Proseguiamo con la riflessione su altri capitoli.
CAP. XVIII°:
("In che modo i Principi debbano mantenere la fede")
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza; il primo è proprio dell'uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo.
In questo passaggio Machiavelli sostiene che i governatori debbano essere in grado di ricorrere sia alla ragione sia alla brutalità.
L'accezione che l'autore in questo punto dà al termine forza mi fa pensare immediatamente alla βία greca, sostantivo che accomuna la forza con la violenza.
Ben diversi, in greco antico, sono altri due famosi sostantivi associati al concetto di forza:
-δύναμις, che sottintende una forza associata ad un movimento.
-κράτος, equivalente a "potere". Tra l'altro, nella mitologia greca, Kratos si era alleato con Zeus per sconfiggere i Titani.
Il ragionamento di Machiavelli prosegue: un buon Principe deve essere forte come un leone e astuto come una volpe.
Apro una brevissima parentesi culturale: sin dall'Antichità e dalle favole di Esopo e di Fedro la volpe è l'emblema dell'astuzia... in senso non molto positivo.
L'autore poi prosegue:
Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia.
Ma è necessario (...) essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
(...) Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte qualità e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità.
I Principi non si possono convocare a giudizio. Possono rompere i patti solo se a loro stessi non conviene mantenerli. Da qui credo derivi il motto, attribuito a Machiavelli: "Il fine giustifica i mezzi". Ma è davvero così?
Infine, il Principe deve far finta di avere molte qualità visto che il popolo tende a giudicare solo le apparenze. L'autore cita come esempio Ferdinando il Cattolico: "...non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissimo..."
Per me in questo trattato acquisisce un ruolo importante anche il tema del rapporto tra apparenza e realtà: il principe deve saper simulare e dissimulare, ovvero, deve costruire un'immagine di sé che sia efficace agli occhi dei cittadini-sudditi e che corrisponda alle loro aspettative.
CAP. XIX°:
("In che modo si debba fuggire l'essere disprezzato e odiato")
Il Principe deve evitare azioni che possano renderlo inviso al popolo:
...uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el populo li sia benevolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d'ogni cosa e d'ognuno.
(...) Di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e' grandi, ma non si deve far odiare dal populo.
Segue immediatamente dopo la menzione al Parlamento Francese, istituito durante il regno di Luigi IX° e divenuto in seguito fisso con sede a Parigi per decisione di Filippo il Bello che, oltretutto, ne modifica il carattere feudale aggiungendo il "terzo stato". Per Machiavelli, il parlamento limita l'eventuale prepotenza i potenti.
Inizia poi quello che per i lettori può essere considerato un valido ripasso della storia di buona parte della Roma imperiale. Machiavelli elenca una carrellata di imperatori romani ostacolati o dall'avidità e dalla crudeltà dell'esercito, o dal popolo insolente oppure dalle ambizioni dei potenti attorno a loro.
Ma, anche qui, non mancano esempi positivi di governo. Ne riporto soltanto alcuni.
-Marco Aurelio è definito dal trattatista "onoratissimo": ha fronteggiato con energia e autorevolezza le irruzioni dei Marcomanni nella Pannonia.
-Commodo (180-192), successore del saggio Marco Aurelio e profondamente diverso, di indole crudele e corrotta, è morto vittima di una cospirazione nel 192.
-Settimio Severo (193-211) invece era "volpe e leone al contempo": ha riorganizzato le coorti pretoriane e ha dato maggior rilievo alle reclute barbare nell'esercito. Oltre a ciò, ha rinforzato le entrate statali a spese dei latifondisti.
-Caracalla (211-217), figlio di Settimio Severo, dopo aver ucciso il fratello Geta, ha aumentato lo stipendio dei soldati, includendo anche reclute di origine germanica. Ma con le sue politiche a favore soltanto dell'apparato militare si è reso odioso agli occhi dei senatori. E così, durante una spedizione militare contro i Parti, è stato assassinato da Macrino, prefetto del pretorio.
-Alessandro Severo (222-235) è stato trucidato dai soldati. Di indole mite e tollerante, dal momento che consentiva il sincretismo religioso, ha rispettato le prerogative del Senato senza imporre pressioni fiscali alla plebe. Durante una battaglia lungo il fiume Reno è stato ucciso dall'esercito ribelle.
CAP. XX°
("Se le fortezze e molte altre cose, che ogni giorno si fanno da Principi, sono utili o no")
All'inizio del presente capitolo Machiavelli si chiede se sia più opportuno armare o disarmare il popolo.
Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi e' sua sudditi: anzi, quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati; perché armandosi, quelle arme diventono tua, diventono fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli che erano fedeli si mantengono, w di sudditi si fanno tua partigiani.
Nella necessità quindi, il popolo combatterà per il Principe che non deve temerlo al punto da disarmarlo.
Inoltre, è abitudine dei Principi costruire fortezze per difendersi dai nemici o, comunque, da chi vuole invadere o conquistare il loro territorio.
L'autore porta come esempio Guido Ubaldo, figlio di Federico da Montefeltro, era stato cacciato da Urbino nel 1502 da Cesare Borgia. Una volta ritornato, ha fatto demolire tutte le fortezze presenti nei dintorni della sua città e, al posto di queste, Ubaldo ha preferito potenziare lo sfarzo e lo splendore della sua corte.
L'autore conclude in questo modo il capitolo:
Però la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo...
(...) Considerato, adunque, tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze e chi non le farà, e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da' popoli.
CAP XXV°:
("Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, e in che modo se li abbia a resistere")
Non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudentia loro non possino correggerle, anzi, non vi abbiamo remedio alcuno.
L'autore presenta l'idea, ancora diffusa, che la Fortuna sia imperscrutabile e imprevedibile come la volontà divina.
...iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà o presso, a noi.
Secondo l'idea dell'autore hanno successo politico soltanto i Principi che riescono a mettere in sintonia le loro azioni con le circostanze esterne.
La Fortuna è subito dopo paragonata ad un fiume impetuoso, per questo motivo è importante che i Principi, nei periodi di quiete e di pace, si preparino pensando all'avvento di tempi più difficili.
Verso la fine della trattazione si delinea dunque quel che per Machiavelli significa la parola "virtù", intesa come la capacità di incidere sul proprio destino modificando gli eventi.
Porta come esempio Giulio II°, personalità impetuosa ma funzionale alle circostanze dell'epoca.
Il finale del presente capitolo è di stampo sessista:
...perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla.
CAP. XXVI°:
("Esortazione a pigliare l'Italia e liberarla dalle mani dei Barbari")
Quest'ultimo capitolo Machiavelli si dimostra un po' ingenuo e un po' lecchino.
L'autore auspica che un condottiero prenda in mano la bandiera italiana. Nel XVI° secolo, l'Italia è divisa, priva di un capo e saccheggiata da eserciti stranieri. Gli attuali capi di regni e ducati nella penisola italiana non sono autorevoli e, per di più, i loro ordinamenti militari appaiono superati. La monarchia è quindi la forma di governo più adeguata per poter unificare l'Italia.
Machiavelli, perfettamente cosciente del fatto che l'Italia del suo tempo è teatro di scontro tra Francia e Spagna, si augura che siano i Medici ad avviare un processo di unificazione dell'Italia, dal momento che godrebbero dell'appoggio della Chiesa.
L'ultimo capitolo del Principe invita i lettori a porsi una domanda: ai giorni nostri, sulla base di quali caratteristiche una persona può essere definita "italiana"? Chi è italiano? Soltanto chi ha la pelle bianca, chi è nato in Italia e chi parla la lingua italiana? Questa è l'unica definizione ammissibile di "cittadino italiano" oppure è un luogo comune proveniente da idee nazionaliste?
Nel capitolo XXVI° la possibilità di riscatto è contenuta nell'esortazione a reagire.
Il trattato si conclude con la citazione di alcuni versi della canzone "All'Italia" di Petrarca:
Virtù contro a furore/ prenderà l'arme, e fia el combattere corto:/che l'antico valore/nelli italici cor non è ancor morto.
Questo componimento è contro l'individualismo politico: come se si volessero persuadere i potenti ad agire con valori etici.