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14 novembre 2014
Il tempo e la saggezza
Credo di aver trovato un curioso parallelismo tematico tra un'ode oraziana e un brano del Vangelo di Luca... In questo post, vorrei proporre la spiegazione di entrambi i testi.
(Orazio, Carmina, II, 14) :
VERSIONE ORIGINALE IN LATINO:
"Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti: non, si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi compescit unda, scilicet omnibus quicumque terrae munere vescimur enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: visendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris: linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter invisas cupressos ulla brevem dominum sequetur: absumet heres Caecuba dignior servata centum clavibus et mero tinget pavimentum superbo, pontificum potiore cenis."
TRADUZIONE IN ITALIANO:
" Ahimè fugaci, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, né la pietà porta un indugio alle rughe, alla vecchiaia che incombe e alla morte inesorabile; neppure se tu, amico mio, placassi con trecento buoi per ogni giorno che passa Plutone, dio senza lacrime che rinserra nella triste palude Gerione tre volte grande, e Tizio con la triste onda, che tutti noi indubbiamente dovremo attraversare, sia che ci nutriamo dei frutti della terra, sia che siamo re sia che siamo umili coloni. Invano rimarremo lontani dal sanguinoso Marte e dai flutti infranti del rauco Adriatico, invano in autunno temeremo l'Austro che nuoce ai corpi. Noi dovremo vedere il nero Cocito che erra con lento corso e la stirpe maledetta di Danao e Sisifo, figlio di Eolo, condannato a un' eterna fatica. Noi dovremo lasciare la terra, la casa e la sposa amata: nessuna delle piante che coltivi, eccetto gli odiosi cipressi, ti seguirà per breve tempo. Un erede più degno berrà i vini Cecubi tenuti sotto cento chiavi e tingerà il pavimento con il vino superbo migliore di quello delle cene dei pontefici."
Il carme è indirizzato a Postumo, un conoscente di Orazio, uomo ricco e proprietario di una grande casa spaziosa circondata da molti campi coltivati e dotata di una buona cantina. Orazio imputa a Postumo di aver pianificato la propria felicità senza considerare l'inesorabile scorrere del tempo, il quale porta dapprima alla vecchiaia e poi alla morte.
Il componimento inizia con una dolente esclamazione, "eheu", funzionale a creare un senso di rassegnazione.
La morte prima o poi giunge per tutti. (in effetti Orazio utilizza l'espressione "indomitaeque morti", ovvero, "l'inevitabile morte" oppure "la morte che è impossibile domare".) In seguito, Orazio elenca alcune figure mitologiche, tra le quali Gerione, gigante dotato di tre teste sconfitto da Eracle in una delle fatiche di quest'ultimo, Tizio, altro gigante, tormentato da due avvoltoi che gli mordevano il fegato, le Danaidi, giovani donne condannate a riempire anfore senza fondo per aver ucciso i loro mariti e Sisifo, re di Corinto destinato per l'eternità a spingere sulla sommità di un monte un enorme masso che non appena era giunto alla vetta, rotolava di nuovo giù dalla montagna.
Nella parte finale, il poeta ammonisce Postumo: gli comunica infatti che la sua morte è certa e sicura e che dunque un giorno egli dovrà abbandonare i beni materiali di cui si sente padrone. Forse, in punto di morte, Postumo scoprirà con rammarico di aver vissuto non tanto per se stesso quanto piuttosto per un erede che usufruirà dei frutti del suo lavoro; e a tal proposito, l'immagine del pavimento sul quale scorre il "prezioso Cecubo" rovesciato dai commensali è molto significativa: Postumo teneva il Cecubo "sotto cento chiavi"; e ciò significa che lo conservava gelosamente, senza goderne appieno.
Il contenuto di quest'ode mi ha ricordato un brano che San Luca ha inserito nel suo Vangelo. Lo riporto qui sotto:
(Luca, 12, v.v.15-21):
"(...) E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi raccontò loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio".
In queste righe Gesù tocca il tema dell'inutilità dell'accumulo di beni.
E qui, vorrei scrivere le parti più importanti del commento dell'insigne teologo Padre Ermes Ronchi su questo brano:
" Gesù ci ricorda che la vita dell'uomo è fragile, la sicurezza data dai beni è inconsistente, tutte le ricchezze di questo mondo non possono sfuggire alla morte. Una malattia improvvisa, un incidente e tutto va in fumo. (...) Un particolare colpisce in questo racconto: non c'è nessuno attorno all'uomo ricco, nessuno nella casa, nessuno nel cuore, non un volto, non un amico: la ricchezza crea un deserto di relazioni autentiche, le cose materiali soffocano gli affetti veri. (...) la felicità non può mai essere solitaria e ha a che fare con il dono. C'è una seduzione delle cose, forse sentiamo tutti il fascino di possedere di più, ma Gesù ci invita a voltarci da un'altra parte, a desiderare altro. "Stolto", dice all'uomo ricco, non perché cattivo ma perché poco intelligente. Prima che una valutazione etica è una considerazione sulla sapienza del vivere: l'uomo ricco ha investito sul prodotto sbagliato, sul denaro e non sull'amore. (...) Questa parabola è detta per ciascuno di noi. Gesù contesta i nostri miti ricorrenti: la ricchezza come sicurezza, la corsa al prodotto di moda, all'ultimo modello di cellulare. (...) Ma la tua vita non dipende da ciò che possiedi. Dipende dalla vita interiore, dalle persone accanto a te, da una sorgente che è Dio. (...) Gesù non disprezza i beni della terra, ma intende rispondere ad una domanda di felicità. (...) Quando Gesù dice: "Beati i poveri", vuol dire:"felici coloro che non svendono la propria dignità per un po' di denaro, che non vendono famiglia e affetti per il lavoro, che non rovinano la salute per una macchina più grande, per una casa più bella. (...) La povertà cristiana è rinunciare per avere più libertà e un rapporto intelligente con le cose, fatto di sobrietà e di solidarietà. (...) Gesù ci ricorda che la nostra vita è fragile e che nessuna sicurezza data dai beni ha consistenza. Per quanto accumuli, non puoi garantire né la tua vita né il tuo futuro. (...) nella povertà puoi essere ricco, nella fragilità puoi essere forte, perchè la tua vita è salda nelle mani di Dio. Un rapporto umile con il futuro: accoglierlo come un dono. Essere vivo domani non è un mio diritto, ma è un regalo (...)"
Infatti. Essere vivi non è un diritto, semmai è un regalo. La vita stessa è un dono da vivere con intensità, la ricchezza materiale non deve prendere il sopravvento sui nostri affetti...
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