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8 gennaio 2014

L' "Adelchi": tragedia manzoniana di grande efficacia


Adelchi è una tragedia scritta nel 1820 da Alessandro Manzoni e pubblicata per la prima volta nell'ottobre del 1822.
Quest'opera, ambientata nel periodo dell'Alto Medioevo, narra le vicende di Adelchi, protagonista della vicenda e figlio di Desiderio, ultimo re dei Longobardi.



Nell'atto I, Ermengarda, sorella di Adelchi e figlia di Desiderio, ritorna in patria dopo essere stata ripudiata da Carlo Magno. Il ripudio suscita l'indignazione di Desiderio, che vorrebbe vendicarsi costringendo il papa a incoronare re i figli di Carlomanno, fratello di Carlo. Adelchi tenta invano di dissuaderlo. Quest'ultimo infatti, vorrebbe cercare di stabilire un accordo con il papa.
Poco tempo dopo, giunge un messaggero di Carlo Magno alla corte di Desiderio che invita il re longobardo a restituire al pontefice alcune terre che gli erano state sottratte in precedenza.
Ma Desiderio rifiuta e Carlo gli dichiara guerra.
Nel II atto, il papa invita Carlo Magno a valicare le Alpi per muovere guerra ai Longobardi. Ad un tratto, il diacono Martino, un inviato del vescovo di Ravenna, scopre un valico che consente all'esercito franco di oltrepassare le Alpi e di colpire i nemici alle spalle. Il diacono è uno strumento della Provvidenza.
Nel III atto, i Franchi assalgono il campo del territorio longobardo e Adelchi confida all'amico Anfrido i propri tormenti: elogia le truppe che lo sostengono in questa impresa contro Carlo ma al contempo prova un forte senso di amarezza nei confronti di quei nobili che si comportano in modo sleale e ipocrita con Desiderio; nutre un sincero affetto nei confronti della sorella e per amore di essa vorrebbe realizzare i suoi desideri di vendetta contro Carlo ma è anche trattenuto da un sentimento di pietà nei confronti dei Franchi; sente inoltre politicamente ingiusta la guerra contro il papa, odia la guerra fine a se stessa, aspira alla gloria ma sa di non poterla ottenere dal momento che fa parte infatti di una stirpe di oppressori ostili sia al papa che a Dio. Infatti egli, per dovere filiale e per necessità storica deve recitare il ruolo di oppressore malvolentieri.
Riporto alcune frasi significative pronunciate da Adelchi: "La gloria? il mio destino è di agognarla e di morire senza averla gustata"/ "Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda alte e nobili cosee la fortuna mi condanna ad inique"/ "Qual guerra e qual nemico! Ancor ruine sopra ruine ammucchierem: l'antica nostr'arte è questa."
E' possibile considerare Adelchi un eroe romantico che comprende la dura legge della violenza secondo la quale non c'è alternativa tra il far un torto o subirlo e che, tormentato da profonde contraddizioni interiori, tende a una meta irraggiungibile (raggiungere la gloria terrena in modo onorevole).
L'atto IV, ambientato nel convento di Brescia, è concentrato sulla figura di Ermengarda. 
Ermengarda, quando viene informata dell'intenzione di Carlo Magno di risposarsi, inizia a delirare e il delirio la porterà alla morte.
L'atto IV è stupendo, il mio preferito!  Non intendo affermare che leggere una parte relativa al delirio e alla morte di un personaggio sia esaltante... mi riferisco al mio impatto emotivo, nel senso che ho quasi pianto. 
A volte Manzoni sa essere molto efficace e coinvolgente. Ermengarda è descritta come una donna passionale, romantica, disperata, dolce e fragile.
 Il coro dell'atto quarto inizia così:

 « Sparsa le trecce morbide                                  
su l’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo

sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime
s'innalza una preghiera:
calata in su la gelida 
fronte una man leggiera
su la pupilla cerula
stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia
mente i terrestri ardori;
leva all'Eterno un candido
pensier d'offerta, e muori:
fuor della vita e il termine
del lungo tuo martir.»

La pia Ermengarda giace con le morbide trecce sparse sul petto affannato, con le mani abbandonate e il volto pallido, madido di sudore. Cerca il cielo con sguardo vagante. Si interrompe il pianto delle suore e si innalza una preghiera collettiva. 
Bellissimo il verso dodici; fa pensare a più di una interpretazione: la "man leggiera" potrebbe essere o la mano di una suora che chiude gli occhi ad Ermengarda, appena deceduta, oppure forse anche la mano invisibile di Dio che stende un velo di oscurità sui suoi occhi azzurri. L'affannato animo di Ermengarda poi è purificato dalle passioni terrene. Nella morte, la giovane donna trova la fine delle sue sofferenze.

Nel coro dell'atto IV vengono poi menzionati e descritti gli "irrevocati dì" , ovvero i giorni felici e destinati a non tornare mai più, ricordati da Ermengarda durante il periodo di reclusione nel monastero. Il passato, per Ermengarda, era caratterizzato dall'amore per Carlo, dalle osservazioni delle battute di caccia compiute dall'alto di un balcone del palazzo reale, dal dolcissimo ricordo delle acque termali presso la reggia di Aquisgrana.

Nel coro dell'Atto IV è importante il tema del ricordo

Nell'atto V infine, ambientato a Verona, Adelchi, dopo aver saputo della caduta di Pavia, si mostra incerto se morire affrontando i Franchi o se recarsi a Bisanzio per una controffensiva.
Intanto nel campo nemico, Desiderio, fatto prigioniero, chiede a Carlo di risparmiare la vita del figlio Adelchi. Intanto giunge la notizia che le truppe longobarde sono state sconfitte e che Adelchi è gravemente ferito. Adelchi, poco prima di morire, affida la propria anima a Dio. 

"O re dei re, tradito da un tuo fedel, dagli altri abbandonato, vengo alla pace tua, l'anima stanca accogli."












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