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13 giugno 2025

"Resurrezione", Lev Tolstoj (parte prima):

12) IL CARCERE E I CARCERATI

Tenevo molto a questo percorso tematico. 

Probabilmente è l'argomento più impegnativo del 2025 e cade proprio all'inizio dell'estate. Sto infatti per presentarvi un'opera appartenente ad una letteratura di altissima qualità. 

Ad ogni modo, adoro Tolstoj per il suo notevole talento letterario, per la sua enorme intelligenza e la sua straordinaria levatura morale.


1) INCIPIT DEL ROMANZO:

"Gli uomini, riuniti in una modesta località di alcune centinaia di migliaia di abitanti, avevano un bello sforzarsi nel deturpare quella terra sulla quale si stringevano, nel conficcare pietre nel terreno affinché nulla più vi crescesse, nello strappare ogni erbetta capace di aprirsi un varco, nel fare fumo col carbon fossile ed il petrolio; nel tagliare gli alberi e scacciare tutti gli animali e tutti gli uccelli: la primavera era primavera anche in città."

In queste prime frasi già si fa accenno al tema del rapporto tra uomo e natura. 

Nel secondo Ottocento la Russia è ovviamente un paese agricolo ma, grazie ad alcune iniziative statali come ad esempio il protezionismo, inizia lo sviluppo dell'industria pesante.

"Il sole riscaldava, l’erba, rivivendo, cresceva e verdeggiava dovunque, là dove non la strappavano, non solo nelle zone erbose di viali, ma anche in mezzo alle lastre di pietra; le betulle, i pioppi, i ciliegi selvatici dispiegavano le loro foglie odorose e fragranti, ed i tigli gonfiavano le loro gemme ormai pronte a sbocciare; le cornacchie, i passeri ed i colombi nella gioia primaverile già preparavano i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Piante ed uccelli, insetti e bambini erano felici. 

Ma gli uomini – i grandi, gli adulti – non smettevano d’ingannare e di tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini pensavano che santa ed importante non fosse quella bella mattina primaverile, quella bellezza della creazione di Dio, donata per il bene di tutti gli esseri, per disporli alla pace, alla concordia, all’amore; ma solo sacro ed importante fosse ciò che essi stessi inventavano per dominare gli uni sugli altri."

A proposito dell'ultima frase: anche ai nostri giorni è così. In effetti pensate prima di tutto alle disuguaglianze economiche mondiali, dovute agli effetti di secoli di colonizzazione e poi, ad esempio, anche a molte dinamiche lavorative in Italia, basate sulla precarietà, sullo sfruttamento, sull'incertezza nell'avvenire, non certamente sul rispetto per le reali capacità dei dipendenti.

Questo è un incipit narrativo che mi ricorda il pensiero di Leopardi il quale, nello Zibaldone, riteneva la ragione umana, molto legata ai progressi della civiltà, la principale causa dell'infelicità in età adulta. 

Ho la seguente impressione per quel che concerne il nostro tempo: diverse persone in età adulta e lavorativa, anche se non lo esplicitano, sono in fin dei conti consapevoli del fatto che i beni materiali non portano alla felicità e quindi, soddisfano di tanto in tanto il bisogno di coltivare amicizie, conoscenze e piacere del contatto con la natura organizzando una camminata in montagna la domenica o anche un'apericena nei fine settimana sulla veranda del bar di un paesino sulla cima di una collina.

"Così nell’ufficio di una prigione si considerava sacro ed importante non il fatto che a tutti gli animali, a tutti gli uomini, a tutte le donne, era stata data la calma e la gioia della primavera, ma invece la circostanza di avere, il giorno prima, ricevuto una carta bollata, con tanto di numero e d’intestazione, che dava l’ordine di condurre quella mattina, 28 aprile, alle ore 9, tre accusati – due donne ed un uomo – al Tribunale. Una di quelle donne, creduta la più colpevole, doveva esservi condotta separatamente."

In questo mattino primaverile, Katjusa Màslova viene condotta in tribunale per poter essere processata.

"(...) Nella camera delle carcerate si sentiva un mormorìo confuso, prodotto da voci di donne e da piedi nudi che camminavano sul tavolato. – Su, più presto! Spicciati dunque, Maslòva, dico! gridò il soprastante anziano nella porta socchiusa. 

Un paio di minuti dopo apparve una giovane donna, di statura piuttosto bassa, con un petto molto pieno, coperta di un pastrano di panno bigio passato al di sopra di una giacca e di una gonna bianca. Con passo sicuro, si accostò al vecchio soprastante e si fermò vicino a lui. Aveva ai piedi delle calze di tela e su queste le grosse scarpe di panno date dall’amministrazione delle carceri. Sulla testa portava un fazzoletto bianco, sotto al quale si vedevano – certo cacciate fuori a bella posta – alcune ciocche di capelli neri arricciati. Il volto della donna aveva quel pallore speciale delle persone che rimangono per lungo tempo in un ambiente chiuso e che ha qualche cosa della patata coltivata nelle cantine sotterranee."

Ma cosa ha combinato la protagonista femminile di questo libro? 

È accusata di aver avvelenato a morte un mercante in un albergo. 

2) INFANZIA DELLA MASLOVA:

Katka Màslova è una prostituta. 

Ma come è arrivata a prendere questa bruttissima strada? 

Il nostro autore, molto attento anche all'interiorità e alle vicende familiari dei suoi personaggi, si dilunga in un accattivante flashback su di lei:

"La storia di Maslòva era una storia molto comune. Era la figlia naturale di una contadina nubile, sempre vissuta con la madre addetta alla cura delle mucche in una fattoria presso due sorelle, entrambe signorine, possidenti terriere. Questa contadina nubile ogni anno dava alla luce una creatura e come spesso accade nei villaggi, il bambino veniva battezzato e poi la madre smetteva di nutrirlo; quella creatura non desiderata le impediva di lavorare, per cui presto il neonato moriva di fame. Già cinque erano morti in quel modo. Il sesto, nato da un zingaro di passaggio, era una bambina (...).

La piccina aveva tre anni quando la madre si ammalò e morì. Per la nonna, sempre addetta alle mucche, la nipotina era un peso e le due vecchie signorine se la presero in casa. Così vivace e carina, con i suoi occhioni neri, faceva la gioia delle due vecchie sorelle. La più giovane delle due signorine, ed anche la più buona, si chiamava Sofja Ivànovna: era lei  la madrina di battesimo della bambina. La più anziana, Maria Ivànovna, era propensa alla severità. Sofia Ivànovna adornava la fanciulletta, le insegnava a leggere e pensava di farne una persona istruita. Maria Ivànovna, al contrario, pretendeva farne una serva, o, tutt’al più, una brava cameriera. (...) Talvolta le signorine l’ammettevano a far loro compagnia ed essa leggeva ad alta voce davanti a loro."

Katjusa ha appena diciassette anni quando, presso l'abitazione delle signore, sopraggiunge un giovane e ricco principe, loro nipote, del quale la ragazza rimane affascinata senza tuttavia rivelarlo a nessuno.

Due anni dopo il giovane ritorna per una visita alle zie, fa violenza a Katjusa nella notte di Pasqua subito dopo la solenne veglia in chiesa e, prima di ripartire, dà alla ragazza un biglietto da cento rubli, trattandola proprio come una prostituta dalla quale ha ottenuto piacere per una mezz'ora.

A quanto pare, per narrare questo frangente, Tolstoj utilizza il verbo "sedurre" ma io, in quanto lettrice del XXI° secolo che ricorda molto bene la storia, non mi faccio problemi a ricorrere ad un altro termine, perché non era un rapporto consensuale quello.

Dopo l'abbandono di Katjusa da parte di Dmitrij Nechljudov, il mondo intorno alla ragazza si annebbia.

Katjusa scopre di aspettare un figlio e, a quel punto, le due signore la licenziano. 

Si stabilisce allora presso la dimora di una vedova levatrice e lì partorisce un bambino che però muore nel giro di poche settimane a causa di un'infezione.

In seguito, per evitare di farsi mantenere dalla levatrice, la ragazza cerca un altro posto di lavoro. 

Dopo una breve esperienza presso un guardiaboschi che fin da subito si dimostra un molestatore, un'altra come cameriera presso il viziato e voglioso figlio di una ricca signora e un'altra ancora, molto faticosa, presso una stireria, la protagonista femminile di questo romanzo incontra una donna che indossa molti gioielli e la invita ad andare a casa sua. Si tratta di una persona che favorisce la prostituzione presso quelle che all'epoca venivano considerate le case chiuse.

Il metodo narrativo di Tolstoj, sempre molto chiaro, dettagliato e preciso, instilla empatia verso una persona che, ad appena vent'anni, è rimasta completamente sola al mondo e, pur di guadagnarsi da vivere, inizia a prostituirsi.

Nel corso degli anni, per far fronte alla propria infelicità, Katjusa incappa in vizi come l'alcol e il tabacco che, nei momenti di libertà, le permettono di distogliere il pensiero da un'esistenza profondamente infelice, squallida e non dignitosa.

Ad ogni modo, nel corso del racconto del processo, il lettore appura già che la protagonista è in realtà innocente.

La Màslova è condannata a quattro anni di lavori forzati in Siberia.

Si tratta, lo esplicito già da ora, di una condanna ingiusta.

3) LA "RISURREZIONE SPIRITUALE" DI NECHLJUDOV:

In tribunale fra i giurati c'è anche il principe Dmitrij Nechljudov che la riconosce subito anche se sono passati almeno otto anni dall'ultima volta che l'ha vista.

Al grido d'innocenza della Maslova dopo la condanna, Nechljudov inizia a vergognarsi di se stesso e del modo in cui ha trascorso gli ultimi anni: ad esempio, prova un enorme senso di colpa e disgusto al pensiero di aver avuto una relazione con la moglie di un suo amico.

Ecco come Tolstoj delinea l'inizio della redenzione di questo importantissimo personaggio:

"... si sentiva da ogni parte avvolto nei legami di una vita stupida, vuota, inutile, senza scopo, dalla quale non vedeva nessuna uscita e neppure, nella maggior parte dei casi, voleva uscirne."

A seguito di quel processo durante il quale giurati, avvocati e magistrati hanno umiliato la Màslova, Nechljuodv non soltanto matura il fermo proposito di cambiare vita ma anche l'intenzione di voler scagionare la Màslova per restituirle la libertà. A tal proposito pensa fin da subito di ricorrere alla grazia sovrana.

Dapprima però, si reca in carcere a visitarla:

"-Avant'ieri ero giurato- disse egli- quando vi hanno condannata. Non mi avete riconosciuto?

-No, per nulla! Non avrei potuto riconoscervi, non guardavo nessuno...

-Vi fu un bambino?- egli chiese ancora, avvertendo di arrossire.

È morto subito, grazie a Dio!- rispose la Màslova in tono secco e cattivo, allontanando lo sguardo da lui.

-E come, di che male?

-Anch'io fui malata e per poco non sono morta- ella rispose senza alzare gli occhi.

-E le mie zie vi licenziarono?

-Chi terrebbe una cameriera incinta? Quando si accorsero del mio stato, mi scacciarono. Ma perché parlare di queste cose? Io non ricordo più nulla, ho dimenticato tutto. Tutto è finito.

Ho dimenticato o voglio dimenticare?

Notate che da parte di lei ci sono atteggiamenti di comprensibile disprezzo e di freddezza, dato che ormai, da tempo, è diventata una donna che concepisce i rapporti con gli uomini come se tutti loro fossero dei clienti da soddisfare sessualmente, dato che ha purtroppo interiorizzato l'idea di non essere altro che un oggetto di piacere:

"La sua concezione si basava sull'opinione che la felicità di tutti gli uomini- tutti, senza eccezione, vecchi e giovani, colti e ignoranti, studenti o generali- consistesse nei rapporti sessuali con donne attraenti, e perciò tutti gli uomini, anche quando fingevano di essere occupati di altre cose in realtà desideravano il possesso di una donna. Ed ella, piacente com'era, poteva soddisfare a suo talento questo loro desiderio; quindi era una persona importante e necessaria. Del resto, tutta la sua esperienza personale passata e presente confermava l'esattezza di questa sua concezione."

Tra il possedere e l'amare c'è di mezzo un abisso.

La decadenza morale di Nechljudov è iniziata proprio in quella notte di Pasqua, quando ha voluto ad ogni costo possedere Katjusa.

Da precisare sin d'ora che Dmitrij, oltre a voler aiutare la Màslova, si interessa delle condizioni di altri detenuti che lo ritengono un aristocratico capace di interloquire con la povera gente.

Da quel momento in poi quindi emerge il meglio di lui: emerge un'indole sensibile, buonissima e altruista che per troppi anni il principe aveva tenuta nascosta al solo scopo di compiacere le persone che frequentava:

"...aveva smesso di credere a se stesso per credere agli altri e ciò perché vivere credendo a se stesso era troppo difficile (...) Credendo a se stesso si esponeva sempre alla disapprovazione degli uomini, mentre credendo agli altri era approvato da tutti quanti lo circondavano."

Questo è anche un romanzo sul contrasto tra individuo e società: ognuno di noi ha bisogno di relazioni, di sentirsi riconosciuto per quel che è, per le qualità che ha e per il bene che può compiere. 

Tuttavia, dev'essere soddisfatto anche il diritto di manifestare in modo autentico la propria identità.

4) COS'È IL CARCERE?

Concludo il post ponendovi alcune domande allo scopo di entrare, a partire dalla prossima settimana, proprio nel cuore dell'argomento "carcere e carcerati".

1) Quale idea vi siete fatti sul carcere? 

La parola "carcere" deriva dal latino "carcer" la quale portava in origine il significato di "sbarra da circo".

2) "Carcerato", anche nella nostra società, è sempre e automaticamente sinonimo di "delinquente"?

"-Non temono Dio, quei maledetti parassiti!" esclama indignata una carcerata compagna di Katjusa non appena viene a conoscenza del verdetto. Può essere una delinquente una donna che la pensa in tal modo? Per quali motivi le donne presentate dall'autore si trovano dietro le sbarre? Alcune hanno venduto merci senza licenza, altre, costrette dalla miseria, hanno commesso furti.

Tra loro c'è Fedosja, una giovanissima contadina che, a causa dell'enorme rabbia provata per il suo matrimonio combinato, ha tentato di avvelenare il marito che le era stato imposto. Poi però si era pentita e persino i suoceri l'avevano perdonata, quando ormai era già stata condannata ad un po' di anni di carcere. 

3) Cos'è la libertà?

4) Esiste soltanto un carcere come luogo di reclusione per aver infranto delle leggi in modo grave, per aver tolto la vita a qualcuno o per aver commesso atti pericolosi per la società? 

5) Oppure esiste anche una prigione esistenziale, paragonabile ad una "non vita"?




6 giugno 2025

Marco Maraldi: una poesia come ricerca spirituale?

Marco Maraldi, classe 1995, è laureato in Filologia e Letteratura Italiana.

Nel 2021 è uscita la sua prima raccolta intitolata Prima della luce. 

Assalti è la sua seconda opera letteraria.

Ho selezionato alcuni componimenti che ho trovato molto incisivi e significativi.

1)

Hai scelto il dio della sconfitta

e sei caduto.

Dio della sconfitta, io

ti ho voluto, ti ho

sempre voluto

perché non so parlare.

Partiamo proprio dall'espressione del primo verso: dio della sconfitta

Il Figlio di Dio è stato crocifisso. 

Dunque, secondo la logica umana, Gesù può essere visto come uno sconfitto, anche per quel che riguarda i rapporti che ha vissuto e sperimentato durante la sua predicazione: odiato dai Giudei, incompreso e contestato aspramente dai farisei.

(...) io/ti ho voluto, ti ho/sempre voluto/perché non so parlare. 

Così si chiude la poesia. Dio rappresenterebbe dunque un rifugio per l'autore: solo Lui infatti può ascoltare il dolore enorme di ogni uomo. 

In questo contesto probabilmente si a riferimento ad un sentimento doloroso persino da esprimere con le parole. Anzi, forse la parola risulta anche per Maraldi uno strumento insufficiente per delineare con chiarezza l'interiorità dell'uomo.

Questa mia ipotesi può far pensare anche al tardo Mario Luzi: per il poeta toscano la parola non svela mai completamente la verità ma è uno strumento di ricerca dell'intima presenza del sé. Un esempio è costituito dalla lirica Vola alta, parola:

"Vola alta, parola, cresci in profondità, 

tocca nadir e zenith della tua significazione,

giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami

nel buio della mente –

però non separarti da me, non arrivare,

ti prego, a quel celestiale appuntamento

da sola, senza il caldo di me

o almeno il mio ricordo, sii

luce, non disabitata trasparenza …

La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?"

L'autore esorta la parola poetica a volare alta e a crescere in profondità, in modo tale da tentare di acquisire un'espressività che invita ogni uomo, poeta o lettore che sia, a intraprendere un percorso di ricerca della verità. Ad ogni modo, la parola non è in grado di rispondere al senso dell'esistenza umana.

Inoltre, l'immagine del "dio della sconfitta" mi richiama alla mente il Christus patiens di Cimabue.


Quest'opera, risalente all'epoca medievale, si trova presso la Basilica di San Domenico ad Arezzo.

Gesù ha gli occhi chiusi, la testa appoggiata su una spalla e la schiena inarcata. L'atteggiamento è molto sofferente, proprio come quello di Maria e di San Giovanni a mezzo busto alle estremità della croce.

Alla base della croce vi sono sottili rivoletti di sangue che provengono dai chiodi.

Cimabue, proponendosi di suscitare la compassione degli spettatori nei confronti di Gesù, si distanzia volontariamente dai modelli dei crocifissi bizantini, raffiguranti il Cristo ad occhi aperti e trionfante.

2)

Non l'ho fatto subito. Nel chiaro che, adesso, dobbiamo respirare

c'è una vela arroventata o sangue trasceso.

Poi qualcosa è accaduto, le mani si sono allagate.

Non è possibile distare dalle menti, perfettamente gemelle.

"Solo dove non protetti sarete scavati".

Precisa come una strage

sento solo la tua voce.

La lirica sembra dapprima illustrare una giornata assolata e limpida, simbolo forse delle aspettative e dei desideri che si possono avere nell'infanzia e nell'adolescenza o, più in generale, per il proprio futuro. 

Siamo tenuti a coltivare progetti di vita in una società come la nostra, basata su consumismo, fugaci avventure sessuali e ricerca di beni materiali.

E poi ho immaginato un mare aperto e una barca. 

Può la vela arroventata (=rovente) essere un simbolo delle lotte interiori o di ferite profonde, dato che precede immediatamente il sangue trasceso?

L'acqua allaga le mani può forse essere una velata espressione del bisogno di confidare in un Assoluto?

"Solo dove non protetti sarete scavati". 

Non protetti da cosa? Dagli imprevisti spiacevoli della vita o dai drammi che la sconvolgono e che ci mettono faccia a faccia con le nostre fragilità?

3)

Unisci le stelle. Conta le vene che ti restano.

Questo aforisma lo interpreto innanzitutto come un invito a ragionare e a riflettere sulle esperienze vissute.

Suggestiva è la frase: conta le vene che ti restano, ovvero, ama, vivi davvero, consapevole della tua finitezza e della tua fragilità, dal momento che sei una "docile fibra dell'Universo". E ammira la meraviglia del cielo per abbracciare la vita!

4)

Questa, più che una poesia, è un pensiero spirituale.

Restiamo insieme ancora un po', c'è ancora molto da spartire. Parlami dell'ultimo respiro, del primo sogno... sottovoce... ancora una volta...dimmi se... mi vedi. Facciamo che tu eri me, che non ti volevi. Non ho bellezza da regalare. Nella danza delle ore chiodate c'è stato un alfabeto segreto, una grammatica del sangue che dovevamo leggere. Poi abbiamo offerto la stessa corona di chiodi e vaticini implacabili, avevi... occhi di carminio e tempo, così vicini a giustiziare la voce delle nuvole. Fermami nell'immortalità che sto per riconsegnare. Restiamo insieme ancora un po'... saremo precisissimi e immortali ,ancora un po'.

(Lido di Jesolo, dicembre 2021- Camaldoli, dicembre 2023)

Testo suggestivo, indubbiamente, che esprime un affidamento a Dio.

Sembra un soliloquio diretto a Dio in un momento di solitudine e di meditazione.

Si legge ad un certo punto: dimmi se... mi vedi. 

A mio avviso c'è in queste parole una speranza, da parte dell'autore, che il Dio degli ultimi riesca a leggere e a riconoscere il peso dell'angoscia, dell'incomprensione, della solitudine umana.

Seguono poi frasi caratterizzate da un lessico che riconduce al venerdì santo: nella danza delle ore chiodate c'è stato un alfabeto segreto, una grammatica del sangue che dovevamo leggere. Poi abbiamo offerto la stessa corona di chiodi.

La corona di chiodi è un riferimento alla corona di spine.

(...) avevi... occhi di carminio e tempo, così vicini a giustiziare la voce delle nuvole.

Mi piace l'espressione occhi di carminio. A volte gli occhi delle statue dei crocifissi sembrano vividi, come lo è la tonalità cromatica del rosso carminio, abbastanza vicino al viola.

3 giugno 2025

Abacuc e la "fame di giustizia":

11) È BENE AFFIDARSI A DIO?

Indubbiamente si tratta di una domanda complessa. 

Inizio a trattare, in modo prevalentemente culturale, la questione della fiducia in Dio partendo da un testo dell'Antico Testamento per finire, entro venerdì sera, con le poesie di Marco Maraldi, un mio coetaneo con i miei stessi titoli di studio, di cui ho letto con interesse una raccolta intitolata Assalti

Analizzerò in modo abbastanza dettagliato alcuni dei componimenti di questa raccolta di poesie: d'altronde, da persona sensibile, volevo approfittare del mese di giugno per farvi conoscere un po' anche gli scritti di Maraldi, mentre Matthias si trova negli Stati Uniti dato che ha aderito ad un campus universitario. Di questo sono relativamente contenta. 

Ad ogni modo, tornerà dall'estremo ovest (è nello stato di Washington, non così lontano dal Canada) con un livello C1 di lingua, ovvero, con un'ulteriore carta a proprio vantaggio, anche per quel che concerne la possibilità di entrare nel settore di assistenza sociale agli immigrati.

Leggere qualcuna delle poesie di Marco infatti ha suscitato in lui una reazione emotiva piuttosto forte e da quel momento ho fatto in modo che non le rivedesse più, mentre io le ho praticamente studiate e analizzate in modo abbastanza distaccato.

A questo piccolo percorso tematico seguirà la mia recensione su Risurrezione di Tolstoj, la mia principale lettura di questo inverno.

A) STRUTTURA DEL LIBRO DI ABACUC:

Si tratta di un libro brevissimo che presenta un dialogo tra il profeta e Dio composto da cinquantasei versetti e tre capitoli nei quali Abacuc enuncia il problema fondamentale della storia e della morale umana:

Che senso ha l'oppressione dei deboli?

Per quale motivo nel mondo sembra regnare l'ingiustizia?

Abacuc, sconcertato a causa della mancata fraternità tra gli uomini, protesta con Dio e gli chiede come sia possibile che Lui stesso permetta al male e all'ingiustizia di dialogare.

Ab 1,3:

"Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese."

A breve vedrete che la risposta di Dio consiste nell'esercizio della fede e della pazienza.

Non si hanno notizie a proposito della biografia di questo profeta ma, secondo la tradizione ebraica, sarebbe stato un contemporaneo del profeta Daniele. 

Persino l'etimologia del nome Abacuc risulta incerta. Potrebbe derivare dall'ebraico e significare "colui che lotta".

B) ABACUC, CAPITOLO PRIMO:

Ab, 1,4:

"Non ha più forza la legge
né mai si afferma il diritto.
Il malvagio infatti raggira il giusto
e il diritto ne esce stravolto."

Per quali motivi le leggi appaiono inefficaci in certi contesti storico-sociali?

Questo versetto, ad ogni modo, mi ricorda alcuni passaggi del primo capitolo dei Promessi Sposi di Manzoni, nei momenti narrativi in cui l'autore tralascia l'immagine di Don Abbondio che cammina su una strada di ciottoli con il breviario in mano per concentrarsi sui contenuti di alcune gride emanate contro i bravi. 

Niccolò Tommaseo contestava, poco più di un secolo fa, questa scelta del nostro grande Alessandro, perché a suo avviso "bastava citare i fatti senza enunciare i decreti". 

Da dove Alessandro ha ricavato quei documenti? Secondo gli studi dell'italianista Luigi Russo, Manzoni avrebbe reperito documenti trascritti da un intellettuale operativo sul finire del XVIII° secolo.

Ecco qui un esempio di grida:

-"Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimoni consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizi, possa dai detti giudici e da ognun di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra."

In questo caso, la lingua risulta roboante, pomposa e poco accessibile alla stragrande maggioranza della popolazione. 

Lo stile impiegato per scrivere queste gride rispecchia appieno l'operato di un governo certamente non democratico ma impotente con i delinquenti, di solito protetti dai ceti sociali più elevati e più prestigiosi dal punto di vista dei titoli nobiliari. 

I bravi dunque erano parte del sistema di potere nel Seicento ed erano tutelati nelle loro azioni illegali e violente dai signori presso i quali prestavano servizio. Per tali ragioni dunque le gride risultavano inefficaci. 

Possiamo asserire dunque che, nella società lombarda del XVII° secolo, giuridicamente così predisposta, non poteva affermarsi il diritto.

La risposta di Dio alle domande di Abacuc è la seguente:

Ab, 1,6-9:

"Ecco, io faccio sorgere i Caldei,
popolo feroce e impetuoso,
che percorre ampie regioni
per occupare dimore non sue.
È feroce e terribile,
da lui sgorgano
il suo diritto e la sua grandezza.
Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli,
più agili dei lupi di sera.
Balzano i suoi cavalieri, sono venuti da lontano,
volano come aquila che piomba per divorare.
Tutti, il volto teso in avanti,
avanzano per conquistare.
E con violenza
ammassano i prigionieri come la sabbia."

Nel periodo in cui è stato scritto questo libro della Bibbia i Babilonesi (=Caldei) stavano emergendo dal punto di vista politico e militare. Perciò suscitavano angoscia presso gli altri sovrani dato che espandere i territori del regno era una loro chiara intenzione.

Personalmente mi colpisce il versetto 9 in cui si paragona, con una suggestiva similitudine, il raggruppamento dei prigionieri ai granelli di sabbia.

Questo significa che ai prigionieri di guerra viene negata la loro identità e la loro dignità. 

Ho per questo pensato ad una vicenda nel primo libro dell'Iliade: Criseide è schiava del prepotente re Agamennone che l'ha presa come bottino di guerra e non vuole restituirla al padre Crise, anziano sacerdote da lui trattato malissimo. 

Il dio Apollo scatena allora un'epidemia che colpisce l'esercito di Agamennone, costretto a rinunciare alla ragazza. 

Successivamente il sovrano degli Achei litiga con Achille per Briseide.

Il primo libro dell'Iliade non è soltanto un testo sulla difesa dell'onore eroico perché può far riflettere sul fatto che anche agli schiavi e alle schiave, queste ultime soventi oggetti sessuali dei guerrieri vincitori separate dalle loro famiglie e dai loro veri affetti (come probabilmente succederà anche ad Andromaca a seguito della morte di Ettore), va riconosciuta un'individualità. 

Anche agli schiavi è dovuto il rispetto.

Ab, 1,14:

"Tu tratti gli uomini come pesci del mare,
come animali che strisciano e non hanno padrone."

Gli uomini con un comportamento violento sono paragonati ad animali feroci.

Babilonia è qui un'avida pescatrice di uomini inermi.

Ma la devastazione da parte dei Babilonesi è suscitata da Dio? Dio è forse responsabile della violenza?

Le domande di Abacuc potrebbero essere quelle di ogni cristiano e credente pensante che cerca di comprendere il senso di ciò che accade nella storia.

Anche i conflitti armati, gli episodi di pulizia etnica, gli eccidi, le fatiche di chi è ai margini della società riguardano noi cristiani.

C) ABACUC, CAPITOLO SECONDO:

Ab 2, 4:

"Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede."

Chi sono coloro che non hanno l'animo retto? Si tratta di persone che perseguono unicamente i loro interessi.

Dio non fornisce una risposta sui motivi per cui il male esiste e dilaga. Tuttavia, in questo versetto, si sottolinea l'importanza della Fede: Dio costruisce l'avvenire degli uomini servendosi della fiducia e della collaborazione di chi si affida a Lui anche nelle situazioni più drammatiche. 

Ma Dio è davvero vicino a chi soffre?

Questa domanda mi fa automaticamente pensare ad una poesia di Salvatore Quasimodo e, in particolar modo, ai due versi di chiusura:

"è tuo il mio sangue,
Signore: moriamo."

Dio è un Padre che ha sacrificato il proprio Figlio per farsi prossimo alle sofferenze umane: il sangue dunque è vincolo tra il Signore e gli uomini.  Questo vuole comunicarci Quasimodo.

Dio non elimina le sofferenze e non è un garante a priori di felicità o, comunque, di una vita realizzata. 

Ma sappiamo che Gesù ha condiviso con noi il tempo e la morte, che si è mostrato coinvolto nei problemi sociali del mondo.

Tuttavia, evidenzio il fatto che Abacuc fa parte dell'Antico Testamento.

Il capitolo secondo poi fornisce ai lettori ammonimenti realistici in ogni tempo storico, primi fra tutti, la ricchezza che rende perfidi, e il monito a chi accumula guadagni illeciti attraverso un'immagine originale:

Ab, 2,10-11:

"Guai a chi è avido di guadagni illeciti,
un male per la sua casa,
per mettere il nido in luogo alto
e sfuggire alla stretta della sventura.
Hai decretato il disonore alla tua casa:
quando hai soppresso popoli numerosi
hai fatto del male contro te stesso.

La pietra infatti griderà dalla parete
e la trave risponderà dal tavolato."

In seguito, si passa ad altri avvertimenti severi: guai a chi fonda il potere politico sulla violenza, guai a chi umilia i popoli sconfitti e conquistati, guai a chi, praticando l'idolatria, dice al legno: "Svegliati!" e alla pietra muta: "Alzati!"

D) ABACUC, CAPITOLO TERZO:

Il capitolo finale consiste semplicemente nella preghiera di Abacuc, il quale chiede a Dio di avere compassione e pietà per il suo popolo.

Nel versetto 15 la vittoria del Signore viene rappresentata con un'immagine che richiama al libro dell'Esodo:

Ab 3, 15:

"Calpesti il mare con i tuoi cavalli,
mentre le grandi acque spumeggiano."


30 maggio 2025

Stelle "poetiche":

Vi presento tre poesie del Novecento relative al "tema stelle", legate a qualche conoscenza astronomica.

"Unisci le stelle. Conta le vene che ti restano".

(M. Maraldi)


La notte è silenziosa.
Brillano le luci dei paesi vicini, abbracciati
dalle cime dei monti.
Ammiro
il tremolio di una stella
vivace come una piccola fiamma.
La sua luce lontana mi ricorda il tuo sorriso.

(Erbezzo, VR, agosto 2024, poesia dedicata all'amore della mia vita)

"STELLA", G. UNGARETTI:

Stella, mia unica stella,
Nella povertà della notte, sola,
Per me, solo, rifulgi,
Nella mia solitudine rifulgi.
Ma, per me, stella
Che mai non finirai d’illuminare,
Un tempo ti è concesso troppo breve,
Mi elargisci una luce
Che la disperazione in me
Non fa che acuire.


Questa lirica breve è tratta dalla raccolta Vita di un uomo. 
Al verso 1 il poeta apostrofa la stella come se intrattenesse una relazione confidenziale con lei.
Nei primi quattro versi della poesia la stella sembra isolata dalle altre. 
L'espressione "povertà della notte" (v.2) si riferisce con tutta probabilità ad un mondo caratterizzato da odi, divisioni, violenze. Stando a questa interpretazione che ho azzardato, la luce rappresenterebbe l'amore vero ed autentico, la stella invece la persona amata che ha cambiato in meglio la vita del poeta, pur non eliminando il dolore vissuto in passato.

Vorrei segnalarvi due epifore:

-vv.1 e v.5: "stella" è la parola che chiude entrambi i versi
-vv.3-4: "rifulgi" è la voce verbale che conclude i due versi consecutivi e, oltre a ciò, pare che l'autore soltanto, nella sua solitudine angosciante, riesca a vedere quanto questa stella brilli e valga.

Mi soffermo sul significato metaforico del settimo verso: Un tempo ti è concesso troppo breve.
Con questa frase Ungaretti afferma, come in molte altre sue liriche, che l'esistenza è di passaggio per chiunque. 
Eppure, la stella protagonista del componimento, dona una luce che la disperazione del poeta intensifica. 

La conclusione della poesia mette in contrapposizione la bellezza e il contatto con il proprio sentire con uno stato d'animo di dolore che permea tutta la raccolta Vita di un uomo, scritta in una fase buia della storia europea, durante il consolidamento di regimi autoritari, quando Ungaretti avrà vissuto più momenti di avvilimento e di amarezza per il fatto che, le società del periodo 1919-1935, non riuscissero a scorgere e a valorizzare tutto ciò che era bellezza, amore e speranza.

"BIG BANG O ALTRO", E. MONTALE:

Mi pare strano che l’universo
sia nato da un’esplosione,
mi pare strano che si tratti invece
del formicolìo di una stagnazione.

Ancora più incredibile che sia uscito
dalla bacchetta magica
di un dio che abbia caratteri
spaventosamente antropomorfici.

Ma come si può pensare che tale macchinazione
sia posta a carico di chi sarà vincente,
ladro e assassino fin che si vuole ma
sempre innocente?


Montale qui dubita di tutto: del fatto che l'Universo sia sempre stato così, dell'avvenuta esplosione del Big Bang, dell'ipotesi di una creazione divina (comunque Dio non è affatto un mago, come sembra emergere qui).

I primi due versi della poesia si riferiscono al fenomeno del Big Bang, avvenuto, secondo l'astronomia, circa 20 miliardi di anni fa.
A sostegno di questa tesi relativa all'origine dell'Universo ci sono tre prove. La prima consiste nell'esistenza del moto di recessione delle galassie. La seconda prova a sostegno del Big Bang considera il fatto che l'Universo sia formato per il 75% da idrogeno e per il 25% di elio, per cui, se non fosse avvenuta questa enorme esplosione, l'elio presente nell'Universo deriverebbe da reazioni di fusione nucleare all'interno delle stelle. Tuttavia, la quantità di elio è troppo elevata e uniforme ovunque, soprattutto nelle regioni dove non ci sono stelle che lo generano.
La terza prova considera invece la presenza della radiazione cosmica di fondo, scoperta nel 1964 da Wilson e Penzias, due astronomi che lavoravano per il New Yersey, i quali sostenevano l'ipotesi di una radiazione fossile residua del Big Bang, costituita da fotoni prodotti dall'esplosione che, a causa dell'effetto Doppler, sarebbero divenute onde radio.

Nel verso 8, il poeta allude al Dio cristiano che si è fatto uomo.

La terza strofa è significativa e interessante:

Ma come si può pensare che tale macchinazione
sia posta a carico di chi sarà vincente,
ladro e assassino fin che si vuole ma
sempre innocente?

Il cosmo è in rapporto con noi piccoli stupidi umani che aspiriamo al bene ma tendiamo al male, che abbiamo creato società classiste e ingiuste, che siamo causa di inquinamento e di un'urbanizzazione che rovina la natura. Ma d'altro canto tutti noi, nel corso degli eventi della vita, siamo anche degli innocenti, quando proviamo dolore nei momenti in cui la vita ci sorprende negativamente con un evento traumatico quando subiamo ingiustizie ed emarginazione, quando con il nostro egoismo facciamo del male a noi stessi.

"QUANDO, INTENTI AL DECLINO DELLE STELLE", T. LANDOLFI:

Quando, intenti al declino delle stelle,
Cerchiamo in cielo traccia della morte,
Ivi scorgiamo errare umane celle
Alla conquista d'altri mondi volte.

Non il vitale spazio ci è conteso,
Ma il mortale: dovrà la nostra morte
Non aver, dunque, a specchio l'infinito
E consumarsi sordida e meschina
Su questa terra che ci fu matrigna?

Astronauti, ridateci uno spazio
(Almeno) vuoto d'uomo.


Nel primo verso il declino delle stelle consiste nel passaggio dalla notte all'alba.

Nel secondo verso già è menzionata la morte: contemplando il passaggio dalla notte all'alba prendiamo coscienza del fatto che siamo piccoli e non eterni proprio come le stelle in cielo? Anche le stelle muoiono, pur avendo una vita molto più lunga della nostra. Infatti la fase finale di una stella è condizionata dall'intensità della forza gravitazionale che agisce al suo interno.

Quando muoiono, le stelle più piccole divengono nane bianche, cioè, corpi caldi e densi. In questa fase il loro diametro è paragonabile a quello della Terra. Nella nana bianca la materia è in stato degenere, come nel plasma, perché gli elettroni sono separati dai nuclei. A poco a poco la nana bianca si raffredda fino a diventare un corpo denso e scuro non più visibile.

Le stelle più grandi invece, nella fase finale della loro vita, diventano supernovae a seguito del collasso del loro nucleo e aumentano la loro luminosità fino ad un miliardo di volte. Buona parte della materia della stella si espande nello spazio per migliaia di km/s.

Nei versi 3-4 si fa accenno ai progressi scientifici degli anni '60: agli sputnik sovietici e all'atterraggio sulla Luna.

Ivi scorgiamo errare umane celle
Alla conquista d'altri mondi volte.

Nella strofa seguente è evidente una ricerca spirituale da parte di Landolfi: può l'infinito alludere ad una speranza nella vita ultraterrena?

Poi che quella "terra matrigna" che richiama a Leopardi...
La chiusura della poesia è eloquente e si rivolge alle esplorazioni spaziali degli astronauti:

Astronauti, ridateci uno spazio
(Almeno) vuoto d'uomo,

come a voler dire: ridateci uno spazio incontaminato da pericolose competizioni e dalle abiezioni umane!

"LA STELLA DI LAURA", KLAUS BAUMGART:


La stella di Laura è stato il primo libro in assoluto che mi è stato regalato e anche il primo libro che ho letto. 

Si tratta di una storia di amicizia ed altruismo che trasmette l'importanza di dimostrarsi sensibili e generosi ma al contempo di rispettare la libertà e l'identità altrui. 

Per questo contenuto, rimastomi impresso fin dai sei anni, mi piacerebbe chiamare Laura una mia eventuale figlia.

Laura non riesce a dormire. 

Ma, quando vede una stella cadere sul marciapiede accanto a casa sua, esce per raccoglierla e soccorrerla. La ripara con un cerotto applicato su una punta rotta. 


Ma il mattino seguente la stella scompare. Laura la cerca dappertutto e, durante il giorno, è mogia e malinconica. La sera riesce a ritrovare sul cuscino quel che cercava.

Il racconto si conclude con l'aiuto che Laura dà alla stella per poter ritornare in cielo.