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25 febbraio 2019

"L'invetriata", Dino Campana:


"L'invetriata" è la poesia di Campana che lo scorso anno, durante il corso di Letteratura italiana del Novecento, mi era piaciuta di più di altri suoi componimenti che mi erano sembrati particolarmente sibillini, come "la Chimera".
Prima però è giusto che vi dica qualcosa sulla sua triste vita.

Dino Campana era nato nel 1885 a Marradi, località appenninica in provincia di Firenze. Era figlio di un maestro elementare e, sin dall'adolescenza, aveva manifestato dei segni di squilibrio psichico. 
Era incapace di adattarsi allo stile di vita borghese e non era mai riuscito a terminare gli studi universitari.
Durante la sua esistenza, aveva viaggiato molto: nel 1907 era a Parigi, l'anno successivo addirittura in Argentina! Nei suoi viaggi, aveva svolto molte diverse professioni: minatore, fuochista sulle navi, venditore ambulante.
E' morto nel 1932, al manicomio di Castel Pulci, nei pressi di Firenze. Se la sua raccolta di poesie che ancora oggi ricordiamo si intitola "Canti Orfici", c'è un motivo ben preciso, dal momento che, nei suoi componimenti, degli spunti realistici come un paesaggio o un oggetto vengono trasfigurati in chiave visionaria attraverso una serie di analogie. Dino Campana, prendendo spunto dalla figura di Orfeo, considera la poesia come un'arte in grado di creare suggestione ed evocazione.

L'INVETRIATA:

La sera fumosa d’estate
dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
e mi lascia nel cuore un suggello ardente.
ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
a la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? - c’è
nella stanza un odor di putredine: c’è
nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
nel cuore della sera c’è,
sempre una piaga rossa languente.


Il poeta sta osservando il paesaggio attraverso una vetrata (=l'invetriata) e, sia con il pensiero che con lo sguardo, si sofferma sugli effetti della luce del tramonto di una sera d'estate.
La commento e la analizzo verso per verso.
L'aggettivo "fumosa" sta per "afosa". Quando i giorni d'estate sono afosi l'aria non è limpida, ma offuscata dall'eccessivo calore. 
I colori della sera si riflettono nella stanza piuttosto oscura in cui Campana si trova. Questo significa l'espressione: "mesce chiarori nell'ombra". La sera estiva mescola luci e ombre, quasi come se fosse una pittrice abile al pari di Caravaggio o di Tintoretto. 
Nell'arte moderna (Quattrocento-Ottocento), il contrasto luci-ombre contribuiva a rendere bene la tridimensionalità degli oggetti di un dipinto.
Un po' ricorda l'ossimoro di Rebora nella poesia "Dell'immagine tesa" (post del 7 dicembre 2018): "ombra accesa". 
A proposito di questa espressione, scrivevo: "Se la stanza è buia, che cosa la illumina? La luce dell'interiorità di un uomo proteso alla ricerca di qualcosa? Oppure un lento approssimarsi di un qualcosa di natura divina?"
L'ombra accesa, notate bene, è qui psicologica.
Potrei anche azzardare un ricordo di una delle mie molte letture dell'estate: Mark Twain, nel narrare la quotidianità e le relazioni di Thomas Sawyer, verso la fine del romanzo inserisce l'episodio di Tom e Becky smarriti in una grotta molto ampia e molto profonda.
Si trovano lì da due, forse tre giorni. Ad un tratto Tom, accorgendosi che a Becky mancano le forze, decide di prendere con sé quel che rimane di una candela per cercare di trovare la via d'uscita. Per non perdere le tracce della ragazzina, Tom le propone di tenere un estremo di una lunga corda, con la quale viene segnato il suo tragitto verso quella che effettivamente sarà l'uscita.
Mentre il ragazzino cammina, la flebile luce della fiamma che tiene in una mano gli fa scorgere dietro ad una roccia l'ombra di Joe il Pellerossa, a pochi metri di distanza da dove lui si trova!
E' un noir intrigante quel fantastico romanzo!
Al di là di questo parallelismo che potrebbe sembrarvi insolito, c'è qualcosa di logico da considerare: i contorni di ogni ombra sono sempre definiti dalla luce! Anche in ambienti diversi dalle grotte e anche nei momenti di pieno giorno. 
Le ombre "si accendono", e cioè sono visibili, per il fatto che sono generate da fonti di luce e per il fatto che si formano tra le superfici degli oggetti e una sorgente luminosa.
Per cui, concludo che "ombra accesa" è, dal punto di vista linguistico, un paradosso. Ma dal punto di vista fisico e quotidiano non proprio così tanto. Cioè, per la fisica il vero e proprio ossimoro è qualcosa di più forte come: "buio luminoso".

E ciò che separa l'ombra di un locale interno (visto come opprimente e angusto) dai colori del tramonto che si specchiano nel cielo è il vetro di una finestra. 
Questo marcato contrasto di luci ed ombre genera angoscia nell'animo di Campana, uno stato d'animo paragonabile a un "sigillo bruciante di fuoco" (=suggello ardente).
E' molto strana quella parentesi al verso 4. Personalmente io, autrice di due raccolte di poesie, non l'ho mai fatto e mai applicherei l'espediente della parentesi. La poesia non è un tema argomentativo o un'analisi letteraria; la poesia è musica d'armonia. Per questo a mio avviso le parentesi sono inopportune in un testo in versi. Eppure di tanto in tanto anche Tasso le inserisce nella "Gerusalemme Liberata".
Nel versi 4 e 5 comunque, Campana nota che è stata accesa la lampada votiva davanti alla Madonna del Ponte, una statua collocata su un terrazzo vicinissimo ad un fiumicello.
Quel "chi è chi è" ripetuto rende bene quel millisecondo in cui il poeta prova stupore e direi anche compiacimento al vedere una luce appena accesa, mentre il cielo si fa sempre più buio, di attimo in attimo.
Ma improvvisamente, nei versi 6 e 7, si passa ad una caratteristica negativa dell'ambiente interno (con anafora del sintagma "nella stanza"): la putredine, collegabile sia ad un'impressione di chiusura materiale sia ad un senso di malessere interiore, dovuto alla disperazione di Campana di sentirsi escluso dalle relazioni con gli altri.
Quella "piaga rossa languente" è simbolica ed è dovuta alla sofferenza che provoca una luce diurna che sta svanendo. 
Altroché il Foscolo ventiquattrenne di "Alla sera", che scriveva, apostrofando per l'appunto questo momento della giornata: "E mentre io guardo la tua pace/dorme quello spirto guerrier ch'entro mi rugge"!
Per Foscolo, la sera è fatta di calma e di tranquillità, proprio come la morte ("Vagar mi fai, co' miei pensier su l'onde che vanno al nulla eterno). Foscolo è pieno di inquietudini, politiche, sentimentali e familiari. Ad una vita così tormentata preferirebbe la morte. E' soltanto con il calar del sole che egli trova un po' di pace.
Per Campana invece, la sera è un momento che marca la sua triste condizione di uomo internato in un manicomio al quale è stato privato il contatto con il mondo esterno.

Gli ultimi quattro versi sono i più belli; innanzitutto per quella suggestiva metafora che paragona le stelle a dei "bottoni di madreperla". Poi perché c'è la mia figura retorica preferita: la personificazione. La sera sembra qui addirittura una ragazza, una donna che "si veste di velluto". Ve la immaginate la sera che si mette un lussuoso abito di velluto per una serata di gala?
Ma la sera è fatua, cioè è leggera. E in lei c'è "una piaga rossa languente".
All'ultimo verso ritorna dunque l'angoscia e il rosso, il colore del sangue e della violenza, in antitesi con il bianco madreperla delle stelle. 

Concludo con un pensiero musicale. Questa poesia mi fa venire in mente una canzone, non recentissima, intitolata "Nei giardini che nessuno sa". Il testo di questo brano non l'ho mai capito del tutto, anche se l'ho ascoltato innumerevoli volte.
Comunque, la condizione degli autori, riportata in alcune parti, come queste qui sotto, ricordano la situazione di Dino Campana quella sera, visto che provava quei determinati sentimenti davanti a una finestra:

"ecco come si finisce poi/ inchiodati alla finestra noi/spettatori malinconici/di felicità impossibili".

... Quello che c'è scritto soprattutto qui mi verrebbe voglia di metterlo in pratica per tutta la vita con una persona con cui ho particolare sintonia...

"Ti darei gli occhi miei per vedere ciò che non vedi/l'energia l'allegria per strapparti ancora sorrisi/dirti sì sempre sì e riuscire a farti volare/dove vuoi, dove sai senza più quel peso sul cuore/ nasconderti le nuvole e quell'inverno che ti fa male/curarti le ferite e poi qualche dente in più per mangiare".

 Tanto per farvi capire quanto sono brava a "risollevarmi il morale": ascolto e suono questa canzone nelle giornate e nei periodi (come questo) in cui mi sento triste, in cui arrivo anche a pensare che la mia presenza sulla Terra ha provocato sofferenza. 
Se non ci fossi stata, magari mia mamma, avrebbe vissuto anni migliori, invece di star dietro ad un'adolescente emarginata e pesantemente insultata com'ero io... E' stata male quasi quanto me. E tuttora sta male quanto me quando dal punto di vista delle relazioni con i miei coetanei mi succede qualcosa di spiacevole e di brutto.
Le mie coetanee non hanno mai tenuto presente che accanto a me c'erano e ci sono una madre, un padre e anche degli zii che stavano e che stanno male per me e per come venivo e vengo trattata in determinate situazioni ed esperienze.



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