L'intervista ad Adelmo era inclusa negli esempi delle fonti orali.
Forse i nonni dei giovani come me conoscono la tragica vicenda dei sette fratelli Cervi, o almeno, se non l'hanno mai sentita raccontare, negli anni quaranta del secolo scorso erano comunque tutti già nati.
Io la riassumo qui sotto, ma innanzitutto specifico che Adelmo è il figlio di Aldo Cervi, uno dei fratelli condannati a morte nel pieno della seconda guerra mondiale.
Ne approfitterò inoltre per lanciare una questione etica piuttosto interessante.
I fratelli Cervi sono considerati uno dei simboli della Resistenza italiana, non soltanto per la loro morte ma anche per ciò che l'aveva preceduta, ovvero, per la loro volontà di emancipazione culturale.
I Cervi erano dei mezzadri emiliani che avevano studiato la letteratura, la storia e la filosofia da autodidatti; dopodiché avevano preso in affitto un terreno tra Campegine e Gattatico (provincia di Reggio Emilia) con lo scopo di farlo divenire un'azienda produttiva agricola. Erano riusciti nell'intento. Oltre a ciò, avevano radicalmente rotto i legami con i rigidi princìpi cattolici che all'epoca quasi tutti i genitori trasmettevano ai figli e avevano aderito alle idee comuniste in pieno regime fascista.
Aldo Cervi, con il sostegno degli altri fratelli era riuscito a istituire una piccola biblioteca popolare nella quale si radunavano i dissidenti della dittatura di Mussolini e per di più accoglieva in casa numerosi ex prigionieri scappati dai campi di concentramento dopo l'8 settembre 1943. Con essi aveva formato un gruppo di partigiani abbastanza consistente.
Naturalmente, alla fine di novembre dello stesso anno i Cervi erano stati arrestati e un mese dopo erano stati condannati a morte da un Tribunale Straordinario della Repubblica Sociale Italiana e fucilati il 30 dicembre. Dopo nemmeno un anno la loro madre Genoveffa morì a causa di questo enorme e insostenibile dolore. Ci credo, poveraccia! Quale altra ragione di vita può trovare una donna di circa settant'anni alla quale sono stati uccisi tutti e sette i figli?
A gestire l'azienda agricola rimasero quattro vedove e undici bambini. Nel dicembre 1943 Adelmo aveva soltanto quattro mesi.
Il mio manuale di studio riporta ciò che Adelmo ha dichiarato nelle interviste. Io riscrivo le parti più significative:
"Mio padre era considerato un matto in paese per le scelte politiche intransigenti, per le innovazioni che con i fratelli aveva introdotto nella conduzione del podere, per la scelta di avere due figli da una donna senza sposarla. (...) Era un rivoluzionario puro, che io ho sempre messo in discussione, perché c'è qualcosa di non umano. Ti fai trasportare da ideali non considerando che la realtà è un'altra: prima di tutto il solido che c'è lo devi mantenere. (...) La storia di mio padre e dei miei zii è uno spaccato di questo mondo: sei eroe e miserabile allo stesso tempo. L'uomo è fatto così. Il comunismo è scritto bene ma è stato messo in pratica dall'uomo, l'ha fatto a sua immagine.
(...) Dopo la morte di tutti e sette il problema principale era vivere, dare da mangiare a undici bambini e io credo che questa cosa mi abbia incattivito... sentire parlare di tuo padre come un rivoluzionario che ha dato la vita per cambiare il mondo e poi vedere che il tuo problema principale era quello di far quadrare i conti: se penso che nessuno di noi è mai andato oltre alle elementari perché c'era da andare a lavorare nei campi. Ho odiato la mia casa, ho odiato la fattoria, perché c'era da pagare il mutuo, perché c'erano da saldare i debiti con la latteria, perché c'era da tirare la cinghia... E' comprensibile che la scuola arrivava dopo. E mio padre e i miei zii si sono fatti uccidere per questo?"
RIFLESSIONE ETICA:
Premetto che ammiro moltissimo tutti coloro che sacrificano la propria vita per degli ideali e per dei principi. Di questo probabilmente ve ne sarete accorti leggendo il mio post su José Sanchez del Rio e le mie considerazioni su Sophie Scholl.
Ma è giusto dare la vita per un ideale lasciando per sempre tutte le persone che amiamo e che ci amano? E' giusto morire nella straordinaria coerenza con i propri principi senza considerare il lacerante dolore della perdita che familiari e amici proveranno dopo che non ci saremo più?
Questa storia mi ha stimolata a immaginare una strana e improbabile proiezione nel futuro, mi ha fatto cioè pensare a un' Anna intorno ai 40 anni, moglie e madre di famiglia.
Mi sono immaginata una me adulta che, pur avendo gratificanti responsabilità come una famiglia e un lavoro nel quale si sente realizzata, decide di partire per un servizio di Volontariato Internazionale in un paese africano poverissimo e oppresso da un duro governo autoritario.
Dunque, immaginate che io lasci a casa un marito appartenente alla mia stessa generazione e un figlio piccolo, promettendo loro di ritornare a casa sana e salva. Poi però, durante il mio soggiorno, oltre a svolgere il mio servizio con grande entusiasmo, mi faccio infervorare da idee come: giustizia sociale, libertà di stampa e rispetto delle libertà degli individui. E inizio a organizzare, con molte altre persone, delle aperte proteste contro la dittatura. I collaboratori del governo mi arrestano e mi condannano a morte. E io muoio lontana migliaia di chilometri dai miei genitori, da mio marito e da mio figlio, che forse non sapranno mai i motivi per cui sono stata giustiziata.
Io non esisto più, il mio bambino sui cinque anni, triste e angosciato, continua a chiedere di me a un padre magari perennemente con la lacrima sull'occhio... Basta, non posso andare oltre anche perché non voglio assolutamente che accada una cosa del genere. La volontaria internazionale probabilmente la farò, ma non in Africa e soprattutto, a magistrale conclusa e quindi molto prima di raggiungere i 40 anni.
Datemi pure della pazza, della strampalata. Riconosco l'assurdità di questi pensieri ma almeno mi sono serviti per capire che nella vita non ci siamo soltanto noi con i nostri ideali e i nostri desideri di rivoluzione!
Se non si tiene conto anche dei sentimenti altrui, che vita è mai la nostra?
"I CAMPI IN APRILE"- LIGABUE:
In questa bellissima canzone Luciano Ligabue narra la storia di Luciano Tondelli, un partigiano di Correggio (provincia di Parma) morto il 25 aprile 1945, dieci giorni prima della fine della guerra in Europa. (In Europa, occhio, perché il 6 agosto gli americani hanno lanciato la bomba atomica su Nagasaki e Hiroshima!).
Mi è piaciuto molto il fatto che abbia deciso di narrarla in prima persona, creando una rapporto di "immedesimazione" nel protagonista di questa tragedia realmente accaduta.
Luciano Tondelli comunque non è stato l'unico giovane partigiano a morire, egli è anche l'emblema di tutti i ventenni ai quali una guerra atroce e sanguinosa ha sottratto la vita.
- "Se parti per sempre a neanche vent'anni non sei mai l'eroe, sei sempre il ragazzo."= A vent'anni è molto facile innamorarsi, non soltanto di una persona ma anche di un'ideologia e di ideali astratti. Io a dire il vero è dalla prima adolescenza che sono follemente "attaccata" ai concetti di pace e di giustizia. Ma se un ventenne perde la vita nel combattere, è più probabile che venga commiserato come una giovanissima vittima piuttosto che come un grande eroe da prima pagina di un libro di storia. A vent'anni sei semplicemente un ragazzo, un post-adolescente spesso incapace di analizzare in modo razionale e freddo la realtà che ti circonda.
-" Se muori in aprile, se muori con il sole finisce che muori aspettando l'estate."= Ricordate che più di una volta nei miei post ho paragonato la giovinezza alla primavera della vita. Tutti sono d'accordo nell'affermare che è contro natura morire alla mia età o comunque poco prima di compiere vent'anni. Sotto un aspetto i vent'anni non sono molto diversi dagli anni dell'adolescenza, perché entrambi sono periodi della vita in cui di solito si attende il futuro un po' con entusiasmo e un po' con apprensione, in cui si disegnano progetti, in cui ci si impegna a realizzare sogni che coltiviamo sin dall'infanzia. Te ne vai dal mondo senza poter mai vivere le gioie e le responsabilità tipiche dell'età adulta.
-"Ricorda ragazzo, la storia non cambia se tu non la cambi."= Questo è un messaggio diretto ai giovani. A 14 anni ho scritto una breve lettera alla redazione del "Piccolo Missionario", rivista che si occupa di sensibilizzare i ragazzini su tematiche come la povertà, la fame, la solidarietà, l'accoglienza nei confronti del diverso. Due delle frasi conclusive erano:
"Credo che noi giovani abbiamo una grande responsabilità: guidare il futuro del mondo. Ma dobbiamo essere sostenuti dagli adulti che invece mi sembrano spesso superficiali e vuoti."
Sulla seconda frase sono rimasta dello stesso parere! La prima, ora che sono cresciuta, non la ritengo propriamente corretta: noi giovani dobbiamo costruire progetti e rimboccarci le maniche per realizzare i sogni che custodiamo nel cuore e per sviluppare le nostre qualità più preziose, gli adulti devono indirizzarci verso ciò che è doveroso, buono e giusto e dunque devono "guidare con noi il futuro del mondo".
Sì insomma, dovrebbero! Perché la realtà è un'altra. La realtà è che ci sono molti "ragazzi fuori"a causa di adulti inconsistenti e a causa della logica, purtroppo imperante, del
"Tutto è lecito, se vuoi farlo".