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24 dicembre 2018

Santo Natale 2018:

Anche il 2018 sta terminando. Incredibile ma vero!
Propongo qui un'ulteriore meditazione sul mistero del Natale.
Parto da alcuni versetti tratti dal Vangelo di Luca e commentati da Padre Ermes per poi riflettere su me stessa.
 
LC. 2, 1-14:

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.
C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». 


COMMENTO DI ERMES RONCHI:

Natale è il più grande atto di fede di Dio nell'umanità: ci affida suo Figlio. A Natale non celebriamo un ricordo, ma una profezia. E' un no gridato ai valori mondani, alla fame di potere, al "così vanno le cose".
"Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia".
Dio si affida alle mani di una donna, ha fede in lei. Come ogni nostro figlio, anche Gesù vivrà per l'abbraccio di sua madre. Maria si prende cura del corpicino del neonato: lo nutre di latte, di carezze, di sogni. Lo fa vivere. Così anche Dio vive oggi nel nostro mondo se ci prendiamo cura di lui, se lo aiutiamo a incarnarsi. "Il Verbo si fece carne" (GV 1,14). 
Non gli angeli, ma una ragazza generosa si prende cura di lui: il Verbo si è fatto bisogno.
Penso al pianto di Gesù sulla tomba dell'amico Lazzaro e dico: il Verbo si è fatto lacrime.
Penso alla mano sugli occhi del cieco nato, e dico: il Verbo si è fattto polvere e mano.
Poi penso alla croce e dico: il Verbo si è fatto agnello e carne in cui grida il dolore. E con me che piango anche lui imparerà a piangere, e se tu devi morire anche lui conoscerà la morte.
"C'erano in quella regione dei pastori che vegliavano facendo la guardia al loro gregge", e una nuvola d'ali e di canto li avvolge. Un gruppo di pastori, odorosi di lana e di latte... E' bello per tutti i poveri, per gli anonimi, per gli ultimi, per i dimenticati, che Luca prenda nota di quest'unica visita.
Natale non è una festa sentimentale: è il nuovo ordinamento di tutte le cose. Dio entra nel mondo dal punto più basso perché nessuno sia più in basso, nessuno non raggiunto dal suo abbraccio. Dio si è fatto uomo perché l'uomo si faccia Dio. Cristo nasce perché io nasca. La nascita di Gesù domanda la mia nascita, che io nasca diverso e nuovo, che nasca con lo Spirito di Dio in me.
Natale è anche la riconsacrazione del corpo, è la certezza che la nostra carne, che Dio ha fatto sua, in qualche sua radice è santa.
Il  Creatore, che aveva plasmato l'uomo nel giardino con la polvere del suolo, si fa lui stesso creta di questo nostro suolo. Creatore e creatura nel Natale si abbracciano, ed è per sempre.
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Padre Ermes è un poeta, l'ho sempre pensato!
Che cos'è il Natale? Quali valori ci ricorda?
Inizierei la mia riflessione sul Natale partendo da una citazione tratta dal mio romanzo ancora in fieri:

(dal Diario di una liceale invisibile, parte del capitolo quindicesimo) 

 Siamo a metà novembre e sono già state appese le luminarie di Natale.
Alzo lo sguardo e vedo dei festoni che raffigurano delle stelle comete, tutti appesi lungo una via esclusivamente riservata ai pedoni.
Noto inoltre che alcuni bar e ristoranti hanno già affiancato ai loro ingressi degli alti alberi di Natale, decorati con fiocchi rossi e luci bianche accese in pieno giorno.
Mi fermo per alcuni istanti ad osservare il ritmo delle luci intermittenti di un albero posizionato accanto ai tavolini di una pizzeria.
Le decorazioni natalizie mi sono sempre piaciute molto. Quando ero bambina aiutavo molto volentieri i miei genitori a decorare l'albero e a costruire la grotta del presepe.
Però, in famiglia noi li facciamo a inizio dicembre.
Questi festoni già appesi a metà novembre mi rendono po' perplessa.
Il Natale è considerata, dagli adulti, dai giovani e dai bambini una “festa magica”...
Anche nelle pubblicità di panettoni e pandori si sente frequentemente l'espressione “la magia del Natale”.
Ma si tratta soltanto di una sorta di incantesimo di inizio inverno oppure del ricordo della nascita di Gesù? Mi sembra che questa frenesia consumistica trascuri l'aspetto più importante del Natale pur di riuscire a vendere il più possibile della merce!

Zoe, con tutta la semplicità e la schiettezza dei suoi 17 anni, sta passeggiando da sola lungo le vie del centro della città in cui frequenta la scuola.
Zoe ci induce (almeno, dovrebbe indurci) a domandarci: cosa significa "la magia del Natale"?
Io ormai sono diventata insofferente a tutte quelle pubblicità di panettoni e pandori, nelle quali si vede un mondo in cui nevica abbondantemente e genitori e bambini, con larghi sorrisi, si distribuiscono le fette di pandoro.
Le famiglie non sono tutte così felici, tanto per cominciare.
E comunque, è da un sacco di anni che a Natale non nevica più, ma semmai o c'è nuvoloso o c'è nebbia.
Ad ogni modo, vi invito per qualche istante a ripescare dalla vostra memoria una precisa pubblicità del pandoro Bauli: intanto quella musichetta finalizzata a suscitare coinvolgimento emotivo "A Natale puoi", canzone che i ragazzini smettono di cantare una volta superata la seconda media!
E poi, in quella pubblicita', c'e' un bambino che esce di casa con una fetta di pandoro tra le mani e che ne dona un pezzettino a chiunque incontra per la strada: alla neonata sul passeggino, ad una ragazza, perfino a un piccolo passerotto. Poi torna a casa intristito, perché non gli è rimasto più niente. Ma, miracolo dei miracoli, trova la confezione di un pandoro Bauli sotto l'albero di Natale, e se lo stringe tra le braccia.
"Bauli, buono come te". Questo mi dà fastidio.
La Bauli non è buona, è avida di guadagno. Approfitta di luoghi comuni della massa, come "A Natale siamo tutti più buoni", per poter vendere bene. Collega l'economia con la generosità.
Ma forse non pensa al fatto che a Natale importante è "nascere nuovamente": stare in famiglia, mantenere e rinforzare i legami relazionali più solidi, ricordare che il Figlio di Dio si è fatto uomo, cantare e già stilare una lista di progetti per l'inizio dell'anno successivo.
Natale è rinnovamento interiore.
E' riscoprire la nostra umanità.
Questa ve la ricordate, vero? Risale al post del 7 dicembre, quando eravamo ancora a inizio Avvento.


Ora che l'Avvento è finito, vorrei spiegarvi rapidamente che cosa significano per me quelle sette parole/espressioni di questa mappetta.

1) UMILTA'. Parola stupenda. "Pauper, pauper, servus et humilis" ("Povero, povero, servo e umile"), dice il canto lirico "Panis angelicus". Umiltà nel senso di rendersi conto dei propri limiti, di non dare sempre la colpa agli altri dei nostri fallimenti. Umiltà è riconoscere la nostra umanità, è fare ciò che è nelle nostre possibilità per rendere migliore il presente in cui viviamo.
Quindi, per esempio: inutile e stupido vantarsi di avere una figlia che frequenta il Liceo delle Scienze applicate, se questa figlia non combina una mazza in quella scuola!
(Se sapeste! Al Beato Andrea da Peschiera ora come ora, dire di avere il figlio alle Scienze applicate sembra diventato un punto d'onore per le madri!)
Inutile incolpare il professore di matematica e fisica, la professoressa di italiano e la professoressa di chimica se tua figlia non riesce.
Per le Scienze applicate ci vuole costanza, impegno e grande intelligenza! Non sono i professori che si coalizzano contro una ragazzina; semmai è la ragazzina che né si impegna né è portata. I professori fanno il loro mestiere, punto.
Allora, per riconoscere i propri limiti e i propri difetti, si scava dentro se stessi, si aiuta i giovanissimi a scavare dentro di sé, ci si conosce meglio e si prova a cambiare, si prova cioè ad essere migliori!

2) FAMIGLIA. Altra grande parola! Una famiglia unita, calda, ma non chiusa in se stessa, bensì, disposta ad accogliere con semplicità. Le ferie natalizie sono molto di più di quattro pandori, di pranzoni, di cenoni e di schiamazzi. Molto di più.
Essere famiglia per l'altro.

3) DONI. Non significa soltanto acquistare e impacchettare regali. Anch'io l'ho fatto per le persone care. Significa anche essere dono per gli altri, e non soltanto a Natale, ma 365 giorni su 365!
Essere dono significa prima di tutto essere capaci di ascoltare il prossimo e di sostenerlo nei momenti di difficoltà.

4) DOLCEZZA. La dolcezza dei gesti di affetto fisico. E qui parlo prima di tutto per me, che tendo all'introversione. Non sono espansiva. Ma, almeno a Natale e a Capodanno, miriadi di abbracci sono leciti, ci stanno tranquillamente e indubbiamente.

5) FRAGILITA'. Cristo che si fa uomo. Cristo Gesù che diviene un neonato, ovvero, la creatura umana più indifesa che ci possa essere. Un neonato che sperimenta i bisogni dei bambini.

6) LETIZIA. E' molto legato ai rapporti umani anche questo mio concetto. Essere lieti, perché ogni giorno è in sé una piccola rinascita in cui si sperimentano le gioie di alcune relazioni e di alcuni obiettivi raggiunti.

7) ARMONIA TRA CIELO E TERRA. In questa notte santa, "Dio si è fatto uomo perché l'uomo si faccia Dio. Cristo nasce perché io nasca.", come diceva sopra Padre Ermes.


SERENO E FELICE NATALE A TUTTI VOI!








18 dicembre 2018

Chi pensa al bene dei nostri adolescenti?

Soltanto ora ho trovato il tempo per scrivere alcune brevi considerazioni sulla tragedia di Corinaldo, accaduta proprio poche ore dopo che avevo postato una riflessione sul tempo dell'Avvento.
...Sarebbe stato molto meglio che quei quattordicenni morti in modo assurdo fossero rimasti a casa, invece di andare al concerto di Sfera Ebasta.
Parto da un sogno che ho fatto nella notte di Santa Lucia, fra il 12 e il 13 dicembre quindi.
E' un sogno che, se venisse esteso per iscritto in un'opera letteraria, apparterrebbe al genere noir.


Ho sognato che era un giorno d'estate. Io e un ragazzino alto la metà di me eravamo nascosti nel buio di un garage pieno di ragnatele.
Il ragazzino tremava di paura e si aggrappava con tutta la forza possibile al mio braccio destro, mentre all'esterno, la voce cattiva del padre urlava di volerlo massacrare.
Io, in un primo tempo, riuscivo soltanto a stare in piedi con gli occhi sbarrati, immobile e pietrificata.
Pietrificata e sconvolta dalla ferocia umana, mentre il ragazzino accanto a me aveva iniziato a singhiozzare. Era già pieno di lividi.
Un singhiozzo particolarmente forte aveva attirato i passi del padre verso il nascondiglio in cui eravamo. A quel punto io ho iniziato a stringere forte il ragazzino, sussurrandogli: "Prima di uccidere te, dovrà vedersela con me e massacrare me, semmai!".
Un forte abbaiare dei cani e gli ululati di alcuni lupi avevano però allontanato dal padre crudele l'intenzione di aprire il portone del garage.
Non so per quanto tempo io e quel ragazzino siamo rimasti abbracciati e piangenti.
Alle prime luci dell'aurora, quando non si sentiva più alcun suono umano e animale, siamo usciti, pian piano da dove eravamo.
Anche se il cielo iniziava appena a rischiararsi, le stelle brillavano ancora di una luce quasi accecante. Mi davano fastidio!
Usciti dal garage, mi ero resa conto che noi due ci trovavamo... nel cortile della casa di Fai della Paganella (TN) destinata ai campi scuola. 
(Non chiedetemi il motivo per cui la mia mente ha collegato l'incubo a quella casa e a quell'ambiente, del quale conservo invece un ottimo ricordo dopo aver vissuto l'esperienza del campo parrocchiale di fine 1° media).
Abbiamo corso, tutti e due, mano nella mano, verso il cancello aperto della casa. 
Sulle strade non c'era anima viva e noi continuavamo a correre, fino al momento in cui siamo giunti in un bosco.
Mentre percorrevamo una strada in discesa, abbiamo intravisto una casetta di legno in mezzo a una radura. Eravamo entrati e... lo spazio interno di quella casa appariva piuttosto vasto. Lì ci avevano accolti una decina di individui sorridenti, affabili e vestiti di bianco.
Mentre pranzavamo con loro, all'esterno di quel piccolo paradiso avevamo tutti sentito una voce terribile che diceva ancora: "La pagherete cara entrambi! Avete i minuti contati!"


Poi si è interrotto tutto. Mi sono svegliata con la nausea ed erano le 5 e mezzo del mattino.
Sono passata dal letto alla poltrona di camera mia, mettendomi una coperta di lana attorno al corpo. Dovevo calmarmi, perché a momenti credevo di sboccare.
Dopo un po' di tempo mi sono riaddormentata e mi sono risvegliata stanca, ad alba molto inoltrata (le 9 e 40 è tardissimo!!!). E il bello è che mia mamma, la mia maggior confidente per quel che concerne l'ambito onirico, non sa niente di questo incubo! Ha scambiato la mia levata molto tardiva per stanchezza pre-natalizia; ed è morto tutto lì.

In questi giorni, con più razionalità e lucidità, ho riflettuto parecchio su questo incubo.
Ho pensato che fosse la rappresentazione di quella che io considero la mia missione educativa: ascoltare gli adolescenti, certamente, ma anche cercare di proteggerli da ciò che può loro nuocere.
Non sono soltanto le famiglie distrutte, il bullismo, l'alcool, le droghe, la pornografia, la voglia di imitare amici poco raccomandabili a sconvolgere la vita dei nostri giovanissimi.
Ci sono anche figure di cantanti, di rapper soprattutto, che, con i contenuti delle loro canzoni, sviliscono non soltanto i sogni e le speranze dei nostri ragazzi, ma anche tutto ciò che di bello e di positivo c'è nella loro quotidianità. Perché in ogni quotidianità, anche nella più difficile, c'è del positivo da cogliere e da valorizzare.

Conservo ancora gli appunti, datati 21 aprile 2018, di un incontro di catechesi sul Vangelo che io e altri giovani abbiamo fatto con Don Pietro.
Il don ci aveva spiegato prima l'immagine del Buon Pastore e poi ci aveva invitato ad una riflessione dialogata sul senso profondo della Pasqua.
Anch'io ho espresso quello che pensavo, ed è stato più o meno questo: 
"Pasqua, al di là dell'evento della Risurrezione del Signore, significa, nella nostra vita, accogliere e ricevere dei segnali di amore e di speranza nei periodi più bui, quando veniamo messi alla prova da eventi particolarmente duri come la grave malattia di un familiare o la grande difficoltà a relazionarsi con dei determinati gruppi di persone come i compagni di classe".
Ho parlato per esperienza personale, d'accordo. E le testuali parole del nostro curato sul significato della più importante festività cristiana sono state, alla fine dell'incontro:  
"Pasqua significa passaggio. Noi siamo chiamati a decidere chi siamo e la Pasqua ci permette di far diventare il nostro buio e le nostre morti interiori un passaggio verso la luce. Vivere la vita come Pasqua significa restare affascinati da qualcosa, non condurre una vita molto intensa senza interrogarsi sul senso di quello che facciamo."

Gli adolescenti sono delicati e fragili, vanno tutelati per quel che si può dal male e vanno difesi dal degrado morale. Sono dei ragazzini!! Sono nella piena primavera della loro esistenza e alcuni di loro dispongono di notevoli risorse intellettive e umane. Aiutiamoli a essere grati del dono della vita! Questo dobbiamo fare noi educatori.

Sfera Ebasta, con le sue canzoni oltremodo volgari e offensive nei confronti di ragazze e donne, non trasmette nulla di bello, nulla che inneggi al dono della vita e/o al valore delle relazioni.
Sfera Ebasta non comunica MAI cose come: "Lottate per i vostri ideali, teneteveli stretti! Impegnatevi affinché i sogni di adesso diventino realtà in avvenire!"
Il corrotto e imbecille ventiseienne dice, in "Hey tipa!": "Io non lo so cosa ti faccio. Però mi cerchi, lo so che ti piaccio, sono una m***a ragiono col c***o , oggi ti prendo domani ti lascio. Hey tipa, vieni in camera con me. Portati un'amica. (...) Ehi, t***a, vieni in camera con la tua amica porca."

Ma che razza di musica è mai questa? Se a qualcuno di voi lettori piacessero cose come queste, il mio caldo e amorevole consiglio sarebbe quello di farvi tagliare le orecchie!
La vera musica è ben altra, e ve lo sta dicendo una che in fin dei conti, essendo nata nel 1995, era adolescente proprio negli anni in cui Fabri Fibra e Fedez iniziavano a riscuotere un enorme successo.
Entrambi cantanti, entrambi demolitori di sogni.
Fibra è sempre stato scurrile e grossolano.
Per quel che riguarda Fedez invece memorabile, a mio avviso, è la canzone "21 grammi": "Ho consumato 21 grammi di felicità, per uso personale per andare via di qua. Senza più limiti, senza più lividi, un po' più liberi."
Si tratta di un inno alla droga. La droga rende liberi. NO! Il pensiero rende veramente liberi!
Alcuni miei compagni di corso la cantavano anche un paio di anni fa, in ambiente accademico.

Una canzone che invece mi ricorda molto il valore della libertà è la dolcissima "Io vagabondo" dei Nomadi. Ogni volta che la ascolto, che la suono alla chitarra o che la canto, mi vengono le lacrime agli occhi.
Soprattutto le prime parole: "Io un giorno crescerò... e nel cielo della vita volerò."
La vita non è un cielo senza nuvole. E' un'opportunità che proietta ognuno di noi in un vastissimo cielo di avventure e di relazioni.

Per non parlare del finale del ritornello: "Soldi in tasca non ne ho, ma lassù mi è rimasto Dio".
Ricorda moltissimo il messaggio di "Into the wild", ovvero, quello che per me è IL FILM per eccellenza.
La vita è un viaggio. Un viaggio che ci chiede autenticità e apertura mentale per poter essere ben vissuto. Non ricchezze materiali, non certezze. Ma desiderio di esperienza e di conoscenza. E ricerca di Dio, Essere dal quale io a volte mi sento molto lontana.


 

7 dicembre 2018

"Dall'immagine tesa", Clemente Rebora:

Nessuna poesia come questa, scritta da Rebora, può meglio descrivere lo stato dell'attesa.
Buon inizio di Avvento, miei cari lettori! Mancano esattamente 17 giorni al Natale.

Prima di riportare la spiegazione di questo suggestivo componimento, vorrei specificare tre etimologie:

A) Avvento deriva da "adventus", sostantivo latino della quarta declinazione che significa "arrivo".
Durante questo tempo liturgico, che include buona parte dell'ultimo mese, noi cristiani dovremmo prepararci spiritualmente a ricordare, a rivivere la nascita di Gesù.

B) Dicembre, in tempi antichissimi (cioè nei primi tempi dell'età monarchica di Roma, durante il governo di Romolo), era il decimo e ultimo mese dell'anno del calendario.
Marzo invece era il primo mese e corrispondeva sia all'inizio della primavera che all'inizio delle campagne militari romane.
A partire dall'epoca di Numa Pompilio, sono stati aggiunti anche gennaio e febbraio.
Ritornando alla linguistica storica comparata:

*dekṃt (radice I.E.). La sonante ṃ diviene foneticamente -em in latino, -a in greco e in sanscrito, -im in lituano.
Quindi, latino: decem, greco: δέκα (dèka), sanscrito: dáśa, lituano: dešimt.

C) Natale. Non c'è nemmeno bisogno che tu perda tempo a spiegarlo, penserete.
Nella lingua corrente, "natale" è un aggettivo accompagnato a determinati sostantivi, come nell'espressione "paese natale".
Natale deriva dal latino cristiano "diem natalem Christi"
"Natalem", dall'aggettivo "natalis", è strettamente legato al verbo deponente (forma passiva ma significato attivo) "nascor".

I Vangeli di Luca e Matteo narrano l'annunciazione a Maria da parte dell'angelo Gabriele, la nascita di Gesù in una mangiatoia a Betlemme, la visita dei pastori e l'arrivo dei re Magi dall'Oriente.
Giovanni inizia il suo Vangelo con questo periodo: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio."
Marco invece parte con l'episodio del Battesimo di Gesù, stateci attenti.

Questo tempo d'avvento è appena iniziato.
Sarebbe proprio il caso di farsi una mappa come la mia che riassume tutto ciò che con il pensiero colleghiamo alla parola "Natale".
Numerate pure, come ho fatto io, le parole; nell'ordine in cui vi vengono in mente.


DALL'IMMAGINE TESA:

                   Dall’imagine tesa        (v.1)
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
                 non aspetto nessuno:    (v.13)
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
                     il suo bisbiglio.        (v.26)


Il componimento ha 26 versi.
Lo si potrebbe tranquillamente suddividere in due esatte metà: da 1 a 13, spicca il tema dell'attesa; mentre invece da 14 a 26 prevale il motivo dell'arrivo sicuro di una presenza indefinita.
E' stato soprattutto quel "ma" del verso 14 che mi ha spinta a vedere queste due parti.
Più o meno dunque, mi è accaduta la stessa cosa quando avevo analizzato l'Infinito di Leopardi.
In questo caso, nei primi 4 versi ci sono i dimostrativi "questo", relativo a "colle" e "questa", relativa a "siepe". Sono elementi naturali vicini agli occhi del poeta.
Poi, a partire da quel "ma sedendo e mirando", cambia tutto.
La contemplazione induce il poeta a pensare, a immaginare "interminati spazi di là da quella (dalla siepe!) e sovrumani silenzi". Anche i dimostrativi sono diversi, perché riferiti a entità della mente, delle quali risulta impossibile verificare l'effettiva esistenza.

Comunque, ritorniamo alla poesia di Rebora.
Proprio all'inizio, dice "immagine tesa", nel senso di immaginazione assorta.
Abbastanza equivoco è il passaggio "nell' ombra accesa"... Se la stanza è buia, che cosa la illumina? La luce dell'interiorità di un uomo proteso alla ricerca di qualcosa? Oppure da un lento approssimarsi di un qualcosa di natura divina?
Sarebbe meraviglioso poter capire anche il vero senso di quel "polline di suono", che è una sinestesia, proprio come lo è "odore di fragole rosse".
Nella sinestesia si accostano due sensi: nel caso di "polline di suono", la vista e l'udito, nel caso invece di "odore di fragole rosse", l'olfatto e la vista.

Più di una volta è ripetuto il sintagma "non aspetto nessuno", cioè, non attendo alcuna presenza umana.
E' come se l'autore dicesse a se stesso: "arriverà qualcosa, me lo sento, ma non riesco a ipotizzarne l'identità".

Quella di Rebora è un'attesa religiosa.
Il contenuto di questa lirica è il preludio a una conversione religiosa avvenuta con il tempo.
Quello che voglio dire è che Clemente, al contrario di Petrarca e di Parini, ha preso gli ordini ecclesiastici nel 1929 per vera vocazione, non per garantirsi una dignitosa posizione economica.

Alcuni critici sostengono che questa poesia sia il risultato di una sofferenza amorosa, realmente avvenuta.
Molto prima di entrare in seminario infatti, Rebora aveva convissuto per ben sei anni con una pianista di origini russe.
Pensate che insoliti travagli spirituali-vocazionali che hanno attraversato alcuni letterati!
"Dall'immagine tesa" dunque, costituirebbe secondo loro una fragile speranza di Clemente, che attende alcuni segnali di ritorno della donna amata.

A mio avviso, ciò che rende debole e abbastanza improbabile la loro tesi è l'abbondanza, negli ultimi otto versi, di termini appartenenti alla sfera del lessico religioso: "perdono", "tesoro", "ristoro delle mie e sue pene".

Mi piace molto una puntualizzazione del professor Carnero, che dice: "(...) l'idea di un avvento capace di sorprendere, espressa nei versi 17-18: verrà d'improvviso/quando meno l'avverto richiama un celebre versetto del Vangelo di Matteo (24,44), che contiene un invito alla vigilanza nell'attesa della venuta futura di Cristo: Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo."

Concludo il seguente post con alcune riflessioni poetiche di Padre Ermes Ronchi:

"Due sono le parole che caratterizzano il tempo dell'Avvento: attesa e attenzione.
Attesa è tensione verso il presente. E' l'attesa di Dio, di Colui che viene, eternamente incamminato verso ogni uomo. Attesa come di madre: la donna sa nel suo corpo, da dentro, cosa significa attendere; è il tempo più sacro, più creatore, più felice. Attendere, infinito del verbo amare. Tutte le creature attendono un Dio che ha sempre da nascere.
Attenzione è rendere profondo ogni momento. Si deve vivere con attenzione il presente, visto che la superficialità è una delle più gravi epidemie della nostra contemporaneità."









28 novembre 2018

"L'affido":


"L'affido" è un film oltremodo drammatico che racconta l'angosciante incubo di una madre e dei suoi due figli, costretti a vivere una quotidianità  infernale a causa di un uomo violento, aggressivo e ossessivo che non accetta la separazione.

"I miei genitori sono separati da un anno. Vivo con mia madre e mia sorella e noi festeggeremo i 18 anni di mia sorella alla sala delle feste di Rial. Abitiamo tutti da nonno e nonna tranne mio padre; ma non posso mai giocare davanti a casa o in giardino perché ho paura che arrivi quello. 
Il nonno comincia a urlare quando viene e non va bene per la sua salute. 
Io mi preoccupo per la mamma. Lui vuole solo farle del male, non è un padre come gli altri. 
Sono contento che i miei genitori divorzino. Lui non piace nemmeno a Josephine ma lei non è obbligata a vederlo perché è grande. Anch'io non voglio vederlo mai più e non voglio che il giudice mi obblighi ad andare da lui due settimane al mese o un fine settimana su due perché non voglio vederlo più. Non ho altro da aggiungere."

La punteggiatura a queste frasi l'ho messa io, visto che queste dichiarazioni, provenienti dalla mente di Julien, un bambino di 11 anni, vengono lette frettolosamente e in modo inespressivo da un giudice che incontra i suoi genitori e i loro rispettivi avvocati.

La scena dell'incontro tra il giudice, gli avvocati e i due ex-coniugi è piuttosto lunga e insiste soprattutto sull'abilità di eloquenza dell'avvocato di Antoine, il padre di Julien.
Ciò che intristisce lo spettatore è sia la freddezza del giudice che le risposte di Antoine.
In questa storia, ricopre il ruolo di giudice una donna che non è per niente empatica e che non si sforza di comprendere né il terrore di un'ex moglie continuamente perseguitata dalle telefonate e dalle visite inaspettate del marito né il dolore di due figli, di due ragazzi in questo caso.
Osservate per alcuni istanti questa fotografia.


Miriam, la madre di Julien e di Josephine, sembra aver sparso anche troppe lacrime. E' uno sguardo impaurito e stremato dalla sofferenza.
Antoine invece ha uno sguardo inquietante, ovvero, bieco e torvo.
Allora. E' pur vero che un giudice/magistrato non deve farsi coinvolgere troppo dalle vicende familiari di cui è chiamata a formulare sentenze; però, quello che dico io è che questi due adulti lei, mentre conferiva con i loro avvocati, li aveva di fronte, a stretto contatto visivo.
Sin dall'inizio, per lo spettatore è facilissimo distinguere vittima da oppressore.
La giudice invece trascura i particolari delle espressioni e non dà il giusto peso agli episodi di violenza che Miriam e Josephine hanno subito di recente; episodi ampiamente testimoniati nei verbali e nei racconti impressionanti di un'ex-moglie.
A Josephine il padre un giorno ha slogato un polso perché aveva saltato una mattinata di scuola.
La giudice è convinta di avere di fronte a sé due bugiardi: "Vorrei capire chi di voi due mente di più", dice a un certo punto. Lei sostiene che anche Miriam abbia diverse colpe, compresa quella di essere riuscita a conquistarsi in modo esclusivo l'affetto dei figli.
Purtroppo, l'avvocato di Antoine risulta piuttosto persuasiva nel riferire la condizione di un uomo "ingiustamente escluso dalla propria vita familiare".

Oltremodo irritante è il comportamento di Antoine durante l'udienza.
Alla domanda della giudice: "Emerge dalle dichiarazioni che i suoi figli sono entrambi contro di lei. Può spiegarmi il perché?", risponde: "Mi piacerebbe capirlo. Non so cosa gli hanno messo in testa."

Abbiano, tanto per cominciare. Il congiuntivo, questo sconosciuto!!!!!
L'indicativo è il modo della realtà e delle certezze passate, presenti e future.

"Frequento il primo anno del corso magistrale in Filologia Italiana all'Università di Verona."

Frequento è il presente indicativo riferito a una realtà non tanto di uno specifico istante, quanto piuttosto di uno specifico periodo della vita. Il frequentare (e lo studiare) fanno parte della mia quotidianità.

"L'anno scorso sono andata al Teatro Filarmonico per vedere la rappresentazione della Tosca"
 Questo è un bel ricordo del 2017. E' certezza di un qualcosa che è avvenuto nel passato.

"In primavera andrò il più possibile a pedalare con mio zio sulle stradine lungo le rive del Mincio".

E' un futuro che indica una certezza. Nel mio caso, una certezza che si ripete da ben 8 anni, sempre nel periodo primaverile-estivo.


Il congiuntivo, oltre ad essere il modo della possibilità, è anche il modo della soggettività del pensiero e delle idee, indipendentemente dal tempo verbale al quale è legato nei vari contesti.
Il modo congiuntivo non indica mai sicurezza. 
Anzi, a me piace come modo perché, nonostante sia di difficile formazione fonetica e morfologica, rivela tutta la limitatezza delle facoltà mentali umane.
Il congiuntivo evidenzia i dubbi, i tormenti, ma anche le speranze e i desideri.
Eccovi alcuni esempi:

"Penso che tu sia veramente molto maturo."

"Ultimamente la mia migliore amica si dimostra sempre piuttosto irritata e insofferente verso di me. Non so che cosa le prenda."

"Spero che l'esame di Storia del romanzo italiano mi vada bene".

"Che bello se il prossimo settembre potessi ritornare a Trieste!".

Anche l'italiano è logica e ragionamento!!!

Ho trascritto questa mini-lezione di italiano non per annoiarvi ma per arrivare ad una conclusione: un uomo malvagio dai pensieri distorti, capace soltanto di torturare le persone con le quali aveva costituito una famiglia, non riesce a distinguere, dal punto di vista della sfera psicologica, la vera realtà dalle proprie idee. Egli identifica le proprie idee con la realtà.
Antoine ha l'assoluta certezza di essere un padre vittima delle "carognate" di una moglie che gli impedisce di avere contatti con i figli.
Io, da italianista, mi irrito quando si sbagliano o si ignorano i congiuntivi.
Però in questo caso, riflettendoci sopra, non c'è da meravigliarsi più di tanto se Antoine mette un indicativo al posto di un congiuntivo, per i motivi che ho spiegato sopra e per i due punti che ho messo sotto.

1) Percezione della realtà: zero e lode.
2) Equilibrio psichico: zero e lode. 
E non c'è niente da ridere! Non è ironia la mia stavolta, è sconcerto e sgomento, casomai.

E comunque, che brutto quando un padre dice, a proposito della propria ex-moglie: "Me li ha messi contro (riferendosi ai figli)".
...Magari fatti un esamino di coscienza e domandati che cosa hai sbagliato, soprattutto se hai picchiato "le donne" di casa.

Dovreste vedere il film per poter comprendere appieno a quale sofferenza sono sottoposti Miriam e i figli.
Se cercassi di descrivere gli episodi di questo film, non renderei di certo il pathos al quale anche gli spettatori vengono sottoposti.

Questo è un post un pochino particolare, diverso da quelli che scrivo di solito quando voglio riassumere i contenuti e le tematiche di un film.
Ho fatto dei riferimenti soltanto alla scena iniziale di quest'opera cinematografica e non voglio andare oltre.
Dovete trovare la forza di vedervelo, anche se si tratta di una questione spinosa, anche se l'atmosfera è pesante lungo tutto lo svolgimento delle vicende.

Concludo il post con due riflessioni: una di natura teologico-umana, che provoca in me ancora molta amarezza e che "mi brucia molto"; l'altra invece è puramente letteraria.

A) E' trascorso esattamente un anno da quando, quella sera, è stato chiamato un esorcista proveniente da Torino per chiarire ai diciottenni che frequentavano il gruppo adolescenti la questione del male nel corso dell'esistenza umana.
L'ho già rivelato in un post ad agosto dal titolo "Ragazzi, non perdete di vista l'essenziale!": le sue parole non le ho per nulla gradite. Mi ha fatto arrabbiare sia l'atteggiamento arrogante, pieno di pregiudizi negativi verso i giovani che aveva di fronte, sia i contenuti della sua lunghissima conferenza.
Ma come si fa... due ore e mezza a urlare e a pontificare e a sentenziare tra l'altro anche su dolori che non gli competono!!
Avrebbe dovuto portare il massimo rispetto, visto che i nostri diciottenni costituivano e costituiscono  un'annata speciale.
I ragazzi avevano preparato per lui (ma non se lo meritava!) alcune domande. Quella che per me è stata un colpo al cuore è stata questa: "Il divorzio è opera del demonio?"

E la risposta di quell'esorcista è stata una pugnalata allo stomaco: "Se due coniugi divorziano fanno il gioco del demonio".
C'è una mia riflessione personale su questo che "all'epoca" aveva infastidito alcuni miei co-animatori. La riporto qui sotto. Perché io, a questa persona, dilaniata da una sofferenza che difficilmente si potrebbe immaginare, saprei rispondere certamente meglio di così.
Uno che fa una domanda del genere è un tormentato, quindi un po' più di rispetto!

Nelle celebrazioni matrimoniali del passato, e parlo degli anni '50 e '60, il sacerdote che assisteva allo scambio degli anelli dei due sposi diceva: "L'uomo non osi separare ciò che Dio ha unito."
 L'uomo, per l'appunto, non il demonio. 
Credo che il divorzio sia causato per lo più dalla fragilità umana, dall'incapacità di una coppia di coltivare nel corso del tempo un rapporto sereno e basato sul rispetto reciproco.
I traditori, i violenti e i prepotenti sono molto più fragili di quel che credono. Non lo dico per giustificarli, ma perché so che la loro indole contorta li porta ad essere quello che sono.
Dimentichiamo per qualche istante l'etimologia greca di "diavolo" : διαβάλλω (=diabàllo), ovvero,"dividere". In questo contesto non aiuta, anzi, è fuorviante.
Nemmeno i figli possono e riescono a comprendere appieno le complicate dinamiche relazionali del rapporto tra due genitori. Anzi, l'esperienza relazionale mi ha insegnato che i figli dei divorziati hanno con i genitori dei rapporti affettivi piuttosto complessi, difficili da spiegare e da definire.
Non so che cosa porti un amore a degenerare in violenza o in sadismo.
Un evento che segna moltissimo la vita di numerosi adolescenti di oggi è proprio la separazione dei genitori che non sono più in grado, per vari motivi, di vivere serenamente sotto lo stesso tetto.
Però una cosa la so, almeno, credo di saperla. 
E mi rivolgo proprio ai figli dei divorziati: nonostante tutte le loro fragilità e tutti i loro errori, i vostri genitori hanno fatto qualcosa di molto bello; e cioè, vi hanno dato la vita. La vostra unicità è irripetibile e inimitabile, indipendentemente e al di là di questo vostro dramma...

B) Per quel che concerne la letteratura, cari miei, non posso e non potrò mai dimenticare una rinomata personalità intellettuale del secolo scorso: Pier Paolo Pasolini.
I genitori di Pier Paolo non hanno mai divorziato, ma ci ha pensato la guerra a separarli. Per tutta l'infanzia e per tutta l'adolescenza, Pier Paolo e Guido sono vissuti in un clima di paura a causa di un padre militare che sfogava la sua rabbia sulla loro madre.
Nel 1940, Pier Paolo aveva 18 anni e aveva conseguito la maturità classica con il massimo dei voti.
Nel 1941 era iniziato il secondo conflitto mondiale anche per l'Italia.
Il padre era partito nella spedizione d'Algeria contro l'esercito inglese.
Pier Paolo, con altri tre amici e compagni di corso, tenta di ideare un giovanile progetto culturale, ovvero, una rivista che tutti e quattro vorrebbero intitolare "Eredi".
Lui e i suoi amici si proclamano eredi di un passato letterario che vogliono spiegare e valorizzare all'interno di un giornale di matrice prettamente letteraria.
Mamma mia, come erano svegli gli studenti di Lettere dell'epoca!! Sicuramente molto più di adesso. Per "gustare" le Lettere bisognerebbe essere svegli.
Intanto però iniziano i bombardamenti a Bologna. La madre di Pier Paolo, Susanna Colussi, di origini friulane, si trasferisce nel suo paesino natale, Casarsa (Attuale provincia di Pordenone), dove l'attendono sorelle e zii anziani.
Guido Pasolini, il fratello minore di Pier Paolo, si arruola come partigiano nel '43, a soli 19 anni. Nello stesso anno, Pier Paolo, impossibilitato sia ad attuare il suo progetto di rivista sia a terminare gli studi accademici, fugge da Bologna per non essere arruolato e raggiunge la madre nelle campagne friulane.
Per la madre, Pier Paolo ha una sorta di venerazione. 
E' l'unica donna che ha amato nel corso della sua esistenza.
Pier Paolo era sicuramente una persona che tendeva a vedere tutto nero e su questo sicuramente ha influito anche il clima che ha respirato in famiglia da ragazzino...
Nei suoi film e nei suoi romanzi non c'è mai nessun lieto fine: solo annegamenti, tragedie, violenze, morti per delirio e in miseria totale, disillusioni, amori tormentati oppure vissuti come puro istinto sessuale animalesco senza vera tenerezza e premura.
Poi sì, c'è anche da precisare che in età adulta non ha avuto molte gratificazioni né molti riconoscimenti... Però, nel suo romanzo Ragazzi di vita un implicito riferimento alla sua vicenda personale familiare c'è, e si trova nella figura di Genesio.
Nessuno meglio di Pasolini poteva descrivere lo stato d'animo di un ragazzino nella stessa situazione di Genesio, proprio per il fatto che Pasolini aveva vissuto più o meno le stesse vicende di Genesio, di Mariuccio e di Borgo Antico.


23 novembre 2018

Le varie rappresentazioni dell'infanzia e della prima giovinezza nell'arte del passato:


... L'altro ieri è accaduto qualcosa di davvero meraviglioso: sono nate le due gemelle dei miei amici che avevano celebrato il loro matrimonio a febbraio, in una chiesetta di collina!
L'altra sera ho pianto di gioia per loro, perché il loro amore forte e sincero ha regalato al mondo due creature.
Al loro nucleo familiare, felicemente raddoppiato, dedico questa piccola ricerca storico-artistica relativa al tema dell'infanzia, dato anche che la nonna paterna delle gemellina è un'artista che dipinge e scolpisce!
Per poter comprendere la considerazione che gli uomini del passato avevano a proposito dei bambini è necessario considerare delle fonti iconografiche.

LA RAPPRESENTAZIONE DELL'INFANZIA E DELL'ADOLESCENZA NEL MEDIOEVO E IN ETA' MODERNA:

L'arte medievale, fino a tutto il XII° secolo, non rappresenta mai né l'infanzia né l'adolescenza.
Ma non per mera incapacità di realizzare bambini e giovanissimi.

Si tendeva a deformare qualsiasi figura infantile, nelle miniature come negli affreschi.
Lo storico francese Philippe Ariès, dedito all'analisi delle dinamiche familiari attraverso i secoli, riporta un esempio significativo di ciò:

Una miniatura ottoniana del XI° secolo ci dà un'idea impressionante della deformazione a cui l'artista sottoponeva il corpo infantile in un senso che pare allontanarsi dal nostro modo di sentire e di vedere.
Il soggetto è la scena del Vangelo in cui Gesù chiede che si lascino venire a lui i bambini piccoli, e il testo latino è chiaro: "parvuli". Il miniaturista raggruppa intorno a Gesù otto uomini veri e propri, senza nulla d'infantile, riprodotti in formato ridotto. Solo la statura li distingue dagli adulti.

Purtroppo l'immagine relativa al "lasciate che i bambini vengano a me" non sono riuscita a trovarla. Ne ho qui un'altra, un po' più drammatica ma comunque inerente: è La strage degli innocenti, uno degli affreschi del Pantheon dei re nella collegiata di Sant'Isidoro a Lèon, in Spagna.

La strage degli innocenti
In questo affresco, risalente all'inizio del XII° secolo, la figura del bambino preso per i capelli da un soldato che sta per colpirlo a morte ma che non ha affatto un'aria crudele sembra più che altro un adulto in miniatura.
Ciò che distingue la vittima dall'assassino sono soltanto la nudità e la statura ridotta.

La concezione dell'infanzia in pieno medioevo si attiene non tanto "all'incompetenza" dell'artista quanto piuttosto ad un certo disinteresse verso questo primo periodo della vita.
Per i medievali, l'infanzia era un periodo breve, che passava velocemente e di cui si perdevano i ricordi. E naturalmente, il concetto di "adolescenza" come passaggio dall'infanzia all'adultità era completamente sconosciuto.

In epoca gotica e quindi, a partire dal XIII° secolo, qualcosina cambia: gli angeli, sia in scultura che in pittura, appaiono come degli adolescenti, non come degli uomini adulti.
L'angelo di Reims ad esempio, ha l'aspetto di un ragazzo con alcuni tratti del volto un pochino effeminati (non così insoliti nella componente maschile che si trova nel pieno della crescita).

Angelo di Reims
Per tutto il Trecento e per gran parte del Rinascimento, la rappresentazione dell'angelo adolescente si diffonde soprattutto nell'arte italiana: si pensi ad esempio all'Annunciazione (1489) di Botticelli: inserito in un ambiente interno con un pavimento a scacchi e strisce di marmo di ispirazione fiamminga, l'angelo a sinistra, appena atterrato, ha decisamente l'aspetto di un giovanissimo.

Annunciazione, Botticelli
Preciso però che Botticelli non è l'unico a dimostrare questa tendenza a raffigurare degli angeli giovanissimi.
Un altro importante pittore del Quattrocento, Piero della Francesca, in un'opera intitolata il Battesimo di Cristo (1440), inserisce a sinistra di Gesù tre angeli astanti, tutti e tre dotati di volti molto giovanili:
Battesimo di Cristo, Piero della Francesca

Oltre all'angelo adolescente, compare frequentemente nei dipinti il motivo della Madonna con bambino: in questo caso, l'infanzia è legata al mistero della maternità di Maria.
A partire dalla metà del XIV° secolo, Gesù a volte compare nudo, altre volte con una camicia leggera addosso, altre volte con un manto trasparente.
Vale la pena precisare che, a partire dal Trecento, il bambino si distingue dagli adulti non tanto per l'aspetto quanto piuttosto per gli atteggiamenti tipici della fanciullezza: a volte si stringe alla madre con tutte e due le braccia, altre volte le accarezza una guancia, come nel caso della Madonna dei denti di Vitale da Bologna (1345 circa) qui sotto:

Madonna dei denti, Vitale da Bologna
 Quest'immagine mi ha ricordato un'altra opera realizzata alcuni decenni prima da Duccio di Buoninsegna, che è La Madonna di Crevole (1284): anche in questo caso, il Bambino tende il braccio destro verso la guancia della madre.


Quindi, si può affermare che, già verso la fine dell'epoca medievale, si diffondono dei tratti di realismo sentimentale nell'iconografia religiosa.
Philippe Ariès scrive, a questo proposito:

Nelle immagini che raffigurano Gesù con la madre, l'artista sottolinea gli aspetti più graziosi e più teneri della prima infanzia: il bambino che si tende verso la madre, il bambino intento ai giochi dell'infanzia, il bambino che viene fasciato. Sono ormai evocati tutti i gesti che colpiscono l'osservatore.

In seguito, l'infanzia religiosa si allarga ad altri due temi nuovi: la nascita della Vergine e la sua educazione, mentre è intenta alle lezioni di lettura.
In epoca rinascimentale, si inizia inoltre a raffigurare anche l'infanzia e la giovinezza di alcuni santi.
Penso ad esempio alla scultura in marmo del San Giorgio di Donatello (1418):


San Giorgio sembra alla fine della propria adolescenza (in questa scultura, personalmente non gli darei più di 18 anni). Alla sua fermezza fisica, evidenziata soprattutto dalla sua armatura, si accompagna la fermezza morale, riscontrabile nell'espressione seria e pensosa del volto.

A partire dal Cinquecento, dall'iconografia religiosa dell'infanzia si distacca un'iconografia laica.
In questo secolo però, il bambino non è mai raffigurato da solo ma si trova o in mezzo ad una folla che assiste ad un miracolo o a un rito liturgico oppure con degli adulti di famiglia.
I bambini tra la folla inoltre sono messi bene in evidenza in braccio alle madri oppure tenuti per mano.
Non sono per nulla rari nemmeno temi quali il bambino apprendista dell'orafo o del pittore e il bambino a scuola.

Nel Seicento compaiono ritratti di bambini aristocratici. Il dipinto di Van Dyck, ovvero, i fanciulli dei Franchi, è emblematico.


Anche se la posa dei tre bambini è indubbiamente composta, com'era d'obbligo ai figli delle famiglie nobili, i loro tratti fisici sono fedeli al reale.
Nel XVII° secolo ormai, l'evoluzione iconografica della figura del bambino può dirsi pienamente compiuta.
 
E' inoltre interessante rilevare che, prima del Seicento, non si rappresentavano mai dei bambini morti. Questo per due motivi: prima di tutto perché non si riteneva un bambino morto degno di ricordo, dal momento che per tutto il Medioevo e anche per gran parte dell'età moderna la mortalità infantile in Europa era molto alta. 
Poi perché, come scrivevo all'inizio del post, l'infanzia era considerata una breve età di transizione. 
Se un bambino non riusciva a superarla i genitori non si disperavano, ma si rassegnavano, dal momento che interiorizzavano l'altissimo rischio di morte prematura tipico del Medioevo e dei secoli poco successivi.

Mi meraviglio però del fatto che, già nel XVII° secolo, periodo in cui in Europa era ancora molto facile che i bambini morissero senza aver compiuto il primo anno d'età, inizi a comparire una certa sensibilità verso la fragilità della condizione dei bambini.

A partire dal Seicento si diffonde l'idea che anche i bambini siano dotati di "anima immortale", quindi si inizia ad attribuire importanza anche alla personalità infantile.

VAN GOGH E LA FAMIGLIA:

Van Gogh, I primi passi

Concluderei con un bel dipinto di Van Gogh relativo ad un'umile famiglia di contadini.
Quest'opera mi è sempre piaciuta moltissimo: è molto tenera quella madre che accompagna sua figlia verso un padre pronto ad accoglierla a braccia aperte.

E' proprio quello che io auguro sia a questi miei due amici che sono appena divenuti genitori sia a me stessa per il futuro: costruire una famiglia unita e solidale che sappia stimolare gli sviluppi fisico-cognitivi dei figli e che sia fondata in particolar modo sull'aiuto e sul sostegno reciproco.



14 novembre 2018

"Il verdetto": storia di una giovinezza alla disperata ricerca di senso


Questo è un film recentissimo, sul quale vale proprio la pena di riflettere profondamente.

La protagonista, Fiona May, svolge una professione che io non farei mai: è giudice dei minori.
Questo lavoro la impegna moltissimo: trascorre quasi tutta la giornata in tribunale, tra lo studio legale e l'aula delle sentenze. Per questo la sera ritorna sempre troppo stanca per coltivare la relazione con il marito.
Fiona ormai ha raggiunto i 50 anni.
Ha vissuto e vive per studiare le leggi, per tutelare la vita quotidiana di molte famiglie, per decidere cosa è giusto e conveniente a bambini e adolescenti in grande difficoltà... ma non ha mai avuto abbastanza tempo per poter pensare alla sua situazione matrimoniale.

Per quasi tutto il film, la relazione tra Fiona e il marito è in equilibrio molto precario.
Sembra quasi che questi due coniugi viaggino su rette parallele mai destinate a incontrarsi veramente.
Lei, in particolare, non ha mai né il tempo materiale né la voglia di dialogare.
Ha soltanto alcune occasioni per coltivare il suo unico interesse che non fa parte della sua carriera lavorativa: suonare il pianoforte.
La sua brillante carriera di giudice esperta in diritto di famiglia non le ha mai concesso la gioia di avere figli. Ecco uno dei motivi per cui io non vorrei mai di essere, sul piano professionale, ciò che la protagonista di questo film è. 
Ogni giorno, sulle spalle di Fiona gravano i destini di minori che potrebbero essere suoi figli.

Una sera, il segretario del suo studio legale le telefona per una comunicazione urgente: Adam, un ragazzo che deve ancora compiere 18 anni, è affetto da una grave forma di leucemia. Per salvarlo sarebbe necessaria una trasfusione di sangue, ma sia lui che i genitori rifiutano il trattamento dal momento che sono fedelissimi testimoni di Geova.

Il giorno dopo, tutti i presenti in tribunale (il padre del ragazzo, la rappresentante della setta di Geova, il medico curante e gli avvocati di entrambe le parti) descrivono Adam come un ragazzo speciale, intelligente, fermo nelle sue scelte.
La morte lo coglierebbe in modo terribile: Adam, rifiutando trattamenti e trasfusioni, sarebbe destinato a chiudere gli occhi dopo un'indicibile sofferenza causata da emorragie interne.

Arguto, a mio avviso, è l'avvocato del medico curante che insiste a proporre la trasfusione.
Egli infatti dice, per contestare la rappresentante dei testimoni di Geova: "Voi sostenente che nella Bibbia le trasfusioni siano vietate. Ma nell'età del ferro le trasfusioni non esistevano ancora".
In effetti, questa convinzione dei testimoni di Geova deriva da un'interpretazione errata di alcuni versetti biblici.
Cito come esempio il Levitico (cap. 17, versetto 14):Non dovete mangiare il sangue di nessuna sorta di carne, perché l’anima di ogni sorta di carne è il suo sangue. Chiunque lo mangi sarà stroncato.
Per i testimoni di Geova, il sangue è considerato da Dio una forma di vita.
Dunque non bisogna assumerlo, in nessun modo.

Fiona, durante la discussione delle varie parti, prende una decisione inaspettata.
Prima di emanare la sentenza, dichiara di voler visitare lei stessa il ragazzo. E così fa.

Quando la signora raggiunge l'ospedale, trova un giovanissimo pallido, infermo, che respira faticosamente ma che pure la accoglie con un gran sorriso: "Sapevo che sarebbe venuta a trovarmi! I medici non volevano credermi, ma io avevo già previsto questa visita!", le dice.
Nel corso del suo primo colloquio con Adam, Fiona May nota innanzitutto che in questo ragazzo convivono "due passioni opposte", come avrebbe detto Alessandro Manzoni: il senso di obbedienza e fedeltà verso la sua religione ma anche la voglia di continuare a vivere.

"Ti hanno detto che cosa comporterebbe il rifiuto della trasfusione? Sai che può esserci anche una parziale guarigione che però può determinare la perdita della vista o la menomazione mentale?", gli chiede la giudice.
A quel punto del colloquio, gli occhi di Adam si riempiono di lacrime: "Sarebbe terribile, è vero. Ma avrei la coscienza tranquilla, perché saprei di aver accettato la volontà di Dio."

C'è da dire che lo trova molto ben indottrinato!

Il giovane infermo prova subito una sincera simpatia verso la sua giudice.
Insieme, prima del ritorno in tribunale della protagonista, cantano una canzone d'amore.
E' bellissimo anche per lo spettatore del film vedere Adam pizzicare le corde di una chitarra.

Le ultime parole di questo loro incontro però sono le seguenti: Fiona, prima di salutarlo, gli chiede: "Perché una trasfusione è sbagliata?"
Si sente rispondere con altre domande, come: "E' venuta per farmi cambiare idea? Perché una cosa è sbagliata? La tortura, l'inganno, il tradimento? Se io torturo un terrorista per avere delle informazioni utili, non è sbagliato quello che faccio?"

Ciò che la protagonista e il pubblico arrivano a chiedersi è: Adam vuole veramente morire?
Ed è veramente a posto con la coscienza come dice?
Se si fa e se fa tutte queste domande non sente forse una certa fame di vita e di senso?
No, non è che voglia morire. E' sopraffatto dalle teorie di una setta nella quale purtroppo è cresciuto. E' soggiogato da ciò che gli impone l'appartenere a Geova.

Quando ritorna in aula, Fiona dice: "Il benessere del minore dev'essere per la Corte una priorità assoluta. In questo caso la vita è più preziosa della dignità".

La vicenda però non finisce qui.
Adam ritorna ad una vita normale, sebbene non manchino i contrasti con i membri del suo gruppo religioso a talvolta anche con la famiglia.
Anche Fiona inizialmente ritorna alla normalità.
Ma presto il ragazzo si fa risentire: le telefona più volte, la segue nei suoi tragitti da casa al tribunale, la ferma per parlarle.
Non è diventato uno stalker! E' pieno di gratitudine e... e di domande.
"Credo che lei mi abbia fatto vedere il mondo con occhi diversi", dice una mattina a Fiona, mentre le consegna dei fogli sui quali ha scritto riflessioni, poesie e anche delle lettere destinate proprio a lei.

Per Adam ora è la giudice May un solido punto di riferimento, non più i genitori e non più la fede in Geova. Da Geova inizia a prendere proprio le distanze.
Passano i mesi e il ragazzo, divenuto diciottenne, è tormentato da millecinquecento domande.
In una lettera alla giudice scrive: "Sicuramente anche lei crede in qualcosa. Ma se non crede in Dio, in che cosa crede?"

Mentre nella prima parte del film vedevamo un ragazzo diviso tra voglia di continuare a vivere e obbedienza alla religione, ora ci appare un giovane alla ricerca di se stesso, alla ricerca di ciò che è giusto, vero e autentico. E anche alla ricerca di una definizione del concetto di "Dio".
In una serata piovosa, Adam rivela le sue ultime intuizioni a Fiona: "Mentre mi facevano la trasfusione, ho visto che al di là del finestrino della mia stanza d'ospedale, i miei genitori piangevano. Inizialmente credevo che piangessero per aver perduto la causa, ma poi ho capito che piangevano di gioia. Anche loro volevano che io continuassi a vivere."

Per 18 anni, questi due genitori hanno riempito la mente del loro figlio di false certezze e di teorie fragili come i castelli e le torri di carta...
Ma che cosa a loro premeva di più in quella situazione? La convinzione di trasgredire il loro Dio oppure l'amore per un figlio da salvare?

E' tenerissimo questo diciottenne. Addirittura vorrebbe trasferirsi da Fiona e dal marito.
Adam è proprio un ingenuo sognatore, uno dei tipi che a me piacerebbero molto: vorrebbe portare la sua giudice con sé in un viaggio, in modo tale che lei possa rispondere ai suoi molti dubbi.
Adam è un personaggio che invita a porsi una serie di domande su casi complicati della vita come il suo.
La sua storia stimola a chiedersi: religione (in questo caso, "movimenti religiosi") ed etica possono sempre convergere? Si può sempre considerare "ben chiaro e definito" il confine tra religione ed etica?

Prima di andarsene (e quella sarà l'ultima volta che la giudice lo vedrà in piedi e in grado di camminare), il ragazzo le dice candidamente: "Ho letto i regolamenti giudiziari. Lei, per formulare la sentenza sul mio caso, non avrebbe avuto bisogno di visitarmi per sapere come la pensavo. Secondo i regolamenti dei tribunali la tutela della vita dei minori prevale su qualsiasi teoria di fede. Allora perché lei ha voluto entrare lo stesso nella mia vita?"

Evidentemente, nemmeno una donna di 50 anni che da diversi anni ha a che fare con la legge e con casi molto delicati e complessi ha tutte le certezze.

La fine del film è tragica: Adam ha una ricaduta proprio alla Vigilia di Natale, serata in cui Fiona deve presentarsi come esecutrice di musiche ad un concerto.
Portato in ospedale, rifiuta la trasfusione.
La giudice riesce a sorprendere piacevolmente il pubblico con l'imprevista esecuzione della canzone d'amore del primo incontro tra lei e Adam.
Poi corre in ospedale, dove trova un ragazzo bianco quasi come un cadavere, che fa molta fatica a pronunciare le parole: "E' una mia scelta, signor giudice".

Il film si chiude con il funerale di Adam e con il tristissimo volto di Fiona, che da lontano ne osserva la sepoltura.

18 anni e una vita giunta a capolinea.
Una vita corta 18 anni che non ha avuto la possibilità di scoprire la propria identità.
Adam ha rifiutato una seconda trasfusione perché non sapeva più chi era.
Si è trovato di fronte a questioni più grandi di lui.
Era disorientato di fronte all'etica e alla religione, entrambe componenti fondamentali dell'esistenza di ogni creatura umana.
Etica è una parola di origine greca; deriva da ἦθος (èthos) e significa "comportamento, tradizione". Il suo equivalente latino è mos, moris, "tradizione, arbitrio, comportamento, usanza."
Ad ogni modo, già nell'età della Grecia classica, l' ἦθος indicava una corrente di pensiero la cui funzione consisteva nel distinguere i comportamenti umani giusti e leciti da quelli cattivi e illeciti (licet, licère significa appunto "è lecito, è concesso").
Ma la religione allora?! E' più di una serie di norme morali, è più di una serie di rituali.
Questa è la concezione riduttiva della religione che ha sempre avuto mia nonna. Tra l'altro, questa definizione assai parziale della religione la si sente riferire per lo più al cattolicesimo nella nostra società e nella nostra quotidianità, ma non dimentichiamo che esistono anche Buddismo, Induismo, Confucianesimo, Islam ed Ebraismo.
Per di più, il Cristianesimo è suddiviso almeno in tre branche: cattolici, anglicani, ortodossi e luterani.
Cos'è la religione?
La religione in generale è un interrogarsi sul senso e sul fine della propria esistenza in relazione a un'Entità Assoluta. I rituali e le norme morali in questo caso vengono coinvolti nella sfera del sacro, del divino.

In questa società, già andata a rotoli, si stanno confondendo l'etica con la religione.
In questa società da schifo i giovanissimi pieni di risorse psicologico-mentali e pieni di domande vengono spesso trattati da deficienti, quando non lo sono affatto!

La figura di Adam mi ha un pochino ricordato Ferruccio Pratolini di Cronaca familiare.
Anche Ferruccio, quando incontra il fratello Vasco dopo alcuni anni, gli pone un sacco di domande.
Fa pena e tenerezza: a 18 anni, Ferruccio è quasi solo al mondo. La madre è morta quando era un neonato, il barone che lo proteggeva è caduto in rovina e in povertà come il maggiordomo che gli ha fatto da padre adottivo. Un maggiordomo freddo, al quale non importava un cavolo secco dei pensieri del figlio adottivo. Per entrare in sintonia con un figlio, adottivo o biologico che sia, devi parlargli e guidarlo nel cammino della vita, consigliarlo nelle scelte se vuoi che riesca a comprendere il suo posto nel mondo.



7 novembre 2018

"Ti amerò sempre": film che fa convivere errori umani, disperazione, solitudine da un lato e tenerezza, gentilezza e memorie dall'altro


Il contenuto della pellicola cinematografica di cui sto per parlarvi è, in sostanza, una storia nella quale si intrecciano varie solitudini e lunghi silenzi dolorosi.

Il film, opera di Philippe Claudel, è ambientato in Francia e la protagonista è Juliette, una donna che ha trascorso ben 15 anni in carcere.
Significativa a mio avviso è quell'inquadratura in primissimo piano di Juliette che compare nei primi istanti. Lo spettatore, logicamente, non sa ancora nulla della protagonista, eppure, già in quel viso si scorgono segni di cupa sofferenza e di profonda devastazione interiore.
Quell'espressione tristissima mi ha ricordato lo sguardo della mia insegnante di matematica al liceo...
Mi faceva davvero compassione quella prof. e, sin dal primo anno del quinquennio, ho sempre pensato che la sua grande difficoltà nel trasmettere la materia che insegnava fosse dovuta soprattutto a quel suo brutto malessere d'animo.
Molti miei compagni non la rispettavano e la prendevano in giro alla grande.
Oltre a ciò, alcuni suoi colleghi (cioè altri nostri insegnanti) si permettevano addirittura di parlarci male di lei. Che ambiente terribilmente disumano può essere la scuola certe volte!!
Qualche familiare o magari qualche amico (non io, io ero un'alunna) avrebbe secondo me dovuto guardarla bene negli occhi un giorno, metterle le mani sulle spalle e dirle chiaramente: "Tu non stai affatto bene. Se vuoi io sono qui per ascoltarti, se vuoi puoi pensare di farti aiutare da qualche specialista. Ma non sentirti sola.".
Io non ero tenuta a conoscere il motivo del dolore di questa mia insegnante, però ho sempre ritenuto che fosse una persona molto sola.
Ad ogni modo, se una persona sta così male, prima di rapportarsi con gli altri in un ambiente pubblico con funzione didattico-educativa, dovrebbe veramente farsi aiutare. Quando ripenso a questa insegnante provo ancora compassione per lei.
Eccola qui, l'espressione di cui parlavo che tradisce una ferita psicologica insanabile
Ritornando al film, bisogna precisare che, pochi minuti dopo quell'inquadratura, compare Lèa, la sorella della protagonista, contentissima di ospitare Juliette a casa propria con tutta la sua famiglia.
Lèa è una docente universitaria di letteratura e con il marito Luke ha adottato due bambine dal Vietnam.
Nella prima parte del film la sorella di Juliette sembra l'unico personaggio capace di accettare la presenza di un'ex carcerata in casa sua e, soprattutto, sembra l'unica disposta ad amarla senza riserve. Anche le sue figlie adottive dimostrano un senso di curiosità verso questa zia che improvvisamente compare nelle loro vite.
Suo marito no. Inizialmente è molto diffidente.

Che cosa ha fatto di male Juliette in passato?
Il regista ce lo rivela durante il primo colloquio di lavoro della protagonista che, appena concluso il periodo di reclusione, deve reinserirsi nella società.

Juliette ha ucciso suo figlio.
Ecco il motivo per cui il primo datore di lavoro le dice scortesemente: "Se ne vada".
Ecco il motivo per cui il marito di Lèa non ha mai voluto figli naturali con la moglie.

Eppure (e in questo il regista è stato davvero geniale), lo spettatore non riesce a provare né odio né orrore né risentimento verso questa signora, vedendo costantemente uno sguardo spento e addolorato, e notando per lo più un atteggiamento di mutismo.

Per quasi tutto il film rimane sconosciuto il motivo per cui la protagonista abbia compiuto un gesto così tragico ed estremo.

Nella prima mezz'ora del film, l'unico elemento esterno alla famiglia di Lèa che si dimostra umano e comprensivo con una donna così sofferente è il carabiniere che si occupa della libertà vigilata di Juliette. Durante una chiacchierata in un caffè, le rivela di essere divorziato da una moglie che si è trasferita in America e che mai gli permette di vedere la figlia.
Questo ufficiale prova un dolore così forte e una solitudine così opprimente che ad un certo punto decide di suicidarsi.
All'interno della storia, questa è una tragedia parallela a quella della protagonista.

Devo ammettere che Lèa è davvero brava con sua sorella. Non soltanto le dà fiducia, ma fa di tutto per poterla rendere più serena: la porta in giro per la città, la porta nelle piscine comunali tutte le settimane, le fa conoscere alcuni suoi colleghi di lavoro, le affida le figlie per alcune ore quando si trova fuori casa.

Tra le bambine e la protagonista si instaura un bellissimo rapporto!
Tenerissima è la scena in cui Juliette, una sera, dopo aver letto una favola alla più grande, le si avvicina dandole una carezza.
La zia, che le bambine credono appena tornata da un lunghissimo viaggio, si rivela molto positiva nella relazione con le nipotine.
Insegna loro a suonare al pianoforte una canzone che lei e Lèa eseguivano e cantavano tempo prima.

Tra le due sorelle c'è molta differenza di età: questo lo si comprende quando Juliette racconta alla sorella un piacevole ricordo del passato: lei che, prima di andare all'Università, accompagnava una Lèa di circa otto anni a lezione di danza.

Prima del periodo della detenzione, Juliette era un medico.

Dopo la tragica scomparsa del figlio, i genitori l'hanno rinnegata come figlia, non hanno mai voluto parlarle per cercare di comprendere le ragioni dell'omicidio, hanno impedito alla sorella di inviarle delle lettere che avrebbe voluto spedirle...
Nel corso del film viene pronunciata una sola data, anzi, un solo anno: il 1999, anno della morte del padre delle due sorelle. Questa notizia non è mai stata data a Juliette, che si trovava in carcere.
Per tutti i suoi 15 anni di detenzione, Juliette è stata una donna sola, dimenticata dalla famiglia di origine, considerata pazza dalla società.

Nel corso del film, le relazioni tra l'ex detenuta e il mondo esterno migliorano: non solo Juliette trova lavoro come segretaria in un ospedale, ma inizia a instaurare un profondo rapporto di amicizia con un collega della sorella, docente universitario con un passato come educatore nelle carceri.
Verso la fine della proiezione, tutto lascia pensare che, anche grazie a questa amicizia probabilmente destinata ad evolversi, Juliette possa riuscire a stare meglio psicologicamente.

Una mattina, mentre Lèa pulisce i pavimenti delle stanze della casa con un aspirapolvere, scopre nella camera di Juliette un foglio caduto dal comodino vicino al letto.
E' un pezzo di carta scritto da entrambe le parti.
Da una parte, una poesia di un bambino dedicata alla madre.
Dall'altra, dei valori del sangue segnati a matita.
Con il foglio, Lèa trova anche la fotografia di un bambino, il figlio di Juliette.

Lèa contatta il suo medico di base per farsi spiegare i valori del nipote defunto.

Il film inquadra la telefonata tra Lèa e il medico. Non vengono fatte sentire le parole del medico, ma si pone l'accento sulla reazione della sorella di Juliette, che durante la conversazione scoppia in una violenta crisi di pianto.

"Perché non mi hai mai detto niente? Non ci hai mai fatto sapere niente!", le dice risentita, nella scena successiva.
"Nessuno di voi avrebbe potuto capire come mi sentivo! Cosa avreste potuto fare quando Pierre urlava di dolore e non si muoveva più dal letto?!", replica Juliette.

E quella poesia? E' stata la scintilla che ha indotto una madre disperata a fare un'iniezione letale a suo figlio di appena sei anni.

"Ho letto quella poesia che Pierre mi aveva scritto e l'ho immaginato da morto. Non potevo sopportare quell'immagine e così quella sera, dopo avergli raccontato delle favole, gli ho fatto un'iniezione. In tribunale mio marito ha sempre testimoniato contro di me. Eravamo divorziati. Mi hanno condannata alla galera, ma la galera peggiore che una madre possa subire è quella dovuta dalla perdita di un figlio".

La citazione di quest'ultimo discorso di Juliette è imprecisa, cioè, non è letterale. Però il succo è quello.
Pierre aveva una malattia incurabile. Leucemia linfoblastica acuta, forse?!
Allo spettatore non è dato saperlo e io qui l'ho scritto perché so che è una forma leucemica più comune nei bambini che non nei giovani o negli adulti o negli anziani... e purtroppo, esserne affetti negli anni '90 significava essere destinati presto a morte certa.
Le sue condizioni erano irreversibili.
Posso capire che sia estremamente difficile accettare la morte di un figlio così dolce e sensibile, ma il gesto di Juliette non è giustificabile.
In effetti il film di Philippe Claudel non vuole difendere la protagonista, ma invita in qualche modo ad essere umani... Umani nel senso di non condannare il passato e le azioni di una persona che, con il suo stato di profonda malinconia e di reale prostrazione, pagherà tutta la vita i propri errori.

Non un film su un’assassina, ma sul suo ritorno al mondo così il regista ha commentato questa sua prima opera cinematografica.


Vorrei concludere con un paragone. Vi ricordate che, circa a metà marzo, ho svolto la recensione del film "L'olio di Lorenzo"?
Lorenzo era affetto da adrenoleucodistrofia. La malattia gli è stata diagnosticata quando aveva soltanto 5 anni. Era il 1983 e quel piccolo era già stato dato per spacciato.
Il consiglio del neurologo dato ai coniugi Odone è stato inizialmente quello di rassegnarsi a fare il countdown dei mesi di vita del figlio.
Ma Michela e Augusto erano persone incredibilmente tenaci, che amavano follemente il loro unico figlio. Non potevano arrendersi e così hanno deciso di approcciarsi al campo medico con tanto di manuali e di trattati di chimica... non hanno guarito il figlio ma sono riusciti a farlo continuare a vivere per altri 20 anni e sono riusciti a salvare altre centinaia di vite.
Ovvio che anche Michela e Augusto hanno convissuto con il dolore, per molti anni.
Però per Lorenzo hanno voluto la VITA.

Con questo richiamo alla vicenda realmente accaduta della famiglia Odone non voglio sminuire la madre protagonista di questo film.
Juliette era medico... Ma tutti i suoi studi non erano sufficienti, perché accanto a lei non c'era un marito che la sosteneva. Michela invece si era sposata non più giovanissima, però aveva contratto un matrimonio davvero molto fortunato! Lei poteva sempre contare su Augusto, in ogni istante.

Io credo che il sostegno di un vero uomo influisca considerevolmente su frangenti e condizioni di un evento che compromette la serenità familiare.
Bisognerebbe però che ci fossero più "uomini umani" e meno p*tt*n***i vigliacchi.
Nella seconda metà di questo mese entreremo ufficialmente nel periodo dei pandori e delle luminarie natalizie nei paesi e nelle vie centrali delle città.
Però permettetemi: sapete io dove la vedo la magia del Natale? Ultimamente non tanto nei festoni e nelle lucine intermittenti, quanto piuttosto nell'animo di alcuni uomini che, proprio come i protagonisti maschili di Sigismondo D'India, sanno piangere, sanno essere veri con loro stessi, sanno ammettere le loro fragilità, sanno accettare e vivere la loro grande sensibilità.
L'Orfeo, l'Apollo e il Giasone dindiani NON SONO "uomini da poco" o "poco virili". 
Sono uomini umani che stanno soffrendo per la definitiva scomparsa della moglie (Orfeo), per una delusione amorosa (Apollo), per la perdita dei figli massacrati (Giasone).


Sono uomini (Apollo è un dio in realtà, ma una divinità che il poeta-compositore oggetto della mia tesi ha profondamente umanizzato) che si interrogano sul senso della continuazione della loro esistenza sulla terra dopo eventi così traumatici.