Scrivo questo post per dimostrare ai molti attuali insegnanti di lettere che greco, latino e letteratura non sono discipline inutili. Bisognerebbe cambiare il modo di insegnarle ai ragazzi, secondo me.
Io ho conosciuto molti insegnanti di materie umanistiche, molti di loro sono miei conoscenti.
Una di questi, pur insegnando alle superiori da un sacco di tempo, è convinta che Manzoni non serva a nulla e quindi non lo spiega più, perché lo ritiene "noioso e non attuale". E io naturalmente non condivido affatto!
Un altro invece, nei suoi programmi di letteratura italiana, ha deciso di saltare Pascoli perché lo ritiene "un depresso che si piange addosso". E io naturalmente non condivido. E se i suoi poveri studenti se lo trovano nello scritto della maturità che cavolo fanno??!
D'altra parte, che cosa possono trasmettere degli insegnanti che non credono in ciò che insegnano?
Dopo la fine della Magistrale cercherò di ottenere una cattedra di italiano e latino al biennio scientifico.
Per poter comprendere bene la figura della Monaca di Monza è necessario un po' di latino.
Quando mi troverò a fare una lezione su questa figura, farò all'inizio un bel po' di domande ai miei allievi.
Prendiamo due frasi:
1) Velim legere.
2) Vellem legere.
Che differenza c'è tra queste due forme?
Un ragazzino di quindici anni, se studia non ha difficoltà a dirmelo.
"Velim" e "vellem" derivano entrambi da "volo" (=volere) ed entrambi sono prime persone singolari.
Il primo però è un congiuntivo presente, il secondo invece un congiuntivo imperfetto (inf." velle"+ desinenza -m).
Una traduzione che rispetta appieno i principi grammaticali è questa: "che io voglia leggere" per il primo caso e "che io volessi leggere" per il secondo.
Ma in un contesto come questo il modo congiuntivo non va bene, occorre il condizionale, che tra l'altro in latino classico non esiste.
E quindi:
1)Vorrei leggere. (e ho il tempo per farlo ora)
2) Avrei voluto leggere. (ma non ne ho avuto il tempo e quindi non ho potuto)
Perché la Monaca di Monza dovrebbe aver a che fare con tutti questi ragionamenti?
... eh, la Monaca di Monza è "velleitaria", ecco l'aggettivo giusto per poterla definire.
Quindi, che differenza c'è tra volitivo e velleitario? Tutti e due sono stati originati dal verbo "volo".
E quindi? Una persona volitiva sa quello che vuole, si prefigge degli obiettivi e manifesta una forte determinazione nel perseguirli.
Un velleitario desidera qualcosa ma non è abbastanza forte per poter essere tenace, oltre che desideroso. Nella condizione di velleitarismo vi è una grande sproporzione tra ciò che si vuole e l'impossibilità o l'incapacità di poterlo ottenere.
"La velleità è un'aspirazione irrealizzabile", dice il mio Garzanti.
LA STORIA DI GERTRUDE:
Nel corso del IX° capitolo del suo stupendo romanzo, Manzoni compie una digressione fondamentale raccontando le vicende di un personaggio così negativo.
"La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno non il suo consenso ma la sua presenza."
Era l'ultima figlia di un nobile principe,che Manzoni non nomina mai nel corso del romanzo. O meglio, non scrive mai il suo nome proprio, ma più avanti lo designerà sempre con l'espressione "il principe padre", per segnalare ai lettori la sua autoritarietà e il suo cinismo egoistico.
Nel "Fermo e Lucia", il padre della monaca è il Conte Matteo. Ma nel passaggio dal "Fermo" ai "Promessi Sposi", lo scrittore milanese gli nega perfino il diritto a un nome proprio.
Se i figli dei contadini erano costretti a rinunciare all'istruzione e a vivere nella miseria fino alla morte, i figli dei nobili ricchi non potevano quasi mai scegliere da soli un percorso di vita.
Per esempio, se i figli di un duca erano cinque, i primi due erano destinati a matrimonio combinato e gli altri tre alla vita religiosa. Era una questione prevalentemente economica, tanto all'epoca, i sentimenti e le intenzioni dei figli non contavano a nulla.
"Bambole vestite da Monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavano monache e quei regali erano sempre accompagnati con grandi raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa (...)".
Però notate bene che nessun familiare le dice mai in modo chiaro e diretto: "Devi assolutamente farti monaca ed entrare in convento da grande". E' un'imposizione se vogliamo blanda, ma psicologicamente dannosa. Il principe padre non le impone la sua volontà quando lei è bambina, ma crea in casa un clima tale che possa ispirare la figlia a intraprendere la clausura. Terribile!
"A sei anni, Gertrude fu collocata per educazione (...) nel monastero dove l'abbiamo veduta; e la scelta del luogo non fu senza disegno. "
"Gertrudina, nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni costo essere per le altre oggetto di invidia (...).
I parenti e le educatrici avevano cresciuto e coltivato in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro."
Rimane nel collegio del monastero per otto anni. E' una bambina vanitosa, antipatica, superba, viziata da tutti gli adulti che le stanno intorno e che la vedono crescere. Le educatrici trattano molto meglio lei rispetto a tutte le altre.
In quegli anni però, viene a contatto con delle ragazzine che non sarebbero diventate suore ma sarebbero invece state destinate al matrimonio. Vorrebbe essere lei invidiata dalle sue compagne, invece è lei stessa che si ritrova a odiarle.
"Invidiandole, le odiava; talvolta l'odio s'esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti."
E che succede poi? Che, aiutata da alcune compagne, la ragazzina scrive una lettera al padre manifestando la sua vera volontà, cioè dicendo chiaramente di non voler intraprendere la vita claustrale.
Ma, una volta conclusi i suoi anni di istruzione, ritorna a casa purtroppo.
"I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un'indegna. (...) Di rado e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia dei parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l'abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per una cosa necessaria, o non attaccava o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante o severo."
Gertrude era stata cresciuta nell'orgoglio e quindi non essere minimamente degnata di attenzione è ciò che di più doloroso può subire una ragazzina superba come lei.
E comunque, da queste righe, si comprende bene il punto di vista che assume l'autore. Manzoni riconosce la corruzione di Gertrude, ma, nell'analizzare il suo vissuto, prova anche una sincera compassione per lei. Gli aggettivi che le attribuisce spesso sono "infelice"; "misera" e "sventurata".
Gertrude si invaghisce di un paggio, un giovane servitore della sua casa. E gli scrive una lettera.
Ma, scoperta dal padre, viene condannata a una disumana reclusione per molti giorni.
Per rimediare ai suoi comportamenti, la ragazzina scrive una lettera al padre per chiedergli perdono (di cosa poi, non ho mai capito bene. In senso logico ovviamente, non in senso concettuale) e per rinnovare il suo desiderio di farsi monaca.
Questo basta per liberarla dall'ingiusta reclusione in camera.
Tu mi chiedi perdono? Non basta che tu me lo chieda, devi meritartelo! E ti conviene farti monaca, perché, se anche io volessi trovarti marito, chi mai ti sposerebbe, dopo questi tuoi indecenti comportamenti?
Sono semplicemente entrata nella mente del principe padre.
Tra i parenti però, Gertrude riacquista credito e benevolenza. Ma si può parlare di benevolenza?
Che familiari sono coloro i quali impongono ad una ragazzina un futuro che lei non vuole? Quale bene possono volerle?
Ad ogni modo, pochi giorni dopo a Gertrude si presenta l'occasione di poter tornare indietro, cioè di rifiutare di conseguire i voti perpetui. Era la regola infatti che ogni giovane venisse esaminata da un sacerdote.
"Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione a farsi monaca? Non sono state adoperate minacce o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna autorità per indurla a questo?"
Eccole qui, le domande del vicario delle monache. Ma lei mente sempre contro se stessa e così diventa monaca.
E diviene corrotta, triste, tormentata. Diviene l'amante del nobile Egidio e con lui uccide una consorella che aveva minacciato di rivelare la loro relazione alla madre superiora.
VALIDITÀ STORICA DELLA MONACA DI MONZA:
Come l'Innominato, come il cardinale Borromeo e come Fra' Cristoforo, anche la Monaca di Monza è un personaggio storicamente esistito.
Il suo vero nome era Marianna de Leyva, figlia del conte Martino de Leyva.
A sedici anni era stata costretta dal padre a divenire monaca e aveva cambiato il nome in "Suor Virginia Maria".
Aveva avuto una lunga relazione con il conte Gian Paolo Osio, dalla quale erano nati due figli, dati poi in affido alla loro nonna paterna.
Venuto a conoscenza dello scandalo, il Cardinale Federigo Borromeo l'aveva fatta processare e, dopo il processo, era stata murata viva per vent'anni a Santa Valeria (Milano), priva di contatti con l'esterno ad eccezione di una piccola feritoia dalla quale venivano fatti passare i viveri indispensabili per la sopravvivenza.
Lo so anch'io che la tematica della monacazione forzata non è più attuale oramai.
Ma, come ho dimostrato sopra all'inizio del post, permangono certi sentimenti e certi comportamenti, che molte parole delle lingue antiche hanno reso attuali.
Però è ancora attualissimo il fatto che alcuni genitori facciano intraprendere ai loro figli delle strade che questi ultimi non vorrebbero intraprendere; magari dal punto di vista degli studi superiori e universitari e addirittura dal punto di vista della carriera lavorativa.
Alcuni padri non lasciano i loro figli liberi di scegliere la vita che vogliono.
Pensate a un padre che è odontoiatra e proprietario di uno studio dentistico. Suo figlio vorrebbe però diventare avvocato, ma il genitore gli dice: "Eh no, hai già lo studio dentistico pronto! Quindi studia odontoiatria, così hai il lavoro sicuro."
E non è questo un genitore autoritario? Sicuramente è un adulto che non immagina nemmeno lontanamente che razza di enorme supplizio sia studiare qualcosa controvoglia!
Ad ogni modo, il romanzo di Manzoni è un romanzo storico, quindi perché non si dovrebbe insegnarlo? La storia è sempre e comunque parte di noi. E' male ignorarla o non saperla.
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