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25 luglio 2020

Il libro del Qohelet: spunti di riflessione

In un periodo storico-sociale complicato come questo,
questo libro della Bibbia ci richiama alla nostra fragilità 
ma al contempo ci permette di riflettere sul senso di ogni esistenza.

Il libro del Qohelet è formato da 12 capitoli. In queste ultime settimane, in alcuni momenti, ho avuto modo di ragionare su alcuni passi. 

Legenda prima di iniziare il post:
 
Dal momento che teologia non è un ambito di mia competenza, per poter comprendere bene questo libro mi sono fatta aiutare da alcune fonti.

- Riflessioni mie (laicissime).
-Citazioni dalla tesi di mio papà intitolata "Aspetti dell'antropologia di Qohelet".
-Citazioni dei commenti del vescovo Gianfranco Ravasi.

Consiglio la lettura integrale. Qui sono riportati soltanto alcuni frammenti del testo.
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Capitolo 1:

1Parole di Qohèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.

Il termine Qohelet, più che un nome proprio, è lo pseudonimo dietro il quale si nasconde l'autore stesso, che stupisce i suoi ascoltatori con l'ironia e l'allusione alla figura del grande re, per dare così autorevolezza al proprio lavoro.
(...) Il nome Qohelet è uno pseudonimo collegato alla radice ebraica qahal, che letteralmente significa convocare l'assemblea.

(...) Il libro conserva una perenne attualità per le domande che pone all'uomo di sempre e per la difficoltà di comprenderle da sempre. Infatti Qohelet è stato variamente interpretato o come sapiente pessimista che trova la vita priva di senso, oppure, al contrario come un'ottimista che, proprio perché vede la miseria dell'esistenza, invita a godere degli scarsi momenti di piacere che la vita concede.

3Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole?
4Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.

Il quarto versetto mi rimanda al sesto libro dell'Iliade omerica, dove le generazioni umane vengono paragonate alle foglie:"Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;/le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva/fiorente le nutre al tempo di primavera;/così le stirpe degli uomini: nasce una, l'altra dilegua."
La stessa immagine di caducità e di fugacità dell'esistenza umana compare anche in quella brevissima lirica di un Ungaretti soldato durante il primo conflitto mondiale: si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/le foglie. Quattro versi per una similitudine che mette a confronto la condizione dei soldati in trincea con le foglie degli alberi in autunno.

11Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito.


E qui, spontaneamente, ho pensato a Leopardi; più precisamente, a quell'idillio intitolato "La sera del dì di festa" e ad un passaggio relativo alla storia antica:
Or dov’è il suono/di que’ popoli antichi? or dov’è il grido/de’ nostri avi famosi, e il grande impero/di quella Roma, e l’armi, e il fragorio/che n’andò per la terra e l’oceano?/tutto è pace e silenzio, e tutto posa/il mondo, e più di lor non si ragiona. 
Allora... per gridare, gli antichi greci e gli antichi romani, non possono gridare più, visto che sono tutti quanti morti e sepolti. Però le loro opere architettoniche, filosofiche e letterarie rimangono a noi e tuttora le si studiano! Non è vero che più di lor non si ragiona. Certo, ricordiamo e possiamo ricordare"soltanto" i molti e grandi personaggi importanti politicamente e culturalmente che sono esistiti in epoca antica... 
Dei molti contadini, schiavi e artigiani esistiti in quel periodo storico sappiamo molto poco. Eppure, mi piace pensare che ognuno di loro, nonostante la povertà e l'analfabetismo, sia stato comunque "unico", con la propria storia personale, con il proprio carattere e la propria fatica. 

Capitolo 3:
1Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. 2C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. 3Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. 5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. 7Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. 9Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?

Potremmo parafrasare quanto ci dice qui la sapienza di Qohelet così: ciò che accade, accade in un dato momento storico e accade in un preciso momento dell'evoluzione della storia di una persona. Ma ogni accadimento ha anche un suo tempo,la sua occasione favorevole.

Tutte le cose possibili che può fare l'uomo, che sono esemplificate nelle 14 antitesi, sono le occupazioni che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino(...). Se questa esperienza umana è segnata dalla difficoltà del vivere è perché Dio ha posto nel cuore degli uomini l'ansia dell'eterno, un'ansia di globalità.
Dio ha posto nell'uomo il bisogno di strutturare il suo pensiero in un sistema compiuto, ma questo è impossibile,perciò l'uomo si troverà sempre a ragionare su dei frammenti, con la volontà e il desiderio intimo di creare un mosaico intero che non riuscirà mai a completare, e questo lo renderà sempre insoddisfatto, gli farà sentire i suoi limiti.

Capitolo 5:

17Ecco quello che ho concluso: è meglio mangiare e bere e godere dei beni in ogni fatica durata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà: è questa la sua sorte. 18Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni, ha anche facoltà di goderli e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche: anche questo è dono di Dio. 19Egli non penserà infatti molto ai giorni della sua vita, poiché Dio lo tiene occupato con la gioia del suo cuore.


Qohelet scopre che la ricompensa di tutte le fatiche consiste in quello che si ottiene lavorando, nella gioia che si può avere nel fare, anche se poi questa ricompensa non è tutta la gioia. (...) tutto è determinato da Dio; il fatto che un uomo sia contento di ciò che fa è un grande dono di Dio.

In questo passaggio mi è venuto naturale ripensare a tutto ciò che finora ho fatto con entusiasmo e con passione... In questi anni universitari sono state diverse le attività nelle quali mi sono messa in gioco volentieri. Non ho soltanto studiato e io non sono soltanto la mia media accademica.
In questi ultimi anni ho capito che mi sento veramente soddisfatta ogni volta che ascolto e che aiuto gli altri. 
Equivale a dire: provo felicità sia nei momenti in cui mi rendo utile che negli attimi in cui intuisco che la serenità altrui dipende un pochino anche da me. 


Capitolo 8:

6Infatti, per ogni cosa vi è tempo e giudizio e il male dell'uomo ricade gravemente su chi lo fa. 7Questi ignora che cosa accadrà; chi mai può indicargli come avverrà? 8Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della sua morte, né c'è scampo dalla lotta; l'iniquità non salva colui che la compie.

In greco, il "soffio vitale" è πνεύμα (=pneuma). Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale... Già questo io lo leggo come un "memento mori"... è a questo concetto che rimanda la corona del rosario che, durante il colloquio con Don Rodrigo, Padre Cristoforo stringe una corona di rosario con un teschio, che inevitabilmente rimanda alla morte, inevitabile per chiunque. 

Capitolo 9:

7Va', mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere.8In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.

9Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole. 10Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare.

11Ho visto anche sotto il sole che non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti. 12Infatti l'uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l'uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui.

(...) tutto è nelle mani di Dio e l'unica ineludibile certezza è la morte che, annullando le differenze tra gli uomini, rappresenta l'ultima parola sull'esistenza. 
C'è un invito a saper godere dei piccoli piaceri della vita: il cibo, l'eleganza, l'amore fedele per la propria sposa, nella consapevolezza che a nessuno è dato di sapere quando e come lo raggiungerà la sua ora, che incomberà sull'uomo all'improvviso come pesce preso nella rete o uccello raggiunto dal laccio.


Capitolo 11:

7Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole. 8Anche se vive l'uomo per molti anni
se li goda tutti, e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti: tutto ciò che accade è vanità.
9Sta' lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù. Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi. Sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio. 10Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore, perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.

7Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole: fin dall'antichità in Oriente era diffusa la convinzione che la luce fosse indipendente dal sole, come risulta anche nel primo capitolo della Genesi, dove Dio dapprima separa la luce dalle tenebre e solo in seguito crea il sole e la luna.

L'ottavo versetto di questo capitolo mi ha fatto pensare soprattutto al romanzo di Manzoni, quando nel 36° capitolo, Fra' Cristoforo rivolge ai due promessi un auspicio di fedeltà coniugale e anche un discorso sulle sofferenze della vita terrena. Il religioso in effetti, riferendosi alla prole di Renzo e Lucia, dice: "verranno in un mondo tristo, in tristi tempi, in mezzo ai superbi e ai provocatori...".
 Siamo nel lazzeretto di Milano, i due giovani sono entrambi guariti dalla peste, ma siamo in un punto in cui a Fra' Cristoforo non rimane molto da vivere, perché avverte i primi segni del male.
Comunque, mentre pronuncia questa frase, il padre dona ai due protagonisti del romanzo "il pane del perdono", quel pezzo di pane che aveva conservato per 30 anni, quel pezzo di pane che gli era stato donato dal fratello del nobiluomo che Lodovico/Fra' Cristoforo aveva ucciso in uno scontro. 
Forse non è necessario chissà cosa per dare un senso all'esistenza... se, per vivere bene, bastano la dignità, la condivisione, un progetto di vita concreto e la vicinanza e l'aiuto al prossimo...



20 luglio 2020

"Il ragazzo morto e le comete", G. Parise:

Negli ultimi giorni di marzo mi sono trovata sulla piattaforma "Panopto"
dei 
nostri corsi universitari un video della nostra docente di Storia dell'italiano letterario relativo a questo romanzo. 
Era un video breve, una registrazione di poco più di 15 minuti in cui la professoressa Zangrandi presentava questa prima opera di Parise, pubblicata da Neri Pozza nel 1951. 
Le altre sette video-lezioni erano invece inerenti con "I Sillabari". 
Questa no, perché secondo me costituiva un implicito invito a leggerlo e a rifletterci sopra.
A leggere e a ragionare sono riuscita benissimo mentre ero via la scorsa settimana, anche perché sul litorale veneziano non c'era proprio un clima da poter stare tanto a lungo in spiaggia. 
Sapete che vi dico?! Al diavolo quei luglio che, proprio nella settimana centrale, quando la mentalità comune dà per scontate le temperature molto alte, assomigliano a settembre!!
Anzi... al diavolo il 2020!!!

Parto dal giudizio di Montale.

O) IL GIUDIZIO DI MONTALE SU QUESTO ROMANZO:

"Siamo di fronte a una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definibili".

E io credo che Montale abbia ragione.

1) PUO' ESSERE CONSIDERATO UN ROMANZO NEOREALISTA?

Non è possibile definirlo tale, anche se alcuni tratti in comune ci sono.

 

NEOREALISMO


“IL RAGAZZO MORTO E LE COMETE” DI PARISE


Contenuti dei romanzi neorealisti: guerra, violenza e atrocità del nazi-fascismo, la Resistenza partigiana, la povertà soprattutto dei ceti popolari.


Contenuti: Il protagonista qui è un adolescente di 15 anni morto da poco, che viene ricordato continuamente nel corso del libro, come se fosse ancora presente.

Qui non c’è alcun riferimento al fascismo, alla Resistenza, alla liberazione, agli americani o alla politica dell’immediato dopoguerra.


 

Anni di collocazione delle narrazioni: 1943-1945

 

Anno e mese in cui sono collocati i ricordi: dicembre 1945

 

 

IN ENTRAMBI LA LINGUA E’ L’ITALIANO POPOLARE, CARATTERIZZATO DA SEMPLICITA’ SINTATTICA E LESSICALE, FENOMENI DI MIMESI DELLA LINGUA PARLATA, PERDITA TOTALE DI LETTERARIETA’ E AULICITA’.

 

 

C’E’ SOLTANTO UN ASPETTO IN COMUNE DAL PUNTO DI VISTA DEI CONTENUTI: LA POVERTA’ DEI CETI POPOLARI, MESSA BEN IN EVIDENZA NEI SUOI ASPETTI ALIMENTARI, IGIENICI ED EDILI.

 



2) HA ANCHE DEGLI ASPETTI IN COMUNE CON "IL QUARTIERE" DI PRATOLINI:

 

“IL QUARTIERE” DI PRATOLINI


“IL RAGAZZO MORTO E LE COMETE” DI PARISE


Contenuti: Vicende lavorative, relazionali, familiari, sentimentali del proletariato umile e povero di una periferia fiorentina.

In questo romanzo i personaggi sono tutti vivi e vegeti.

 


Contenuti: Il protagonista qui è un adolescente di 15 anni morto da poco, che viene ricordato continuamente nel corso del libro, come se fosse ancora presente.

Il protagonista, chiamato spesso "ragazzo di 15 anni", è un morto che parla, agisce, corre sui tetti, ama, prova attrazione per Edera. 

(Qualcosa di lui sopravvive anche fisicamente).


 

IN ENTRAMBI LA LINGUA E’ L’ITALIANO POPOLARE, CARATTERIZZATO DA SEMPLICITA’ SINTATTICA E LESSICALE, FENOMENI DI MIMESI DELLA LINGUA PARLATA, PERDITA TOTALE DI LETTERARIETA’ E AULICITA’.

(*)

 

 

MOLTO SPAZIO SI DA’ A PERSONAGGI GIOVANI O GIOVANISSIMI.

 

 

NEL ROMANZO DI PRATOLINI RISULTA CHIARO FIN DALLE PRIME RIGHE IL LUOGO: FIRENZE.

GIA’ NELLA PRIMA PAGINA L’AUTORE FORNISCE UNA LOCALIZZAZIONE ESATTA DEL QUARTIERE, CON TANTO DI NOMI DI VIE.

 

 

NELL’OPERA DI PARISE, SIAMO PROBABILMENTE DI FRONTE AD UNA VENEZIA MAI NOMINATA, FATTA DI CANALI, DI BARCHE, DI MELMA, DI SPORCIZIA  E DI STRADINE STRETTE.

 


(*) Però a mio avviso Pratolini è più chiaro nella sua semplicità. Da un certo punto di vista è come Calvino: ricorre a metafore e a similitudini per conferire alla sua prosa una certa concretezza nelle immagini.

Parise invece ha sempre avuto alcune espressioni poco comprensibili: ancora nel corso del primo capitolo, Squerloz, padre di Abramo, dice al ragazzo di 15 anni: “Hai gli occhi neri, lunghi, pieni di antichità”. Su “neri” ci capiamo. Ma "lunghi e pieni di antichità” che significa?


Ci terrei ora a presentarvi forma e contenuti di alcuni capitoli.

A) INCIPIT (CAP.1- "IL CORTILE"):

Questa è una sera d’inverno. Prima che il buio e il gelo arrivino nei cortili a tramontana per tutta la notte, Giorgio, Abramo e gli altri ragazzi accendono fuochi con foglie fradice, rami morti e carta raccattata nelle immondizie. 
Il fumo pieno di umori estivi e di erbe aromatiche cammina dentro i cunicoli delle fogne dove il canale s’insinua a trasportare erbe, gatti morti, piccoli involti dal contenuto roseo e informe, spellato dall’acqua.
A quest'ora si illuminano le finestre nella soffitta dove abita la famiglia di Abramo. Due grandi stanze dal pavimento di mattoni sono la casa di Abramo; una ha nel mezzo la tavola, ai ganci del soffitto -coperto di giornali e di manifesti, con molte macchie e disegni di umidità- sono appese le pentole di alluminio e la lampadina. L'abbaino è la finestra più grande della casa. Ora vede le stelle, ma a volte la pioggia e in certe notti le eclissi di luna. Nella stanza vi sono i tre letti di ferro spinti fin dove il tetto degrada, un armadio di lamiera, una poltrona di vimini, degli ombrellini da sole; e infine il grammofono a cilindri, l'indimenticabile macchina che non manda più suono ma che per un tempo infinito muove e fa girare rotelle lucenti nel buio.

E' inverno ed è sera. Giorgio, Abramo e gli altri ragazzi accendono fuochi nel cortile.
Si parla di una canale, si parla di fumo, di fogne e di assorbenti. E si descrive infine l'interno della casa di Abramo: due semplici stanze; la camera e una cucina che funge anche da sala da pranzo.


B) CAPITOLO 2: "FIORE".

Il tempo prevalente del romanzo è il presente
Questo capitolo però è un'eccezione, perché Fiore, il migliore amico del "ragazzo di 15 anni", assume soltanto in questo capitolo il ruolo di narratore e parla al passato. L'imperfetto e il passato prossimo sono i tempi dominanti del secondo capitolo.

Soltanto l'ultimo paragrafo è al presente:

Basta. La lapide bianca sulla tomba del mio amico ha dieci giorni di vita ed è in mezzo a tutte le altre con gli angeli, i busti di Gesù, o fatte a piramide acuta: è quasi addossata al muro del campo e sopra si vede scritto con la vernice fresca che è nato l'otto dicembre del millenovecentoventinove ed è morto il sei novembre del millenovecentoquarantacinque.
Essa mi fa l'effetto, è un bel fenomeno, mi fa l'effetto di una di quelle cose che si cominciano con grande entusiasmo e poi invece si abbandonano a metà e si lasciano in giro per la strada.
Ora nevica, l'inverno è al colmo, soffia vento freddo e lui non batte i denti; io fumo la mia pipetta seduto accanto alla stufa e se lascio andare sul fuoco la saliva che ho in bocca lo spengo. Questo so.


Fiore racconta le avventure con l'amico da poco scomparso (e notate che in questi due paragrafi che vi propongo prevale l'imperfetto):

Lui aveva quindici anni; mi diceva sempre che ero il suo più grande amico. Era così infatti; chi ci vedeva mai se non a braccetto insieme? A casa mia, in giro per le strade, al cinema, seduti sotto i monumenti con un gelo maledetto, in bicicletta uno sopra l'altro, dappertutto. Nessuno ci ha mai visti sulla bicicletta di mia madre? Nessuno? Peccato! Le biciclette da donna mancano del tubo trasversale e non ci si può andare che da soli; ma noi avevamo trovato il modo di viaggiare insieme: io guidavo mentre lui stava in equilibrio sul manubrio, pronto a saltare ad ogni cunetta. Andavamo per le strade vicino alla stazione, tutte una buca per le bombe che le avevano squassate e per le macerie che le  ingombravano. 
(...) 
Quando le ruote entravano in una buca o scavalcavano una pietra lui saltava su dal manubrio con un colpo di reni, restava qualche secondo in aria come un uccello, poi ripiombava sul manubrio appena in tempo per sedersi e riprendere a fischiare. Per frenare io aprivo le scarpe che avevano una settimana di vita, così ci eravamo abituati a non frenare e, saltati giù, uno da una parte e uno dall'altra, lasciavamo che la bicicletta andasse a fermarsi da sola contro il muro, contro un albero o contro la gente.

In comune con il ragazzo morto e con Parise stesso Fiore ha la situazione familiare: è figlio di una ragazza madre che poi si è sposata con un uomo che lo ha adottato dandogli quindi il cognome.
Nei "Sillabari", nel racconto "Carezza", traspare l'infanzia di Parise: un bambino senza nome e per sette anni cresciuto senza la figura paterna, si accorge che la madre ha iniziato una storia con un distinto signore: escono quasi ogni sera, mentre il bambino sta a casa a giocare con i nonni.

Finché un giorno, il distinto signore chiede la mano della ragazza madre. Il racconto termina con il gesto del futuro patrigno, che dà una carezza al bambino.

C) CAPITOLO 5: "LA FUGA":

Di questo capitolo c'è una metafora che mi ha colpita. Eccovela:

Compresi che Dio era una cometa apparsa nel cielo, bellissima e misteriosa, la più bella di tutte le comete; ma come tutte anch'essa aveva compiuto il suo giro, ci aveva illusi e si era spenta come una pietra, nel buio.

Dio è soltanto un miraggio?! Personalmente spererei di no!
E' un ebreo a pronunciare questa frase di fronte al ragazzo di 15 anni.
Ci sono circa 5 o 6 pagine di questo penultimo capitolo in cui quest'uomo ebreo narra le persecuzioni che lui e la famiglia hanno subito negli anni '30 e nei primi anni '40. 
Tuttavia, si parla di persecuzioni, di diritti negati, di deportazione, di fughe senza mai una volta fare ricorso a parole o ad espressioni propriamente storiche come: "Shoah", "camicie nere", "dittatura fascista", "campi di concentramento", "passaporti e documenti falsi".

Queste 5-6 pagine però, ci tengo a precisarlo, non bastano a definire "Il ragazzo morto" come 
un romanzo storico oppure come un romanzo di testimonianza sulla Shoah. Perché questa enorme tragedia non è sicuramente il tema principale del libro.

D) CAPITOLO 6: "LA RICERCA":

Antoine Zeno (altro caro amico del ragazzo di 15 anni) e Fiore ricordano, nella parte iniziale di questo capitolo, il ragazzo morto. E' Fiore a soffrire di più, dichiarando di sentirsi molto solo. Tuttavia, sebbene il loro amico sia morto da ormai un mese, Fiore si ritiene convinto di averlo visto in giro per i quartieri della città. Inizialmente Antoine Zeno non lo prende sul serio ma poi, decide di accompagnarlo per andare alla ricerca della presenza fantasma del loro amico. I due ragazzi lo cercano dapprima nei pressi di una cava di lignite, poi al lungomare ("Desiderava voler vedere il mare", dice Fiore. Inconsapevolmente, Parise pare aver anticipato di alcuni anni l'Antoine Doinel dei Quattrocento colpi).
Ed è proprio all'interno di un ex bunker tedesco che a Fiore e ad Antoine Zeno appare il morto.

Come termina questo particolare romanzo?

"Basta, è ora che me ne vada"- dice il ragazzo stringendosi nella giacca. "Ah Ah! Fiore, in fondo non è poi una tragedia, succede sempre così"-e si stende sul capo il fazzoletto inzuppato- "sai cosa succederà a noi? Io andrò per i fatti miei, come hanno fatto tanti altri prima di me, e tu troverai un altro amico. Certo che lo troverai, e questa volta non morirà così presto. Ciao Fiore".

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Riflessioni sul significato del titolo:

-Il significato del titolo per Silvio Perrella:

Praticamente, Perrella sostiene, nel suo commento critico, che Parise avrebbe scritto questo romanzo per "sotterrare se stesso". Mi spiego.
Il ragazzo morto di questo libro ha la stessa data di nascita del suo autore: 8/12/1929.
Parise avrebbe voluto seppellire il figlio di una ragazza madre molto apprensiva.

"Dalle spoglie di questo ragazzo è nato un giovane uomo che scrive", dice Perrella.

E le comete? Le comete sono "Quello che Parise ha visto scrivendo. Le comete sono la letteratura, i libri già scritti, quelli da scrivere ancora."

-Il significato del titolo per me:

Condivido ciò che Perrella pensa a proposito delle comete. La cometa qui non rappresenta la concezione che l'ebreo del quinto capitolo ha di Dio, quanto piuttosto le idee di scrittura, la letteratura passata, presente e futura.

Per quel che riguarda quel "ragazzo morto", io la vedo un po' diversamente.
Parise aveva 21 anni quando ha scritto questo libro, 22 quando è stato pubblicato.
Il "ragazzo morto" secondo me è il Parise ventiduenne con "la morte dentro", con un dolore quasi contagioso per il lettore attento. Non nascondo che in effetti, un paio di volte sono stata sull'orlo del pianto quando ho letto questo libro.
Parise non ha sofferto soltanto perché era il figlio di una ragazza madre sedotta e abbandonata.
Il Parise bambino ha vissuto la dittatura, il Parise adolescente la guerra, il Parise giovane universitario cerca, a mio avviso, di scrivere questo libro con un protagonista defunto che porta la sua stessa data di nascita non tanto per cancellare o per seppellire un passato difficile (il passato non è una lavagna di ardesia!!) quanto piuttosto per curarsi, per dire a se stesso più o meno ciò che il ragazzo morto, a fine libro, dice a Fiore:

Io andrò per i fatti miei, come hanno fatto tanti altri prima di me, e tu troverai un altro amico.

Il che varrebbe a dire: "questa prima parte di vita è terminata. Tu stesso, ora che sei cresciuto, dovrai trovare la forza per andare avanti senza più rimanere "impantanato" nei ricordi di morte, di drammi e di distruzioni. Abbi fiducia nelle tue risorse. Cerca di guardare avanti e al di là dell'indifferenza e dei giudizi cattivi della gente."
Ora le ragazze madri vengono sostenute dagli ammortizzatori sociali. Non le si può definire proprio "sole", anche se non manca mai chi pronuncia nei loro confronti dei commenti e dei giudizi pesanti.
Nel secolo scorso invece, anche e soprattutto in un Veneto contadino, bigotto e "giudicone", la figura della ragazza-madre destava scandalo.
Quella parte iniziale del titolo: "Il ragazzo morto" vuol forse alludere ad un pensiero che sarà ricorso più volte nella mente di Parise: "Io sono stato male. Per la nostra situazione io e mia mamma siamo stati emarginati. A parte il mio patrigno, la gente non è stata solidale con noi".
Forse quel "morto", che in italiano è sia aggettivo che participio passato, vuole anche fare un riferimento alla sofferenza causata dall'indifferenza altrui.


Sì ma... in generale, la vita di Goffredo Parise, non è stata facile. Pensate che a 35 anni stava già divorziando.



7 luglio 2020

Ciao zia Carmela


99 anni. Due figli. E molti sani valori.

Cara zia Carmela,
rimarrai sempre nel mio cuore. 
Come rimarrà sempre nel mio cuore la tua travagliata storia di vita.
Eri già vedova a 22 anni e con due figli a carico, dopo appena tre anni di matrimonio.
Tuo fratello Marcello, ad appena 21 anni, per ordine del duce era partito per la Russia. 
Tuttora risulta disperso dalle parti di Tambov. Di lui non hai mai più saputo nulla. 
Non abbiamo ma più saputo nulla.
La tua vita non è stata affatto semplice, ma, da parte di mia nonna, di mia zia e di mia mamma, mi è sempre stato detto che eri una ragazza molto forte e molto determinata.
Non era nella tua indole deprimerti. 
E in effetti, hai sempre affrontato tutte le "mazzate" e i problemi della vita a testa alta.
Per diversi anni venivamo a trovarti nel tuo piccolo appartamento a Sona in cui sei vissuta per molto tempo.
A dir la verità, negli ultimi anni avevo paura che tu potessi farti male salendo e scendendo quotidianamente quelle due rampe di scale che ti portavano all'ingresso della tua accogliente dimora. 
Hai sempre avuto una grande cura del luogo in cui vivevi in compagnia di un piccolo canarino in gabbia che io accarezzavo con le dita di una mano.
Eri dolce con me. Ogni volta che venivo a farti visita mi regalavi sempre qualcosa di buono: un sacchetto di caramelle o di cioccolatini, qualche vasetto di yogurt o qualche frutto di stagione.
Mi ricordo bene quando, in una lontana, fredda e soleggiata giornata di gennaio, io, mia mamma e mia zia, dopo una camminata in collina, ci siamo fermate da te e tu mi hai regalato un bel bambolotto che ha i tratti degli Indios d'America. Ce l'ho ancora. Non ci gioco più, naturalmente, perché non ho più 8 anni. Però lo tengo, con i suoi bei vestitini, in un armadio della soffitta.
Nel corso degli anni, ti ho raccontato alcuni episodi delle scuole medie, poi del liceo, poi di quello che con piacere ho sempre studiato all'Università.
A proposito di Università... sai che per me è quasi ora di terminare anche il corso magistrale? 
Dodici esami sostenuti e registrati in poco più di un anno e mezzo; otto di questi, tra cui quello di venerdì, superati con 30.
Se fossi ancora viva saresti felice per me e saresti fiera di me!
Fra pochi giorni sarà il mio secondo anniversario di laurea triennale e quest'anno sarò sul lungomare di Cavallino Treporti quando mi ricorderò le emozioni e la stanchezza che avevo provato il 17 luglio 2018. 
Non ti dimenticherò mai. 
Non dimenticherò mai la tua gentilezza e la tua grande forza interiore.
Mi ascoltavi, ti parlavo delle mie amicizie e dei ragazzi che frequentavo.
Dicevi che ero bella, dicevi che merito un principe altrettanto bello e intelligente come me. 
Sai, alla fine i ragazzi mi vogliono bene. Se potessi ancora andare a trovarti, ti direi che, in tempo di pandemia e di mascherine, la bellezza di un ragazzo la si scorge comunque, attraverso la luminosità degli occhi. 
Negli ultimi mesi eri in una specie di ricovero per anziani alla periferia di Mestre, vicina ad entrambi i tuoi figli e ai tuoi nipoti. Ti ho vista per l'ultima volta intorno al 20 gennaio. 
Eri a letto. 
Eri debole, stanca e pallida, ma anche in quel momento sul tuo viso si intravedeva una scintilla di dignità e di determinazione.
Io però preferisco ricordare i tempi in cui eri una signora anziana arzilla e ospitale. 
Custodirò i ricordi di quelle visite a Sona come tengo stretti tra le mani i piccoli e delicati fiori di campo che raccolgo nelle giornate di primavera.
Grazie, zia Carmela, per aver condiviso una parte della tua vita con la mia.
Sei stata una figura importante per tutti noi.
Ho pianto non appena ho saputo che non ti avrei mai più rivista.
Però dal Paradiso cerca di perdonarmi se in questi giorni non riesco ad essere del tutto triste, ma te ne sei andata in un momento in cui il mio rendimento universitario va di bene in meglio e in cui mi si stanno aprendo delle opportunità belle e concrete di amicizia, di condivisione e di servizio.
Mi dispiace solo non aver potuto salutarti e farti una carezza un'altra volta, per un'ultima volta.
Prega per me dal cielo.
La tua personalità e il tuo modo di affrontare la vita mi ricordano alcune frasi delle ultime pagine del romanzo "Il mio Carso"  dello scrittore triestino Slataper. 
Scipio Slataper, proprio come te, era figlio di contadini. Anche per Slataper, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, l'idea di vita era quella di reagire al dolore amando e lavorando.

"Sei inerte. Sei davanti a un mistero che ti sarà impenetrabile per sempre. (...) Ma lavorerai. Non sai perché l'erba cresce e il mondo esista. Non sai se il mondo esiste o no. Non sai cosa tu sei. Può essere che l'universo sia nato da una maledizione. Il tuo dannato lavoro sarà, forse, eternamente vano. Ma lavorerai, come se tu fossi l'ultimo dei rimasti. Dopo - non so se vi sarà riposo. Ma ti prometto che qui non avrai riposo. Qui lavorerai."


"Il male sussulta di tratto in tratto in me anche nel sonno, nel torpore e nella stanchezza fisica. Io credo anche dopo la morte."

"Io ho bisogno d'amare come tutti gli uomini. Io voglio la vita piena, completa, col suo fango e i suoi fiori."



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Sto per piangere anche adesso, in realtà. In questi giorni, quando in casa si nomina la zia Carmela, mi viene il pianto in gola. Ma più per commozione, non per disperazione. 
Da alcuni mesi a questa parte stava veramente male, poverina.
Vi rendete conto che la generazione degli anni '20 e '30 del secolo scorso sta scomparendo?!
Stanno pian piano scomparendo, dopo una vita lunga e di solito anche "tribolata", le ex-ragazze del secolo scorso, le vere femministe, le vere donne che dentro di loro custodivano molti bei sentimenti e molti validi ideali di vita, come ad esempio il decoro nel vestire, la fede in Dio, l'amore per la casa, per i figli e per la famiglia, l'onestà nel lavoro e la sincerità nei rapporti con il prossimo.
E questo dispiace.
Erano loro le vere femministe, le vere donne che rispettavano se stesse e che portavano rispetto agli altri. 
Altro che le aggressive abortiste e nudiste di adesso che almeno io non condivido per niente!