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26 giugno 2018

"In time": un'antiutopia per riflettere sul valore del nostro tempo


"In time" è un film ambientato in un XXII° secolo in cui l'invecchiamento non è concepito: lo sviluppo fisiologico degli esseri umani si ferma ai 25 anni, momento in cui sul loro braccio sinistro si avvia un timer digitale con tanto di countdown alla rovescia di 12 mesi. 
Gli uomini muoiono al compimento del ventiseiesimo anno di età se non riescono a prolungare il loro limite di tempo. 

Nel mondo descritto da questa pellicola cinematografica, il tempo è letteralmente denaro: non esistono né gli euro né i dollari né le sterline. Il tempo è la valuta con cui i lavoratori vengono pagati.
Inoltre, tramite una particolare tecnologia avanzata, gli uomini possono prendere o farsi estrarre del tempo da apparecchi elettronici oppure possono anche usufruire della possibilità di trasferirlo ad altre persone stringendo loro il braccio.
E così, entriamo in questa strana e singolare logica secondo la quale una conversazione in una cabina telefonica costa un minuto, un viaggio in autobus un'ora, un caffè due minuti.

Il protagonista è Will (28 anni è la sua età in tempo reale), giovane che vive con la madre nel ghetto, zona di New Greenwich molto povera in cui ogni abitante corre da un luogo all'altro per guadagnare tempo, in modo tale da poter sopravvivere giorno per giorno.
Siccome i contenuti del film sono molto interessanti, vorrei che entraste nella stringente logica dei timer. Questo timer, inciso sul braccio di Will Hamilton, uomo molto ricco, si legge: 116 anni, 39 mesi, tre giorni, 12 ore, 21 minuti e 6 secondi.











Questo invece è il timer tatuato su Will, profondamente diverso dal precedente dal momento che segna poco più di un giorno di vita.















Perché queste profonde diversità tra i due uomini?
Perché la società di "In time" è profondamente iniqua.
C'è una ristretta élite di uomini che possono permettersi di vivere per secoli o addirittura per millenni, sprecando l'enorme quantità di tempo che avrebbero a disposizione attraverso giochi d'azzardo e di scommesse e abitando in lussuose ville senza mai aver lavorato un solo giorno.
E poi, c'è la maggioranza: i poveri che si trovano costretti a vivere alla giornata, soggetti a quel brutto fenomeno economico che in questi anni anche noi italiani conosciamo bene: l'inflazione.
Will è nato povero, è vissuto in una zona degradata e quindi, come molti altri viventi in simili condizioni, sarebbe destinato a morire presto.
Vi ricordo che per la storia, la morte di un individuo corrisponde all'azzeramento totale del tempo sull'orologio fisiologico.
Una sera dopo il suo turno di lavoro in fabbrica, Will entra in un locale del ghetto e qui vede che un ricco signore mezzo ubriaco, Harry Hamilton, cerca di offrire da bere a tutti in modo tale da poter spendere tutto il proprio tempo, che segna per l'appunto 116 anni.
Ma, quando nel bar irrompono i membri di un'organizzazione mafiosa chiamata "I Minutemen", che vogliono rubare il tempo agli abitanti della zona 12, tutti fuggono tranne Will, che riesce a uscire con Harry e a portarlo al sicuro dai criminali all'interno di un fabbricato.
I due uomini iniziano a conoscersi. Harry gli rivela di avere, in tempo reale, ben 105 anni e di essere stanco di vivere.
Nel film non si specifica in modo esplicito che in quella società vige un sistema dittatoriale, ma appare chiaro: se, come spiega Hamilton, ''per pochi immortali la maggioranza deve morire", è abbastanza facile intuire che, più che una dittatura ideologica c'è una dittatura economica fondata dai ricchissimi magnati della finanza del tempo: essi infatti controllano i prezzi e le paghe per accentuare il divario tra ricchi e poveri, in modo tale da poter mantenere il loro status. Solo loro dunque, possono godere di una vita eterna.
Poco prima di morire cadendo da un ponte sul fiume, Hamilton compie un grande atto di generosità: trasferisce tutti i suoi 116 anni di vita a Will, lasciandogli un messaggio scritto su un vetro appannato del fabbricato in cui entrambi si sono nascosti e hanno trascorso la notte: "Don't waste my time", ovvero, "Non sprecare il mio tempo".

Notate bene che la sera prima Harry aveva chiesto a Will: "Cosa faresti se avessi tutto questo tempo su quell orologio?" e si era sentito rispondere: "Smetterei di guardarlo. Ma se avessi tutto quel tempo non lo sprecherei."

La sera successiva all'incontro con Harry, la madre di Will muore a causa dell'inflazione che  perseguita sempre più gli abitanti della zona del ghetto.
A seguito di questo tristissimo evento, con i suoi oltre cento anni di vita, il giovane decide di spostarsi nel distretto dei ricchi della città, dove diviene partecipe della mentalità vuota ed egoistica degli economisti del tempo. Con una partita a poker egli vince un millennio.

Mi fermo per un po' con la sintesi della trama del film per evidenziare cinque aspetti importanti di questa civiltà distopica:

1) L'assenza del senso generazionale.
E' vero, la famiglia continua a esistere, ma, dal momento che tutti i viventi fisicamente dimostrano 25 anni, si perde la distinzione tra le generazioni.
La madre di Will ha 50 anni, ma quando la si vede per la prima volta, si resta indubbiamente meravigliati e basiti: se Will non dicesse "Ciao mamma!" e se pochi minuti prima, nella prima scena del film, non fosse stato spiegato agli spettatori che "siamo geneticamente progettati per smettere di invecchiare a venticinque anni", si crederebbe tranquillamente che questa figura femminile sia la sorella o la cugina di Will.
Un'altra cosa che colpisce parecchio è vedersi, per qualche secondo, queste tre donne l'una vicina all'altra che appaiono coetanee ma che in realtà sono, a partire da sinistra, nonna, madre e figlia.
Tutte e tre ricchissime, tutte e tre delle Weis, ovvero, tutte e tre appartenenti alla famiglia di un rinomato direttore di banche del tempo.


Se quindi viene meno la distinzione tra le generazioni, non si riesce a capire chi sia veramente giovane (fisicamente e anagraficamente) e chi no. Questo significa che in un mondo in cui viene annullato il processo di invecchiamento si perde il senso della realtà cronologica.

2) Si vive in un eterno presente.
Ognuno, benestante o misero che sia, ha un orologio digitale sul polso che indica il proprio tempo, ma la percezione dell'evolversi degli eventi storici non esiste proprio!
A questo proposito è interessante rilevare che nel corso del film non vengono mostrati orologi appesi magari alle pareti di ambienti interni: esiste soltanto il tempo tatuato sul polso, diverso da persona a persona.
In una società del genere c'è solo la consapevolezza di un tempo non da vivere ma solo da trasferire e da prendere! Tutti dunque vivono in un eterno presente!
Mi azzardo ad affermare anche che nella mentalità di quelle persone non può esistere nemmeno una concezione individuale del tempo, ovvero, un modo di vedere il tempo come un dono in cui far fruttare le proprie doti e in cui progettare la propria identità in continuo divenire.
I ricchi, agiati e pieni di secoli come sono, non hanno bisogno né di pensare al domani né di sognare un possibile avvenire, i poveri invece, abituati a guadagnare poche ore dopo una giornata pesante di lavoro, risultano impossibilitati a "ritagliarsi" degli attimi di tempo per pensare al futuro, perché il loro presente è fin troppo difficile e travagliato.
Proprio come dichiara Sylvia a Will, figlia del signor Weis: "I ricchi non vivono e i poveri muoiono".
Non viene ricordato il passato e non si programma nessun avvenire.
Il tempo, come dicevo sopra, è denaro che appartiene a pochi, e questo scalfisce anche il senso morale delle persone. 

 3) Discriminazioni tra individui sulla base delle quantità di tempo.
Durante il nazismo era purtroppo molto vivo il concetto di "razza" superiore e inferiore: i "diversi" culturalmente, politicamente e religiosamente dovevano essere eliminati e dovevano subire la crudeltà degli "ariani".
Ribadisco che nel sistema socio-economico di "In time", chi ha meno tempo è destinato a morire da giovane o comunque molto prima di chi ne può avere all'infinito.
Quindi in questo caso avere più diritti degli altri non implica essere bianchi, tedeschi e di religione cristiana. Non ci sono distinzioni di razze nel XXII° secolo, ma c'è un brutto divario tra due classi sociali: una forte, che tiene sulle braccia millenni e una debole, che raramente possiede più di un giorno di vita. Tuttavia, chi appartiene alla classe debole è destinato a soccombere per i privilegi dei più forti, che aspirano e che godono di buone probabilità di poter diventare eterni come Dio e come l'Universo. Degli "dei in terra" insomma.

4) Fedi religiose inesistenti.
Questo aspetto è tipico di tutte le anti-utopie, cinematografiche e letterarie.
Se è giusto non giudicare qualcuno sulla base della religione di cui è seguace, è anche ragionevole constatare che ogni religione svolge un ruolo piuttosto importante nell'indurre l'uomo ad interrogarsi sullo scopo dell'esistenza.
Nei sistemi sociali che le anti-utopie descrivono gli uomini che cosa se ne fanno della religione? Nulla, perché ognuno di loro usufruisce di sistemi ad alta tecnologia.
In "Fahrenheit 451" dominano la televisione e gli auricolari, in "1984" ci sono telecamere dappertutto e la politica deve costituire il credo di ogni vivente, dal momento che non basta obbedire al Grande Fratello, supremo dittatore dell'Eurasia. Bisogna adorarlo e amarlo.
Le "colonne portanti" che conferiscono un senso profondo alla civlità di "In time" sono proprio gli apparecchi da cui si prende il tempo e da cui tutti, ricchi e poveri, hanno bisogno di estrarre del tempo per poter far durare le loro funzioni vitali. Ma non c'è traccia di né di credo religioso né di edifici religiosi.

5) Città costituite da ambienti grigi e asettici.
Il film dura quasi due ore. In circa 110 minuti la cinepresa non inquadra un solo spazio naturale fatto di erba verde, di fiori e di alberi.
L'efficientissima tecnologia e l'architettura caratterizzata per lo più da palazzi grigi e altissimi sono funzionali a togliere agli uomini la fede religiosa, le relazioni umane e anche la capacità critica.
Oltre a ciò, fanno in modo anche che venga ignorata la bellezza della natura.
Anzi, delle meraviglie naturali non si deve nemmeno immaginare o ipotizzare l'esistenza!
Persino la villa del signor Weis non ha giardini, ma soltanto marmo e cemento.
In un futuro del genere si nega agli uomini ogni attimo di serenità!

Ora continuo con la storia.

Mentre Will conduce una vita da nababbo, il Custode del Tempo, il personaggio più crudele della storia, cerca di indagare sulla morte di Harry Hamilton e, sospettando di Will, una sera raggiunge la villa di Weis.
Come fa a sospettare di Will? Attraverso una telecamera che ha filmato quest'ultimo che stava sul ponte sopra al fiume esattamente pochi istanti dopo il suicidio di Harry.
Per sfuggire all'arresto, Will prende in ostaggio Sylvia, la figlia di Weis, e si reca di nuovo nel ghetto.
La mattina seguente, il giovane protagonista telefona al signor Weis ricattandolo in questo modo: se doni 1000 anni alla Caritas della zona del ghetto ti restituisco tua figlia.
Ma quando appare fin troppo evidente che Weis non è disposto a versare nemmeno un secondo (che bene vuole alla figlia?!!), Sylvia diventa una complice strettissima di Will e insieme cercano di rapinare le banche del tempo per donare questa preziosissima valuta ai più poveri.
Pian piano, l'intesa tra due ragazzi così "socialmente diversi" diviene magica e sentimentale.
Per reagire ad un nuovo aumento dell'inflazione, prendono in ostaggio il signor Weis e gli rubano un apparecchio elettronico che contiene un milione di anni.
Da questo momento inizia, da parte del Custode del Tempo, un tenace inseguimento dei due giovani.

La fine è stato il momento che mi è piaciuto di più, soprattutto perché è il momento meno triste della vicenda. Verso la fine infatti, un lato molto positivo c'è: il Custode del Tempo muore dopo aver esaurito in una frenetica corsa tutto il tempo che aveva sul polso. Era troppo impegnato a inseguire Will e Sylvia per potersi "ricaricare".



Nel corso del film c'è una frase di Sylvia che fa particolarmente pensare, nel momento in cui con Will riesce a sottrarre il milione di anni al padre: "Tu vivi da un sacco di anni, papà, ma in realtà non hai vissuto un solo giorno".
Infatti. Hai avuto un sacco di tempo e avrai la vita eterna ma non sai che cosa realmente sia il valore della vita. Hai giocato a poker, ogni sera hai dato feste e ricevimenti ai quali aderivano tutti i benestanti come te... Ma non hai mai conosciuto alcuna morale e alcun vero sentimento.

COLLEGAMENTO CON PARINI:

Può un film di genere distopico-fantascientifico offrire un rimando alla letteratura italiana? In questo caso sì!
Giuseppe Parini, letterato di origini milanesi vissuto nel pieno del XVIII° secolo, è passato alla storia della letteratura italiana per aver scritto un poemetto satirico intitolato "Il Giorno". L'ho letto tutto.
In quest'opera l'autore descrive con amarissima ironia lo stile di vita vuoto e sfarzoso degli aristocratici del suo tempo, mettendo ben in risalto i loro vizi e la loro inconsistenza. Quattro parti compongono "Il Giorno": il mattino, il mezzogiorno, il vespro e la notte.
La quarta è molto più sarcastica delle prime tre: di notte i nobili si divertono con balli di gala che durano fino quasi all'alba. L'autore a un certo punto sbotta una frase che sostanzialmente significa: "Ma se tutti, aristocratici e contadini, veniamo concepiti nello stesso modo in quanto appartenenti al genere umano, che senso hanno tutte queste profonde differenze di agi economici tra ceto alto e ceto basso?"
Anche in "In time" le persone vengono concepite e nascono nello stesso modo e con la stessa caratteristica, cioè con un timer sul polso che si avvia a partire dai 25 anni, ma le divergenze esistono eccome! Ripeto che il tempo è distribuito in modo non equo.

Altre due domande conclusive:

A) Quanto vi sembra che siamo simili alle società descritte dalle anti-utopie?
La tecnologia avanzata c'è anche ora.
Il Cristianesimo sopravvive ancora ma faticosamente, soprattutto tra i più giovani. Cito in modo indiretto il Pasolini degli "Scritti Corsari": "Con il dilagare di una mentalità consumistica ed edonistica, i giovani non sentono la religione come una componente necessaria per la loro vita."
Diversi stati europei e nordamericani sono caratterizzati da un'iniqua distribuzione di reddito: c'è chi fa fatica ad arrivare a fine mese e chi invece riesce a mettersi via almeno cinquecento euro al mese.
Il nostro inoltre è un mondo bipolare: nell'emisfero settentrionale c'è ricchezza, abbondanza di servizi, tecnologie informatiche che facilitano la vita agli uomini.... nell'emisfero australe (tranne che in Oceania) si muore ancora di fame, le condizioni igieniche sono precarie e molti stati dell'Africa Sub-sahariana sono sempre sull'orlo della guerra civile, se non ci sono già.
Le relazioni sono superficiali e si tende a vivere in un eterno presente, in una fase di "inerzia psicologica": al mio futuro non ci penso, perché voglio godermi la vita il più possibile. Se pensassi ai miei sogni per l'avvenire, probabilmente sprofonderei nell'angoscia: scoprirei che nulla mi appassiona per davvero e non riuscirei a trovare un senso al mio posto nel mondo (non per tutti è così, ma per un buon numero sì).

Ragazzi, volete la verità?
Dobbiamo ancora vivere praticamente tutto, abbiamo molte opportunità di crescita di cui approfittare per sfuggire alla stupidità che domina il mondo della televisione e la mentalità degli adulti: possiamo e dobbiamo fare meglio delle generazioni che ci hanno preceduto!!!
Però, per poter fare meglio, bisogna reprimere pigrizia, angoscia e malinconia e incontrarsi.
L'incontro è una tappa obbligata per poter coltivare collettivamente dei valori, diversi dai disvalori con i quali gli adulti stanno danneggiando l'umanità.
Sapete? Una volta ho letto un articolo di giornale che dice che i nati negli anni '90 sono mediamente più intelligenti di chi è nato prima di loro. Il punto è che l'intelligenza, se non ci si applica, arrugginisce a poco a poco. Ma io voglio credere in noi.
Dobbiamo promettere ai nostri figli un mondo migliore di questo, in cui si stia bene economicamente ma in cui l'egoismo venga bandito in modo tale che dilaghino la semplicità, la generosità e la sincerità.

B) Vi piacerebbe svegliarvi nel giorno del venticinquesimo compleanno con un timer sul braccio? Se sì, quanto tempo vi piacerebbe avere a disposizione?
Il 26 settembre 2020 vorrei ritrovarmi con un orologio digitale sul quale stanno impressi mille anni di tempo.
Se vivessi in una società come quella di "In time" mi piacerebbe sopravvivere così tanto per un motivo linguistico: vedere in che modo si evolverà la nostra lingua, se davvero tra un po', come dice il prof. Marazzini (autore del mio manuale di storia della lingua italiana), scompariranno passato remoto, trapassati, futuro anteriore, congiuntivo e molti verbi della terza coniugazione.
Magari tra mille anni non lo chiameranno nemmeno più italiano, magari sarà una lingua in cui ci saranno innumerevoli mescolanze di termini inglesi con termini italiani!
Ah, ovviamente, nel corso del mio millennio di sopravvivenza, vorrei rimanere con l'aspetto da venticinquenne, e morire con il fisico da venticinquenne nel 3020!

"In time " a mio giudizio è un film di valore, soprattutto per i contenuti che portano a noi dei chiari messaggi simili ad ammonimenti. E poi, altra cosa che ho apprezzato molto: niente scene di sesso, pochissime parolacce e di violenza cruenta nemmeno l'ombra.



22 giugno 2018

"Siddharta" e il fluire del tempo:

E' un romanzo scritto da Herman Hesse, abbastanza bello ma piuttosto impegnativo e filosofico.
Nell'estate di quattro anni fa avevo iniziato a leggerlo ma poi, piuttosto annoiata dai contenuti, lo avevo accantonato.
A mio modesto avviso, per poter leggere un romanzo di formazione così profondo e ricco di significati, 19 anni  non bastano ancora.
Secondo me bisogna aver superato almeno il ventunesimo compleanno, essere verso la fine di un ciclo di studi accademici e avere le idee un po' più chiare sulla propria identità e sui propri desideri di avvenire.
Cioè, io non consiglierei la lettura di "Siddharta" a un neo-maturato, ma piuttosto, a quelli di alcuni anni più grandi dei diciannovenni che hanno avuto modo di accumulare un po' più di esperienze culturali, lavorative e relazionali. Allora sì che molti dei contenuti di questa particolare opera possono essere compresi meglio.

INFANZIA, ADOLESCENZA E GIOVINEZZA DI SIDDHARTA:

"Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti."

Ho appena citato le prime righe dell'opera. Devo ammettere che Hesse ha la stessa grandiosa abilità del nostro Ugo Foscolo, autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis: entrambi descrivono talmente bene i paesaggi che al lettore sembra quasi di trovarsi in quei luoghi.
Qui sono già menzionati i due personaggi più importanti della storia: Siddharta e Govinda, ovviamente due figure maschili.
Anche in questo libro, le figure maschili sono indubbiamente prevalenti e quelle femminili, o insignificanti, o negative.
Siddharta è bello, intelligente, obbediente ai genitori, scrupoloso e zelante nell'adempimento degli studi e dei sacrifici agli dei... "ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso."
Questo senso di insoddisfazione di sé lo induce, in compagnia di Govinda, ad andarsene di casa quando è molto giovane per poter seguire lo stile di vita dei Samana, degli eremiti indiani che vivono nei boschi. Per tre anni Siddharta e Govinda conducono lo stile di vita dei Samana e assimilano il pensiero e la mentalità di quegli asceti, terribile a mio avviso:

"Una meta si proponeva Siddharta. Diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso, non essere più lui, trovare la pace del cuore svuotato, nella spersonalizzazione del pensiero rimanere aperto al miracolo, questa era la sua meta. (...) Tacendo Siddharta restava in piedi sotto il sole a picco, ardendo di dolore, ardendo di sete, finché non sentisse più né dolore né sete. Tacendo stava in piedi sotto la pioggia; l'acqua gli cadeva dai capelli sulle spalle gelate, sui fianchi e sulle gambe gelate, e il penitente restava in piedi, finché spalle e gambe non fossero più gelate, ma tacessero e stessero chete."

Questo, con tutto il rispetto per certe correnti orientali di natura filosofico-religiosa, non lo considero un modus vivendi.
E' un continuo stordimento. E' l'apice del nichilismo nei confronti dell'esistenza umana.
Così facendo e così vivendo si vuole negare a se stessi di esistere, di essere soggetti a dei bisogni primari come la fame e la sete, di essere dotati anche di pensiero e di ragione.
Siddharta e Govinda si accorgono di ciò dopo tre anni; io l'ho capito dopo cinque minuti di lettura!

Qui è inevitabile il collegamento con gli "stordimenti" giovanili occidentali del nostro tempo: si beve oltre la sbronza, fino al coma etilico, ci si droga fino a perdere il controllo di se stessi, si è non solo e non tanto dei tele-dipendenti ma anche dei computer-dipendenti e degli smartphone-dipendenti.
Tutto questo per sfuggire al dolore della vita e anche al cosiddetto "tedio" esistenziale (leggete un po' di Pirandello, non può farvi altro che bene).
Capita che io passi delle mezze giornate davanti al computer o all'I-pad e nessuno di quelli della mia età è esente da questa abitudine.
L'alcool e i mezzi informatici, sempre nei casi in cui se ne fa un uso eccessivo o smodato, sono "degli effimeri stordimenti contro il dolore insensato della vita." (cit. Siddharta)
Ma è proprio così che un po' tutti diventiamo paurosi nelle relazioni con gli altri, considerando spesso il nostro piccolo mondo come prioritario a qualsiasi forma di interazione sociale.
Ma non siamo né isole né dei piccoli pianeti gravitanti su noi stessi.
Siamo dei "pezzettini" di un mondo-mosaico e siamo tutti importanti, tutti creati per renderlo più luminoso e più colorato.
Davanti a uno schermo sei solo (quest'anno hanno dato una bella traccia di tema di natura artistico-letteraria alla maturità, relativa alla solitudine) mentre, durante le riunioni con il gruppo animatori adolescenti no, per esempio! Lì ti vedono tutti i presenti, lì sei valutato da tutti (beninteso, nel senso che tutti si fanno delle opinioni su di te, positive e negative), lì a volte succede che le espressioni del tuo volto tradiscano il senso delle tue parole, che la tua opinione sia diversa da quella condivisa dalla maggioranza, che il tuo risentimento dopo un litigio possa sbollire immediatamente dopo una chiacchierata di fronte a una tazzina di caffé.
Le relazioni costituiscono la chiave del "mettersi in gioco" per comprendere che la vita ha un senso, cioè, che tu hai un senso come essere umano, che puoi fare qualcosa per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di come tu lo hai trovato.

Ad ogni modo, dopo essersi separati dai Samana, i due ragazzi decidono di andare ad assistere  ad una predicazione del Buddha Gotama, alla cui dottrina Govinda decide di unirsi.
Siddharta però rimane solo, con un futuro tutto da costruire (aveva poco più di 20 anni al momento in cui aveva incontrato il Santo Buddha): "Il Buddha m'ha derubato, pensava Siddharta, m'ha derubato, eppure è ben più prezioso ciò ch'egli mi ha donato. M'ha derubato del mio amico, di colui che credeva in me ed ora crede in lui, che era la mia ombra e che ora è l'ombra di Gotama. Ma mi ha donato Siddharta, mi ha fatto dono di me stesso."

L'ESTATE DELLA VITA DI SIDDHARTA:

Il libro, ve lo dico ora, è suddiviso in due parti: la prima parte è relativa alla giovinezza di Siddharta, la seconda invece, comprende tutta la sua età adulta e la vecchiaia.
L'ultimo capitolo della prima parte è intitolato "Risveglio" e nell'approccio, il lettore giovane si sente addirittura invaso da quel fervente entusiasmo del protagonista, da quella voglia di vivere intensamente seguendo ciò che la forza di volontà stimola a fare.
Nel capitolo precedente Siddharta ha avuto un colloquio proprio con il Buddha, che accetta di buon grado anche le critiche del giovane sulla sua dottrina, augurandogli con benevolenza di riuscire a trovare la propria meta.
A seguito del dialogo con l'Illuminato, Siddharta si sente un "risvegliato", la cui principale priorità è conoscere se stesso prima di intraprendere delle scelte di vita.

"Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l'ultimo brivido del risveglio, l'ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro."

Vi faccio notare che Hesse, all'interno del libro, ricorre più volte ai nomi delle stagioni per indicare dei periodi della vita umana: l'autunno è la maturità che precede la vecchiaia e la morte, l'estate è invece il momento più opportuno per realizzare ciò che si è e ciò che si sogna, nel migliore dei modi possibili.
... E' stupendo sentirsi dei "risvegliati" che devono impegnarsi a comprendere quello che è dentro il loro animo per poter condurre una vita serena...
Ma io ho un'obiezione: per imparare a scorgere abbastanza nel profondo la nostra identità dobbiamo anche lasciarci guidare da coloro che incontriamo nel nostro cammino. Non possiamo trovare da soli la nostra strada, abbiamo bisogno di supporti esterni.
Siddharta è continuamente alla ricerca di se stesso. Però il suo cammino si volge verso vie strane, che egli mai immaginava di intraprendere.

Per più di 20 anni, Siddharta svolge la professione di commerciante: si arricchisce, viaggia molto, vende molta merce, annota conti e prezzi... Ma senza motivazione e senza entusiasmo.
Due cose principalmente divengono sue priorità quotidiane: soldi e sesso.

E' da mesi che vi dico che l'atto sessuale senza amore e senza tenerezza fa veramente schifo: è il caso del rapporto tra Siddharta e Kamala, una ricca cortigiana spregiudicata e arrogante che lo istruisce al "gioco dell'amore".
Peccato che l'amore non sia un gioco!
L'amore è sentimento e al contempo impegno. Immaginate che l'amore sia un complesso architettonico sorretto da due colonne chiamate fedeltà e tenerezza.
Senza fedeltà e senza tenerezza, l'amore non si reggerebbe in piedi. Cadrebbe in frantumi.
Kamala e Siddharta, in 20 anni di frequentazione, non hanno costruito nulla, si sono solo "divertiti" con i loro corpi.

A 40 anni, Siddharta si sente un fallito: si rende conto che la sua vita da ricco mercante dipende troppo da valori effimeri e mondani.
Sa bene che quel mestiere non gli è mai piaciuto veramente e sa bene di non nutrire alcun sentimento di vero amore verso Kamala.
E così fugge dalla fastosa casa in cui vive, abbandonando l'amante rimasta incinta.

Se io a 40 anni convivessi con un uomo che non amo e svolgessi una professione che non mi gratifica mi sentirei psicologicamente distrutta.
Infatti Siddharta appare oltremodo affranto e infelice, al punto tale che quando si ritrova solo in un bosco, di fronte alle rive di un fiume, medita il suicidio.
Ma mentre sta per gettarsi nel fiume, sente che il fiume stesso gli sussurra "Om", parola della cultura indiana che significa "perfezione". E così si addormenta. 
Poi si risveglia e avverte dentro di sè la voglia di ricominciare a vivere una vita diversa.
E così diviene barcaiolo.
Prima però di intraprendere questo nuovo impiego, è utile ricordare che al suo risveglio incontra Govinda, suo vecchio amico. Govinda è un monaco buddhista che trascorre le sue giornate a meditare in mezzo alla natura. Questa parte del loro dialogo è la più significativa:

(Govinda) "In nessun posto vado. Sempre siamo in cammino, noi monaci, solo che non piova, sempre in moto da un luogo all'altro, viviamo secondo la nostra regola, predichiamo la dottrina, raccogliamo elemosine e passiamo oltre. Sempre così. Ma tu, Siddharta, dove vai?"

(Siddharta) "Anch'io mi trovo in una condizione come la tua, amico. Non vado in nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando."

Questo dimostra che, a prescindere sia dall'età che si ha, sia dal numero dei successi e dal numero di fallimenti accumulati, ogni uomo è sempre in cammino, alla ricerca di se stesso.
Conoscere alcune qualità e alcuni difetti della propria personalità non significa conoscere se stessi nel profondo. Le qualità sono come una lingua straniera: la lingua straniera appresa va esercitata, per iscritto e oralmente, attraverso letture e traduzioni, altrimenti con il tempo si perdono le competenze.
Le proprie doti vanno impiegate e sfruttate durante il percorso dell'esistenza, altrimenti l'animo si inaridisce e forse va anche perduta la consapevolezza di averle.
Oltre a ciò, sottolineo che le relazioni con gli altri possono farle emergere e fiorire.

Passano gli anni. Siddharta impara ad ascoltare se stesso, gli altri e le acque del fiume.
Comprende che la sua precedente infelicità era dovuta al fatto di non aver saputo amare nulla e nessuno. 
E' questo l'enorme difetto che caratterizza non soltanto certi quarantenni, ma anche certi della mia età che ad esempio compiono un percorso di studi soltanto per accontentare i genitori e non perché hanno un preciso progetto di vita o una passione verso un determinato campo di sapere.
Non c'è proprio niente e nessuno che riesca a far scoppiare il cuore di gioia ad alcuni miei coetanei: nessuna passione lavorativa, culturale, sportiva e nessuna persona che riesca ad aprire loro il cuore e a convincerli a compiere un arricchente percorso interiore dove l'amore diviene anche sacrificio di sé.
Che brutto essere così amorfi da giovani!
Io spesso mi sento piena di energia e questo probabilmente è dovuto al fatto che lo studio non è stata l'unica esperienza di vita che ho fatto negli ultimi 8 anni (inclusi quelli del liceo ovviamente).

Il tempo, in questo punto del racconto, scorre come il fiume del bosco.
Qui ritengo opportuno riportare alcune frasi di un dialogo avvenuto tra Siddharta e Vasudeva, il barcaiolo "collega" di Siddharta:

(Vasudeva) "Questo è ciò che tu vuoi dire: che il fiume si trova dovunque in ogni istante, alle sorgenti e alla foce, alla cascata, al traghetto, alle rapide, nel mare, in montagna, dovunque in ogni istante, e che per lui non vi è che presente, neanche l'ombra del passato, neanche l'ombra dell'avvenire?"

(Siddharta) "Si, questo. E quando l'ebbi appreso, allora considerai la mia vita, e vidi che è anch'essa un fiume, vidi che soltanto ombre, ma nulla di reale, separano il ragazzo Siddharta dall'uomo Siddharta e dal vecchio Siddharta (...)"

La vita è un fiume perché in ogni istante il presente diviene sia passato che futuro.
Per essere ancora più chiara: il futuro accade in ogni momento, il passato si trova alle sue spalle e il presente è un continuo fluire, un tempo momentaneo.

Sono stata ad una festa di paese sabato scorso.
Proprio in questa occasione mi è capitata la gioia di incontrare una ragazza di un anno più grande di me che non vedevo da circa 10 anni.
La prima cosa che mi ha sorpresa è stato che mi abbia riconosciuta subito, nonostante l'Anna dodicenne sia stata profondamente diversa (fisicamente di sicuro!) da Anna ventiduenne.
Anch'io l'ho riconosciuta subito.
Robusta e carina come sempre, buona e generosa come quando era alle medie.
In lei gli elementi di continuità ci sono! E' in me che faccio più fatica a individuarli.
E' facile per me dire: "Alle medie ero diversa" ed elencare mentalmente tutte le differenze tra come ero e come sono ora.

Dopo la lettura di "Siddharta" ho pensato: forse gli altri sono più abili di noi a scorgere nel tempo che passa degli elementi di somiglianza tra ciò che eravamo e ciò che siamo, noi in noi stessi vediamo soprattutto le differenze, perché in prima persona abbiamo vissuto dei cambiamenti fisici e interiori.

Però su una cosa effettivamente do ragione ai '94: il cuore grande l'ho sempre avuto, ce l'ho anche adesso che sono cresciuta.

 LA MATURITA' DI SIDDHARTA:

Una sera giungono alla capanna di Siddharta e del barcaiolo Kamala e suo figlio, omonimo del protagonista delle vicende.
La ricca cortigiana è stata morsa da un serpente velenoso, per questo muore nella capanna.
La vita di Kamala ruotava intorno a giochetti sporchi venati di falsità.
Notate bene la differenza: Siddharta si è messo in cammino, sempre, ha fatto esperienza, risultava bravissimo in tutto ciò che faceva anche se non era in pace con se stesso, ma lei??
Lei no. Lei non si è mai fatta domande su se stessa, né è stata in grado di profonde riflessioni sull'esistenza. Ha fatto quella vita inutile e insensata, a mio avviso schifosa non soltanto per una vera donna ma per qualsiasi corpo femminile.

Improvvisamente, pur non avendolo mai visto né conosciuto prima, Siddharta si occupa con estrema dedizione del figlio dodicenne appena rimasto orfano di madre. Il problema è che il figlio non lo ricambia anzi, gli manca completamente di rispetto. E' pieno di rabbia, di tristezza, incapace di adattarsi alla vita semplice dei barcaioli.
Un giorno, prima di scomparire per sempre, il giovanissimo Siddharta urla al padre: "Ti odio, tu non sei mio padre, anche se fossi stato mille volte l'amante di mia madre".

Non ha tutti i torti, il ragazzino. Quale dodicenne accetterebbe volentieri un padre che fino al giorno prima della morte della madre non si era mai visto?
Siddharta vuole amarlo, ma si è perso tutto di suo figlio: ha perso i suoi primi passi, le sue prime parole, i suoi primi giochi... Il ragazzino ha trascorso l'infanzia intera senza padre quindi, per quale motivo dovrebbe ora accogliere un genitore che era assente in un momento particolarmente delicato della vita, in cui si è più fragili e più vulnerabili?

Quando il dodicenne scompare per sempre, Siddharta parte alla sua ricerca, ma non riesce più a incontrarlo di nuovo. Allora ecco che nel suo cuore si apre un'enorme ferita di nostalgia.

Io mi fermerei qui con la stesura della recensione della trama del romanzo.
Mi fermo a un passo dalla fine del libro, lo so, ma così non guasto la sorpresa a chi in futuro volesse leggerlo.


14 giugno 2018

Il genere "grammaticale" nelle lingue indoeuropee:


Concludo l'argomento dei generi con questo post.

1. PARTICOLARITA' E PROBLEMI DEL “GENERE” GRAMMATICALE

1.1- Von Humboldt e la differenza tra “genere” e “sesso”:
Von Humboldt, linguista tedesco vissuto nel pieno del XIX° secolo, aveva intuito una sottile differenza che intercorreva e intercorre tuttora tra due termini: "genere" e "sesso"; in latino, rispettivamente “genus” e “sexus”.
Egli sosteneva infatti che, mentre il “sexus” si collegherebbe a delle determinate caratteristiche anatomiche degli esseri viventi, il “genus” invece si riferirebbe al genere grammaticale, categoria linguistica.
Lo studioso tedesco si era effettivamente reso conto del fatto che la categoria del genere non sempre è coerente alla designazione del sesso, pertinente comunque nell'assegnazione dei generi grammaticali maschile, femminile e neutro.
E in effetti, nessuna lingua è completamente isomorfa alla realtà, ovvero, nessuna lingua rispecchia al 100% la vastità del reale e del quotidiano.
Il filologo latino Maurizio Bettini supporta la preziosa teoria di Von Humboldt scrivendo innanzitutto che: “Non ci sono tratti semantici uniformemente condivisi che configurino il maschile e il femminile come categorie discrete”.
Bettini riporta un esempio in lingua italiana, osservando che la parola “guardia”, nome di genere femminile, designa molto frequentemente dei referenti maschili.
Le guardie di un castello o di un palazzo sono tutte degli uomini; questo lo capite se, come me, avete un minimo di “cultura di favole principesche”. Sentite che frase: “le guardie sono tutte degli uomini”. Dal punto di vista meramente grammaticale qui la concordanza sembrerebbe errata. In realtà è giustissima. La grammatica e la linguistica sono dei saperi astratti, la realtà è concreta.

1.2-Gli antinomi:
Alcuni di voi staranno pensando: ma nei nomi di parentela la distinzione del genere maschile da quello femminile è chiarissima invece, e rispecchia appieno la realtà!
Sì, esattamente!! :-) Nei nomi di parentela infatti il genere è fissato nella semantica della parola stessa.
Quindi, se a “padre” corrisponde “madre”, a “fratello” corrisponderà “sorella”. Queste coppie di antìnomi esistono anche in lingue diverse dall'italiano.


INGLESE LATINO
brother= sister frater=soror
father=mother pater=mater

Per quel che riguarda il proto-indoeuropeo si è riuscito a costruire molto del lessico di famiglia.
Anche nella protolingua sembra che i ruoli di genere fossero stati ben fissati nel lessico di parentela.

Qui vi elenco solo alcune ricostruzioni ritenute valide:

*ph2tèr (h2 è laringale che tra due consonanti si vocalizza in “a”). Le laringali in glottologia corrispondono a determinati fonemi vocalici (h1= e/h2=a/h3=o). Poi però, non chiedetemi in quale modo i primitivi erano in grado di pronunciarle!!

*mah2tèr (h2 tra una vocale e una consonante scompare)

*sor (“donna” ma anche “sorella”). Variante: *swesor, letteralmente “donna propria” (per Francisco Villar), nel senso di “parente consanguinea sotto l'autorità di un uomo capo famiglia”.

*bhrater (“fratello”), praticamente identico all'inglese moderno.

*nepos (“nipote”, di zio e di nonno)

*awos (“nonno”)

*swekuros (“suocero”) e *swekrùs (“suocera”)

Termini per designare i cugini e gli zii non ne sono stati trovati.
Ho studiato per questo esame nell'autunno 2017 e per parte dell'inverno 2018: come me le ricordo ancora bene alcune!

1.3- Le presunte periodizzazioni dell'I.E.:

E' più o meno dalla metà del secolo scorso che i glottologi ipotizzano tre periodi per la nostra ipotetica proto-lingua:

I.E. Arcaico: Dal VI° al V° millennio a.C. Non esistono ancora i generi grammaticali come li conosciamo adesso, esisteva probabilmente l'opposizione animato/inanimato.
Non compaiono inoltre né il perfetto né il futuro. Ci sono solo due tempi: presente e passato.

I.E. Intermedio: V° e IV° millennio a.C. Si ampliano i tempi verbali: presente, passato e perfetto. Esistono ancora le laringali. In questa fase, un ramo inizia a separarsi: si tratta del gruppo anatolico. L'hittita infatti conserva una laringale; e questa, a detta di alcuni studiosi, sarebbe una dimostrazione della loro possibile separazione precoce.

I.E. Tardo: IV° millennio a.C., forse anche III°. Questa forma di lingua ha tre generi: maschile, femminile e neutro, desinenze per ognuno degli otto casi, tre tempi verbali e aggettivi.

E' stato importante presentare questa cronologia di mutamenti per poter capire quello che c'è scritto sotto.

2. ANIMATO O INANIMATO?

2.1-Stasi o movimento?

Chi ha studiato o sta studiando Scienze Motorie o Fisioterapia ha sicuramente dovuto affrontare un esame di chinesiologia, parolona agli occhi degli incompetenti (come me) nel vostro ambito.
Io ho delle abilità mentali di tipo linguistico-grammaticale, i fisioterapisti di tipo spiccatamente scientifico. Però, pur non sapendo nulla di questa branca di studi, grazie al greco posso intuire che la “chinesiologia” deriva da “κίνησις” (chìnesis), ovvero, “movimento”.
D'altra parte, l'energia cinetica è l'energia di un corpo in movimento, come le pale dell'energia eolica o come un sasso che cade dal quarto piano di un palazzo (tra l'altro, se non ricordo male, nella caduta il suo moto è definito “uniformemente accelerato”).
Ho fatto questa piccola digressione sul concetto di “cinetico” per chiarirvi una regola d'oro dell'I.E. Arcaico: l'opposizione tra generi consisteva per lo più nella distinzione tra corpi statici e corpi dotati di movimento.
Indoeuropeo è tutto il sistema ideologico fondato sull'opposizione tra presenza e assenza di movimento.
I linguisti hanno formulato la teoria di animato/inanimato notando che nelle lingue appartenenti alla famiglia indoeuropea esistevano delle coppie di nomi dei quali uno era neutro e l'altro “animato” (quindi, appartenente o al genere maschile o a quello femminile).
Ecco un esempio significativo che Bettini fa a questo proposito:

LATINO GRECO
Aqua, femminile ὕδωρ (=udor), neutro

In latino, “aqua” è femminile, quindi, considerata dagli antichi romani come una forza naturale in movimento. In greco invece era considerata soprattutto nella sua materialità.

3-I GENERI NELLE LINGUE MODERNE:

3.1-Un po' di numeri:

In italiano i generi sono due: maschile e femminile.
In latino, in greco, in tedesco e in inglese sono tre: maschile, femminile e neutro. (per l'inglese: si ricordi il pronome “it”, riferito a oggetti e animali).

3.2-Esempi di coppie di opposti:

In lingua italiana, sole è maschile, luna è femminile. Così anche in inglese: sun (m), moon (f).
Tuttavia, questa opposizione non si ripete identica in tutte le lingue indoeuropee.
In tedesco infatti, Die Sonne (il sole) è femminile, Der Mond (la luna) è maschile.

Schema articoli tedeschi.

Maschile: Femminile: Neutro:
Der Die Das


3.3-Le classi nominali:

Quanti generi può avere una lingua?? Anche più di tre, in casi abbastanza rari.
Istvàn dice che se una lingua ha più di tre generi, si deve però parlare di “classi nominali”.
Il Dyrbal, lingua indigena dell'Australia, avrebbe dunque 4 classi nominali: una per il maschile, una per il femminile, una apposita per i vegetali commestibili, un'ultima per tutto il resto.
In Dyrbal però gli uccelli non sono della quarta classe, ma della seconda. Sono femminili, perché creduti delle reincarnazioni di donne morte.


4-ALTRE PARTICOLARITA':

Concludo in bellezza questo post “tecnico”.

4.1- Un'ulteriore ambiguità di genere:

La parola “morte”, che deriva dal latino “mors” è di genere femminile.
La radice I.E. per “morte” è questa sillaba impronunciabile *mr, dove r non è una consonante ma una sonante, con il pallino sotto, quindi, con suono simile a quello vocalico.

Se “mors” e “morte”sono femminili, mrtyu (antico indiano) è invece maschile.
Come in tedesco nei casi di “sole” e “luna”, in antico indiano è maschile una parola che noi italiani abbiamo sempre considerato femminile. Per noi grammaticalmente e concettualmente esiste “la morte”, mentre una cosa come “il morte” non è affatto contemplata.
“Il morto” sì, riferito alla persona defunta però.
Questo per confermare che, dal punto di vista linguistico, l'attribuzione del genere è arbitraria e può variare da lingua a lingua.


4.2- La mia tesina etimologica:

Vi ho fotografato lo schema della mia breve indagine linguistica. Tanto il mio corsivo è leggibilissimo, vero??! Ditemi che è così!


1) Volendo capirne le origini, ho aperto un nominario sul quale c'era scritto che era una variante del composto russo “Miroslavo” , cioè, “colui che è gloriosissimo”.
Villar mi ha informato del fatto che “slava” significa “gloria, fama”.

2) Miroslavo è composto da “mir” (pace) e “slava” (fama, gloria).

3) La parola “mir” ha lo stesso significato sia in croato, dove è scritta in alfabeto latino, sia in russo, dove è scritta in cirillico. Porta anche i sensi di “riposo eterno”, “calma”.

4) Riposo eterno? Quindi morte? Quindi può derivare anche questa da *mr, radice da cui derivano tutte le simili “morti” in alcune lingue? Anche i mutamenti fonetici potrebbero confermare che “mir” è un'evoluzione del gruppo slavo da *mr.
Infatti, la sonante r in latino da esito or= mors, in antico indiano rimane sonante e in slavo darebbe esito in ir, dunque: mir.

5) Alla mia docente è sorto il dubbio che “Mirco”, derivato di Miroslavo, possa significare addirittura “colui che è glorioso nella morte”. A me piace di più staccare “Miroslavo” da “Mirco”, e dare a quest'ultimo il senso di “calma interiore” oppure di “pacifico”.
D'altra parte, un morto è morto, quindi non è più tormentato da conflitti interiori e dai travagli della vita, giusto?! Un morto è interiormente pacifico.


7 giugno 2018

La donna e i tipi di matrimoni nella cultura della Roma antica:


Anche presso gli antichi romani la misoginia e la gunaicofobìa erano piuttosto diffuse, in particolar modo nell'epoca imperiale. Inizio dalla letteratura.

1. LETTERATURA LATINA:

1.1- OVIDIO:
Ovidio è vissuto durante l'impero di Ottaviano Augusto, in un momento in cui Roma era al suo massimo splendore militare, politico e culturale.
Ovidio è stato anche l'autore dell'Ars Amandi, trattato suddiviso in tre libri in cui vengono dati consigli su come gli uomini devono comportarsi per conquistare una donna.
Anch'egli, come gli antichi Greci, era convinto che la "libido" femminile fosse molto più rovinosa di quella maschile, e lo afferma sin dal primo libro.

vv. 281-282: In noi uomini il desiderio è più moderato e non così furioso,/ la passione dei maschi rispetta il confine della legge.

Pochi versi più avanti, l'autore fornisce degli esempi mitologici relativi a donne particolarmente lussuriose, come Mirra.
C'è una tragedia di Vittorio Alfieri intitolata Mirra, i cui contenuti sono tratti dalla cultura classica. Mirra era una ragazza che nutriva un erotismo insano verso suo padre, al punto tale da invidiare follemente sua madre che invece, legittimamente e secondo natura, lo aveva al suo fianco come compagno.

1.2- MARZIALE:
Nato nel 38 d.C. e morto nel 104 d.C., quindi vissuto alcuni decenni dopo Ovidio, è stato autore di epigrammi, brevissimi componimenti di argomento talvolta scherzoso, talvolta serio.
In uno di essi (8° libro, n°12) scrive:

Vi chiedete perché io non desideri prendere una moglie ricca? Non mi va di diventare moglie di mia moglie. La moglie, mio caro Prisco, deve sempre stare al di sotto del marito, altrimenti i coniugi non saranno mai uguali.

Quello che Marziale vuole dire nell'ultima frase è sostanzialmente questo: è preoccupante il fatto che la moglie possa fare concorrenza al marito per quel che riguarda le risorse economiche.
In epoca imperiale, di donne ricche ce n'era più di qualcuna.
Di conseguenza, si temeva che si prendessero "troppe libertà", anche dal punto di vista morale.

1.3- PLINIO IL VECCHIO:
Altro tuttologo, ma della Roma imperiale, non dell'antica Grecia!
Plinio, autore della Naturalis Historia in cui espone sia argomenti artistici, sia letterari, sia scientifici, sia filosofici, scrive con evidente disgusto sulla fisiologia femminile:

Naturalis Historia, libro VII°, 63-65:



La donna è il solo tra gli esseri viventi ad avere le mestruazioni (...)

al sopraggiungere di una donna che ha le mestruazioni il vino nuovo diventa acido; al suo contatto le messi diventano sterili; muoiono gli innesti; bruciano i germogli nei giardini, cadono i frutti degli alberi presso cui la donna si è fermata; al solo suo sguardo, la lucentezza degli specchi si appanna; si smussa la punta delle lame, si oscura lo splendore dell’avorio, muoiono le api negli alveari (...).

Ecco qui. 
Una caratteristica tipica di una parte dell'umanità è considerata come un qualcosa di negativo e di sporco. 
Quello che nei tempi antichi non si riusciva a comprendere era questo: come può un essere umano perdere sangue senza essersi ferito e soprattutto, senza aver bisogno di alcun genere di medicazioni?
La cultura latina non è stata l'unica a denigrare le mestruazioni.
Nella cultura ebraica, quando le donne raggiungevano questa fase del loro ciclo non dovevano toccare né essere toccate da nessuno e, oltre a ciò, dovevano evitare sia di entrare in luoghi sacri sia di lavarsi.

Nel Levitico (15,19-31) si dice:
Quando una donna ha il flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni; chiunque la toccherà sarà immondo fino alla sera.


Se io fossi una ragazza che vive in Nepal, caro Plinio, rischierei di morire ogni quattro settimane.

In Nepal, anche se siamo nel XXI° secolo, ci sono le "capanne delle mestruazioni"

Infatti, un antico rituale induista legato all'idea che il sangue mestruale sia, oltre che impuro, il simbolo di un contatto con qualche forza demoniaca, costringe le donne a una specie di esilio di alcuni giorni in piccole capanne. 
Questa periodica emarginazione sociale però ha causato la morte di diverse ragazze giovani e di donne adulte per assideramento, fame, incendi e morsi di serpenti velenosi.
Non c'è ancora modo di eliminare questa brutta consuetudine, perché è talmente radicata, soprattutto negli ambienti dei villaggi di campagna, che le stesse donne nepalesi sono convinte di "diventare impure circa una volta al mese".


2. I MATRIMONI ROMANI:

Nell'antica Roma esisteva più di un modo di contrarre matrimonio.

2.1: LA CONFAERRATIO:
Consisteva in una solenne cerimonia religiosa che veniva celebrata davanti ad un pontifex maximus (il sacerdote pagano) e ad almeno 10 testimoni.
Questa tipologia di matrimonio si poteva contrarre soltanto se i genitori di entrambi i fidanzati erano favorevoli all'unione. 
Si chiamava "confaerratio" perché prendeva il nome da una focaccia di farro che i novelli coniugi durante il rito dividevano come simbolo della volontà di mettere in comune le loro vite. 
Questa tradizione ricorda un pochino quello che spesso succede attualmente durante i pranzi di nozze: i novelli sposi tagliano insieme la torta nuziale di fronte a decine di invitati.
Alcuni di voi erano dei piccoli teneri frugoletti di pochi mesi quando i miei genitori si sono sposati... 
Ma eccoli qui i miei, in una fotografia che risale al pranzo del 19 giugno 1994:


2.2- LA COEMPTIO:
 La donna veniva ceduta al marito dinanzi a qualcuno che reggeva una bilancia sopra la quale veniva gettato un peso simbolico.

2.3-L'USUS:

Questo tipo di matrimonio era già citato in epoca arcaica tra le leggi delle XII Tavole e diceva che:  

l'uso di un bene per un anno (la donna, che era considerata un oggetto) ne faceva acquisire la proprietà anche senza la celebrazione di un rito.

Quindi, passato un anno dall'inizio della loro convivenza, un uomo e una donna divenivano automaticamente marito e moglie.
Anche questo succede frequentemente in questi ultimi anni: si va a convivere per "sperimentare, provare" la vita con l'altro prima di sposarlo, per "conoscerlo/a meglio e togliermi tutti i dubbi".
Adesso come adesso, bene che vada, pochi mesi prima del matrimonio una coppia di fidanzati convive nei fine settimana (due giorni su sette).
Certo, è vero anche che una coppia può convivere tutta la vita senza mai sposarsi.
Non so che scelta farò io in futuro, quando mi capiterà la bellezza di impegnarmi seriamente con qualcuno per costruire un progetto di vita comune. 
Per me comunque il matrimonio è una tappa che rende ufficiale l'affetto, la fedeltà, il desiderio di dare la vita.
La celebrazione del matrimonio non è soltanto un contratto. 
E' anche un dichiarare con gioia che finalmente, in questa decisione molto importante di sposarti, non sei più "spaiato", non sei più un  "individuo a metà", non sei più al centro assoluto della tua quotidianità. La tua vita cambia radicalmente in modo meraviglioso, dal momento che decidi di condividerla e di dare la vita ad altre creature.

"Metter su famiglia" è un'enorme responsabilità. 
Ma è un sogno che coltivo da quando ho 10 anni.
 
2.4: IL RAPIMENTO, UN CASO PARTICOLARE DI UNIONE :
In questo frangente, non esisteva alcuna celebrazione religiosa né modalità di acquisto né convivenze.
Spesso si trattava di un capriccio maschile per cui un uomo, dopo essersi invaghito di una ragazza, la rapiva e la violentava.

Nella storia monarchica di Roma è narrato da Livio l'episodio del Ratto delle Sabine. 
Secondo la leggenda Romolo, dopo aver fondato Roma si era rivolto alle popolazioni confinanti per poter  instaurare delle alleanze e per poter ottenere delle donne con cui procreare e popolare la nuova città. 
Al rifiuto dei vicini egli aveva reagito progettando un inganno: aveva organizzato dei giochi dedicati a delle divinità per attirare gli abitanti della regione. 
E i popoli vicini erano accorsi in gran massa! 

Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, 9:
... Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine 
per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l'unione 
di nuovi matrimoni. [...]  
All'ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: 
da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano 
per loro stessi e per i loro successori, che in mezzo a loro 
potesse crescere un simile potere



3- IL DIVORZIO:
Secondo una legge emanata da Romolo, il divorzio poteva essere chiesto soltanto dal marito.
I motivi che rendevano questa scelta giustificabile erano sostanzialmente tre: l'adulterio commesso dalla moglie, un aborto volontario, deciso senza il consenso del marito e la sottrazione delle chiavi della cantina. (All'epoca nessuna donna doveva bere, ora purtroppo, sia ragazze che giovani madri di famiglia si ubriacano anche peggio degli uomini!)

4. L'ANTICA ROMA PATRIARCALE:
Indubbiamente, la società romana era organizzata secondo un modello patriarcale.
La res publica (=lo stato) era fondata sulle "familiae", che formavano i nuclei dei gruppi sociali.
La "familia" è un gruppo i cui componenti si sottomettono all'autorità del pater familias, che aveva diritto di vita e di morte sui figli. Vi ricordate che più o meno a fine febbraio vi ho detto che, tra le leggi delle XII Tavole, c'era anche il diritto del padre di uccidere un figlio gravemente deforme?
Ora in Italia, se un genitore lo facesse, finirebbe in carcere, magari con la pena dell'ergastolo.
Ad ogni modo, l'autorità del pater familias consisteva anche nell'assumersi la responsabilità per ogni azione di chi gli era sottoposto che potesse offendere la comunità politica.