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7 novembre 2018

"Ti amerò sempre": film che fa convivere errori umani, disperazione, solitudine da un lato e tenerezza, gentilezza e memorie dall'altro


Il contenuto della pellicola cinematografica di cui sto per parlarvi è, in sostanza, una storia nella quale si intrecciano varie solitudini e lunghi silenzi dolorosi.

Il film, opera di Philippe Claudel, è ambientato in Francia e la protagonista è Juliette, una donna che ha trascorso ben 15 anni in carcere.
Significativa a mio avviso è quell'inquadratura in primissimo piano di Juliette che compare nei primi istanti. Lo spettatore, logicamente, non sa ancora nulla della protagonista, eppure, già in quel viso si scorgono segni di cupa sofferenza e di profonda devastazione interiore.
Quell'espressione tristissima mi ha ricordato lo sguardo della mia insegnante di matematica al liceo...
Mi faceva davvero compassione quella prof. e, sin dal primo anno del quinquennio, ho sempre pensato che la sua grande difficoltà nel trasmettere la materia che insegnava fosse dovuta soprattutto a quel suo brutto malessere d'animo.
Molti miei compagni non la rispettavano e la prendevano in giro alla grande.
Oltre a ciò, alcuni suoi colleghi (cioè altri nostri insegnanti) si permettevano addirittura di parlarci male di lei. Che ambiente terribilmente disumano può essere la scuola certe volte!!
Qualche familiare o magari qualche amico (non io, io ero un'alunna) avrebbe secondo me dovuto guardarla bene negli occhi un giorno, metterle le mani sulle spalle e dirle chiaramente: "Tu non stai affatto bene. Se vuoi io sono qui per ascoltarti, se vuoi puoi pensare di farti aiutare da qualche specialista. Ma non sentirti sola.".
Io non ero tenuta a conoscere il motivo del dolore di questa mia insegnante, però ho sempre ritenuto che fosse una persona molto sola.
Ad ogni modo, se una persona sta così male, prima di rapportarsi con gli altri in un ambiente pubblico con funzione didattico-educativa, dovrebbe veramente farsi aiutare. Quando ripenso a questa insegnante provo ancora compassione per lei.
Eccola qui, l'espressione di cui parlavo che tradisce una ferita psicologica insanabile
Ritornando al film, bisogna precisare che, pochi minuti dopo quell'inquadratura, compare Lèa, la sorella della protagonista, contentissima di ospitare Juliette a casa propria con tutta la sua famiglia.
Lèa è una docente universitaria di letteratura e con il marito Luke ha adottato due bambine dal Vietnam.
Nella prima parte del film la sorella di Juliette sembra l'unico personaggio capace di accettare la presenza di un'ex carcerata in casa sua e, soprattutto, sembra l'unica disposta ad amarla senza riserve. Anche le sue figlie adottive dimostrano un senso di curiosità verso questa zia che improvvisamente compare nelle loro vite.
Suo marito no. Inizialmente è molto diffidente.

Che cosa ha fatto di male Juliette in passato?
Il regista ce lo rivela durante il primo colloquio di lavoro della protagonista che, appena concluso il periodo di reclusione, deve reinserirsi nella società.

Juliette ha ucciso suo figlio.
Ecco il motivo per cui il primo datore di lavoro le dice scortesemente: "Se ne vada".
Ecco il motivo per cui il marito di Lèa non ha mai voluto figli naturali con la moglie.

Eppure (e in questo il regista è stato davvero geniale), lo spettatore non riesce a provare né odio né orrore né risentimento verso questa signora, vedendo costantemente uno sguardo spento e addolorato, e notando per lo più un atteggiamento di mutismo.

Per quasi tutto il film rimane sconosciuto il motivo per cui la protagonista abbia compiuto un gesto così tragico ed estremo.

Nella prima mezz'ora del film, l'unico elemento esterno alla famiglia di Lèa che si dimostra umano e comprensivo con una donna così sofferente è il carabiniere che si occupa della libertà vigilata di Juliette. Durante una chiacchierata in un caffè, le rivela di essere divorziato da una moglie che si è trasferita in America e che mai gli permette di vedere la figlia.
Questo ufficiale prova un dolore così forte e una solitudine così opprimente che ad un certo punto decide di suicidarsi.
All'interno della storia, questa è una tragedia parallela a quella della protagonista.

Devo ammettere che Lèa è davvero brava con sua sorella. Non soltanto le dà fiducia, ma fa di tutto per poterla rendere più serena: la porta in giro per la città, la porta nelle piscine comunali tutte le settimane, le fa conoscere alcuni suoi colleghi di lavoro, le affida le figlie per alcune ore quando si trova fuori casa.

Tra le bambine e la protagonista si instaura un bellissimo rapporto!
Tenerissima è la scena in cui Juliette, una sera, dopo aver letto una favola alla più grande, le si avvicina dandole una carezza.
La zia, che le bambine credono appena tornata da un lunghissimo viaggio, si rivela molto positiva nella relazione con le nipotine.
Insegna loro a suonare al pianoforte una canzone che lei e Lèa eseguivano e cantavano tempo prima.

Tra le due sorelle c'è molta differenza di età: questo lo si comprende quando Juliette racconta alla sorella un piacevole ricordo del passato: lei che, prima di andare all'Università, accompagnava una Lèa di circa otto anni a lezione di danza.

Prima del periodo della detenzione, Juliette era un medico.

Dopo la tragica scomparsa del figlio, i genitori l'hanno rinnegata come figlia, non hanno mai voluto parlarle per cercare di comprendere le ragioni dell'omicidio, hanno impedito alla sorella di inviarle delle lettere che avrebbe voluto spedirle...
Nel corso del film viene pronunciata una sola data, anzi, un solo anno: il 1999, anno della morte del padre delle due sorelle. Questa notizia non è mai stata data a Juliette, che si trovava in carcere.
Per tutti i suoi 15 anni di detenzione, Juliette è stata una donna sola, dimenticata dalla famiglia di origine, considerata pazza dalla società.

Nel corso del film, le relazioni tra l'ex detenuta e il mondo esterno migliorano: non solo Juliette trova lavoro come segretaria in un ospedale, ma inizia a instaurare un profondo rapporto di amicizia con un collega della sorella, docente universitario con un passato come educatore nelle carceri.
Verso la fine della proiezione, tutto lascia pensare che, anche grazie a questa amicizia probabilmente destinata ad evolversi, Juliette possa riuscire a stare meglio psicologicamente.

Una mattina, mentre Lèa pulisce i pavimenti delle stanze della casa con un aspirapolvere, scopre nella camera di Juliette un foglio caduto dal comodino vicino al letto.
E' un pezzo di carta scritto da entrambe le parti.
Da una parte, una poesia di un bambino dedicata alla madre.
Dall'altra, dei valori del sangue segnati a matita.
Con il foglio, Lèa trova anche la fotografia di un bambino, il figlio di Juliette.

Lèa contatta il suo medico di base per farsi spiegare i valori del nipote defunto.

Il film inquadra la telefonata tra Lèa e il medico. Non vengono fatte sentire le parole del medico, ma si pone l'accento sulla reazione della sorella di Juliette, che durante la conversazione scoppia in una violenta crisi di pianto.

"Perché non mi hai mai detto niente? Non ci hai mai fatto sapere niente!", le dice risentita, nella scena successiva.
"Nessuno di voi avrebbe potuto capire come mi sentivo! Cosa avreste potuto fare quando Pierre urlava di dolore e non si muoveva più dal letto?!", replica Juliette.

E quella poesia? E' stata la scintilla che ha indotto una madre disperata a fare un'iniezione letale a suo figlio di appena sei anni.

"Ho letto quella poesia che Pierre mi aveva scritto e l'ho immaginato da morto. Non potevo sopportare quell'immagine e così quella sera, dopo avergli raccontato delle favole, gli ho fatto un'iniezione. In tribunale mio marito ha sempre testimoniato contro di me. Eravamo divorziati. Mi hanno condannata alla galera, ma la galera peggiore che una madre possa subire è quella dovuta dalla perdita di un figlio".

La citazione di quest'ultimo discorso di Juliette è imprecisa, cioè, non è letterale. Però il succo è quello.
Pierre aveva una malattia incurabile. Leucemia linfoblastica acuta, forse?!
Allo spettatore non è dato saperlo e io qui l'ho scritto perché so che è una forma leucemica più comune nei bambini che non nei giovani o negli adulti o negli anziani... e purtroppo, esserne affetti negli anni '90 significava essere destinati presto a morte certa.
Le sue condizioni erano irreversibili.
Posso capire che sia estremamente difficile accettare la morte di un figlio così dolce e sensibile, ma il gesto di Juliette non è giustificabile.
In effetti il film di Philippe Claudel non vuole difendere la protagonista, ma invita in qualche modo ad essere umani... Umani nel senso di non condannare il passato e le azioni di una persona che, con il suo stato di profonda malinconia e di reale prostrazione, pagherà tutta la vita i propri errori.

Non un film su un’assassina, ma sul suo ritorno al mondo così il regista ha commentato questa sua prima opera cinematografica.


Vorrei concludere con un paragone. Vi ricordate che, circa a metà marzo, ho svolto la recensione del film "L'olio di Lorenzo"?
Lorenzo era affetto da adrenoleucodistrofia. La malattia gli è stata diagnosticata quando aveva soltanto 5 anni. Era il 1983 e quel piccolo era già stato dato per spacciato.
Il consiglio del neurologo dato ai coniugi Odone è stato inizialmente quello di rassegnarsi a fare il countdown dei mesi di vita del figlio.
Ma Michela e Augusto erano persone incredibilmente tenaci, che amavano follemente il loro unico figlio. Non potevano arrendersi e così hanno deciso di approcciarsi al campo medico con tanto di manuali e di trattati di chimica... non hanno guarito il figlio ma sono riusciti a farlo continuare a vivere per altri 20 anni e sono riusciti a salvare altre centinaia di vite.
Ovvio che anche Michela e Augusto hanno convissuto con il dolore, per molti anni.
Però per Lorenzo hanno voluto la VITA.

Con questo richiamo alla vicenda realmente accaduta della famiglia Odone non voglio sminuire la madre protagonista di questo film.
Juliette era medico... Ma tutti i suoi studi non erano sufficienti, perché accanto a lei non c'era un marito che la sosteneva. Michela invece si era sposata non più giovanissima, però aveva contratto un matrimonio davvero molto fortunato! Lei poteva sempre contare su Augusto, in ogni istante.

Io credo che il sostegno di un vero uomo influisca considerevolmente su frangenti e condizioni di un evento che compromette la serenità familiare.
Bisognerebbe però che ci fossero più "uomini umani" e meno p*tt*n***i vigliacchi.
Nella seconda metà di questo mese entreremo ufficialmente nel periodo dei pandori e delle luminarie natalizie nei paesi e nelle vie centrali delle città.
Però permettetemi: sapete io dove la vedo la magia del Natale? Ultimamente non tanto nei festoni e nelle lucine intermittenti, quanto piuttosto nell'animo di alcuni uomini che, proprio come i protagonisti maschili di Sigismondo D'India, sanno piangere, sanno essere veri con loro stessi, sanno ammettere le loro fragilità, sanno accettare e vivere la loro grande sensibilità.
L'Orfeo, l'Apollo e il Giasone dindiani NON SONO "uomini da poco" o "poco virili". 
Sono uomini umani che stanno soffrendo per la definitiva scomparsa della moglie (Orfeo), per una delusione amorosa (Apollo), per la perdita dei figli massacrati (Giasone).


Sono uomini (Apollo è un dio in realtà, ma una divinità che il poeta-compositore oggetto della mia tesi ha profondamente umanizzato) che si interrogano sul senso della continuazione della loro esistenza sulla terra dopo eventi così traumatici.



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