontano il viso dei passanti. Temevo d'esser conosciuto, d'esser salutato, di dover salutare. Un amico mi mandò una cartolina: perché non gli scrivevo? "Poiché non vuoi, non vengo. Ma non è bello che tu sia così scontroso ed egoistico nel tuo dolore. Proprio ora l'amicizia ti farebbe bene." Tutte buone care persone: ma io ero in cerca di lontananza.

Il giudizio di questo amico è un giudizio di non-immedesimazione. Ho pensato al primo romanzo di D'Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue, in cui Leo, dopo la morte di Beatrice, ragazza del quale si era innamorato, durante le sue ferie estive in montagna con i genitori si sente in uno stato di perenne malinconia, a causa del quale ha bisogno di stare spesso da solo, a camminare tra i sentieri boscosi. Questo è un tipo di dolore che implica ripiegamento interiore. 
E' una gran caratteristica l'introversione, perché permette di essere ragionevoli, seri, più maturi degli altri. 
L'introversione è "freddezza e rigidità" per gli ignoranti. Ma non dimentichiamo che scaturisce spesso da grandi sofferenze e/o da vissuti travagliati.
Poco più avanti, si intravede una somiglianza con un altro vociano, il poeta Camillo Sbarbaro:

Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un forestiero. (Scipio Slataper, "Il mio Carso", parte terza)

Nel componimento Taci, anima mia!, Sbarbaro scrive: Andando per la strada così solo tra la gente che m’urta e non mi vede mi pare d’esser da me stesso assente. Come Slataper, Sbarbaro, trovandosi in uno stato di profondo dolore, è osservatore delle esistenze degli altri e non riesce, psicologicamente, a partecipare appieno alla propria vita.

Lo ribadisco, questa è la sezione più tragica del romanzo. 
Non c'è la vitalità dello Scipio bambino che fa i bagni nel fiume, non c'è la purezza di cuore dello Scipio adolescente che, giorno per giorno, sogna un avvenire. C'è disperazione per la donna amata, morta inaspettatamente e da suicida.
Più volte, all'interno di questa parte, Scipio si chiede che senso abbia la vita umana.
In sostanza, la conclusione di questa splendida autobiografia lirica è la seguente:

Io ho bisogno d'amare come tutti gli uomini. Io voglio la vita piena, completa, col suo fango e i suoi fiori.


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Poesia che ho composto durante il periodo di villeggiatura estiva post-laurea e post-grest 2k18:

Vi confesso che non mi sento più così brava come lo ero veramente ai tempi del liceo a comporre poesie.


Fra due scogli duri e grigi
lambìti
dal fragore di onde scure
scorgo
un tenero fiore.
E' la bellezza
che emerge
delicata
fra l'aridità.
E' la sensibilità
abbracciata
da un leggero vento d'estate.
E' la fragilità umana
di fronte all'infinito orizzonte
popolato
di soffici nuvole
e di irrequieti gabbiani
che volano
in cerca di pace.