Dobbiamo festeggiare con
un banchetto il suo ritorno,
perché questo mio figlio
era per me come morto e ora è tornato in vita,
era perduto e ora l'ho
ritrovato.
(Lc 15, 23-24)
... Dopo una notte tormentata e dopo il sorgere del sole, l'Innominato decide andare dal cardinal Federigo Borromeo.
Salto il 22° capitolo, dato che si tratta soprattutto di una digressione relativa alla personalità del cardinale e alla sua storia passata.
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
(Promessi sposi, cap. XXIII°)
Queste prime due righe e mezzo probabilmente non vi sembreranno meritare una spiegazione approfondita. "E' tutto chiarissimo", starete pensando.
In realtà dovrei fare un parallelismo con il capitolo VIII° del romanzo.
Nel caso in cui vi capitasse di prendere in prestito oppure addirittura di acquistare l'edizione quarantana dei Promessi Sposi dotata di illustrazioni realizzate dall'incisore sabaudo Francesco Gonin, incaricato peraltro da Alessandro, vi accorgereste anche voi di questa vignetta, che si trova a sinistra della pagina:
Il personaggio dell'illustrazione è proprio il cardinal Federigo, assorto nella lettura.
Al capitolo VIII°, si trova invece l'immagine di Don Abbondio:
Carneade... Chi era costui? Questo si domanda il curato di Pescarenico, mentre non immagina minimamente che poco dopo Renzo e Lucia gli compariranno davanti con Tonio e Gervaso, in modo tale da poter attuare il piano di Agnese del matrimonio a sorpresa.
Notate che è seduto sulla lettera "C".
Don Abbondio è ritratto di profilo con la mano sulla guancia, Federigo è invece frontale e con una mano sulla fronte chinata verso il libro.
E' facile per i lettori immaginare Federigo seduto davanti a una scrivania o a un tavolo.
Di Don Abbondio, l'autore dice che era seduto su un "seggiolone".
C'è soltanto una cosa che li accomuna: entrambi leggono.
Però che cosa?!
Don Abbondio legge un libricciolo, Federigo sta studiando, come è solito fare nei momenti di tempo libero.
Ricordate che il verbo studiare deriva dal latino studeo, studere e quindi "applicarsi a, dedicarsi con zelo a"... alla cultura! L'arcivescovo sta leggendo forse un trattato di teologia o di filosofia morale.
Il termine libricciolo sta ad indicare un libro di poca importanza.
Modestamente: sono uscita con 8 dal Liceo Classico, mi sono laureata in Lettere Classiche con 105 ma non so se Carneade fosse stato filosofo o storico o letterato... Non so nemmeno se fosse stato greco o latino!! Di Carneade non me ne frega una mazza in effetti...
Gli autori rilevanti e significativi sono ben altri.
Ad ogni modo, la versione online del romanzo illustrata da Gonin la trovate anche a questo link:
https://it.wikisource.org/wiki/I_promessi_sposi_(1840)/
Il cappellano annuncia a Borromeo la visita dell'Innominato.
“Lui!” disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: “venga! venga subito!”
“Ma...” replicò il cappellano, senza moversi: “vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso...”
“E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?”
“Ma...” insistette il cappellano: “noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però, quando viene il caso, mi pare che sia un dovere... Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro...”
“E che hanno fatto?” interruppe il cardinale.
“Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato...”
“Oh, che disciplina è codesta,” interruppe ancora sorridendo Federigo, “che i soldati esortino il generale ad aver paura?” Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: “san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.”
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)
Ho sottolineato con un viso animato e interruppe ancora sorridendo.
Un viso animato è un viso che risplende di gioia, un viso che reagisce a una "scossa del cuore". Una scossa provocata da qualcosa di bellissimo che si vede o si sente.
E ho collegato il sorriso di Federigo alla tematica dell'alba.
In latino il verbo sorgere è il deponente orior, da cui le espressioni oritur risus, "nasce un sorriso", e gli ablativi assoluti orta luce, ovvero, "al mattino" e orto sole "spuntato il sole".
E' vero, è già giunta l'alba di un nuovo giorno.
Ma, se per l'Innominato, questa alba è anche interiore, dal momento che da quella mattinata egli deciderà di cambiare completamente il proprio stile di vita, deciderà di farsi conquistare dalla luce del bene, per Federigo quest'alba sarà memorabile, dal momento che le lacrime e il tormento di questo vero convertito gli toccheranno l'anima.
Ecco dunque che un'ordinaria mattinata di tranquillità e di studio diviene lo sfondo temporale di una gioia inaudita: il criminale del secolo che giunge, contrito e affranto, alle porte della sede di un cardinale.
Federigo si richiama all'esempio di San Carlo, suo cugino.
Nel capitolo precedente in effetti si era detto che: Federigo fanciullo e giovinetto aveva cercato di conformarsi al contegno e al pensiero di un tal superiore.
Questo suggerisce la maestà morale del cardinale che sta per incontrare l'Innominato.
Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)
Con le braccia aperte corrisponde al latino aliquem in sinu et complexu recipere.
("abbracciare qualcuno forte e tenerselo ben stretto al cuore". No. Su nessun vocabolario si trova qualcosa del genere accanto ad un'espressione. Solo io lo scrivo, io che a volte interpreto un po' liberamente questa lingua! Accanto a questa frase latina si trova solo la traduzione: "a braccia aperte" ).
In questa scena, l'Innominato è ancora inquieto, anche se si sta piegando alla mitezza.
Del cardinale invece si mettono in luce i pensieri contemplativi e la purezza.
Certo, nell'Innominato c'è ancora un moto d'orgoglio. Pentito, sottomesso e miserabile formano un climax ascendente.
Luigi Russo, nell'analisi di questo passo, osserva che: La descrizione dello stato d'animo dell'Innominato procede per coppie di sostantivi o di azioni: desiderio e speranza confusa, stizza e vergogna, confessarsi in colpa e implorare un uomo.
Altro elemento, utile nella mia ricerca degli oggetti: la semplicità della porpora.
Con questo si allude alla veste del cardinale, bella sì, maestosa, ma indossata da un uomo semplice e umile.
Nel primo capitolo trovate pezze di porpora.
Le pezze non sono oggetti reali dal momento che sono inserite in una similitudine.
La luce del sole già scomparso si riflette sui massi del paesaggio, come delle inuguali pezze di porpora.
E' Alessandro narratore che ammira questo suggestivo quadretto della campagna lombarda, come omaggio ai suoi luoghi di gioventù. Don Abbondio non si accorge di nulla. Don Abbondio è un abitudinario come Kant, nel senso che fa sempre la stessa passeggiata alla stessa ora e negli stessi luoghi. Non coglie più, o forse non è mai stato in grado di cogliere, la bellezza del paesaggio.
“oh!” disse: “che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”
“Rimprovero!” esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
“Certo, m’è un rimprovero,” riprese questo, “ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.”
“Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?”
“E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi.”
L’Innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. “E che?” riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: “voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”
“Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.”
“Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo,” rispose pacatamente il cardinale.
“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”
“Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?”
“Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?”
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: “cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. (...)
(Promessi sposi, cap. XXIII°)
Addirittura la visita dell'Innominato è un motivo di rimprovero per Borromeo!
Borromeo sembra qui il padre misericordioso della parabola di Gesù narrata nel Vangelo di Luca:
nonostante il figlio che ha consumato tutta la parte di eredità con le prostitute sia ancora lontano dalla porta di casa, egli gli corre incontro e lo abbraccia.
Borromeo inoltre è pacato, è una pacatezza questa che invita l'Innominato a confidarsi sempre più, a proseguire quel dialogo.
Non dovete vedere questo incontro come se fosse un colloquio tra un religioso consacrato e un peccatore, bensì come uno scambio verbale tra due uomini, con tutta la loro umanità di creature fragili e assetate di Infinito.
“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?” è forse una delle esclamazioni più drammatiche di tutto il romanzo.
Due capitoli prima, lo stesso Innominato considerava Dio come l'illusoria soluzione di salvezza dei deboli. Ora invece, il debole è lui e si sente talmente debole che teme di non poter mai arrivare a vederlo e a sentirlo.
Con questa esclamazione, egli ammette a se stesso di essere stato lontano anni luce da Dio, per gran parte della sua vita.
Tenete presente che il lettore intuisce che l'Innominato è più o meno coetaneo di Fra' Cristoforo.
Al momento della conversione, l'Innominato ha circa 59 anni, non 19!
Questo lo intuiamo nel punto in cui Alessandro inserisce, a fine cap. XIX°, una breve descrizione del suo aspetto fisico.
La sua giovinezza e gran parte della sua adultità se ne sono andate... se ne sono andate, prive di azioni positive ed edificanti.
Non è mai troppo tardi per convertirsi a nuova vita, anche se credo che, a 59 anni, una vita di nefandezze e di delitti pesi parecchio sulla coscienza.
L'Innominato cambia vita, e questo è indubbiamente un bene, ma il passato non si cancella mai.
Un passato come il suo è motivo di vergogna ma anche incentivo a riparare torti e a commettere azioni oneste e giuste.
La vita di un diciannovenne può comunque essere contrassegnata o segnata dal male.
Non certamente da una catena di delitti ma magari soprattutto dal male patito... patito per colpa di adulti o insensibili o inconsistenti o superficiali o tutte e tre le cose insieme.
Diamo dei valori a questi diciannovenni che fanno tenerezza! Sosteniamoli nella loro formazione umana innanzitutto! (Potrebbero essere i miei fratellini! Perché io non ho tanta più vita di loro...)
Eviteremmo così la loro futura infelicità!
Io sono più o meno come loro. Come loro mi sto costruendo, con impegno e fatica, un futuro.
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.
“Dio grande e buono!” esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio!” Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’Innominato.
“No!” gridò questo, “no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.”
“Lasciate,” disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, “lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.”
“È troppo!” disse, singhiozzando, l’Innominato. “Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete... con chi!”
“Lasciamo le novantanove pecorelle,” rispose il cardinale: “sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto.” Così dicendo, stese le braccia al collo dell’Innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)
Molto umano, questo pianto dell'Innominato. E' proprio il tipico pianto liberatorio.
“Dio grande e buono!” Ecco. Questa esclamazione dell'arcivescovo non è che mi piaccia poi troppo... Con tutto quello che ne segue in quello stesso discorso tra virgolette: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio!”
Cioè, che cavolo di bisogno hai di fare l'oratore, che bisogno hai di fare della retorica apostrofando Dio Padre quando di fronte a te c'è un peccatore che piange e che avrebbe un gran bisogno di una carezza, di un abbraccio, di ulteriori parole che possano stimolare e incentivare i suoi propositi di bene?
Poi è vero che l'abbraccio glielo dà ed è vero che l'Innominato se ne ritiene indegno, ma... perché non darglielo subito, al primo singhiozzo?
Nemmeno questa vignetta mi piace!
Perché Alessandro non ha detto a Gonin di disegnare l'abbraccio tra i due personaggi, anziché quelle mani da retore di Federigo rivolte al cielo?!
Una bella trovata è stata invece quella di inserire il riferimento alle novantanove pecorelle.
Anche questa parabola si trova nel Vangelo di Luca. Cito i versetti:
Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
(Lc 15, 3-7)
L’Innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”
“È un saggio,” disse Federigo, “che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!”
“Me sventurato!” esclamò il signore, “quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.”
Federigo si mise in attenzione; e l’Innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello...
(Promessi Sposi, cap. XXIII°)
Anche qui... erano veramente necessarie le esclamazioni dell'Innominato: “Dio veramente grande! Dio veramente buono!"?
Dice Luigi Russo di questo passo: Sono queste parole troppo piccole per la grandezza dell'avvenimento e per la grandezza dell'uomo stesso che le pronunzia. E' questo uno dei momenti ineffabili, tradotto un po' pedestremente: la preoccupazione edificatoria raffredda le parole.
"(...) io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso (...)"
Questa parte di discorso invece mi ricorda alcuni versi del salmo 50, composto da re Davide.
Egli fa scrivere: Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di Te, contro Te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto, perciò sei giusto quando parli, retto nel Tuo giudizio.
Allora, la prof. Bonato, cioè mia mamma, non arriva mai a spiegare i contenuti dei salmi della Bibbia.
Affronta San Paolo, affronta la Genesi, affronta parti dell'Esodo, ai "primini" spiega le forme di religiosità preistorica per passare poi ad alcuni testi di Vangeli (la sua tesi di Magistero in Scienze Religiose era sul tema del banchetto nel Vangelo di Luca) ma mai i salmi.
Comunque, per quale motivo Davide si considerava così peccatore? Era re d'Israele e un giorno, passeggiando, aveva visto Betsabea, giovane donna, fare il bagno.
L'aveva desiderata, pur sapendo benissimo che era sposata con Uria l'Ittita, uno dei suoi soldati.
Non passa molto tempo, e Betsabea rimane incinta di re Davide, mentre il marito si trova in guerra.
A seguito di questo evento, per poter sposarsi, Davide ordina di mettere Uria in prima fila nello schieramento dell'esercito. Questo inevitabilmente causa la morte del soldato.
In seguito, il profeta Nathan giunge da re Davide per rimproverarlo.
Solo allora Davide si pente. E il figlio che Betsabea partorisce nasce morto.
Un dettaglio rilevante: Davide e Betsabea divengono poi i genitori del perspicace Salomone.
Ad ogni modo, concludo la mia rassegna di post sulla conversione dell'Innominato: egli manifesta di fronte a Federigo Borromeo l'intenzione di liberare Lucia.
Il cardinale allora fa chiamare Don Abbondio che, accompagnato da una donna di Pescarenico, moglie di un sarto (entrambi "innominati" anche loro, cioè privi di nome proprio), sale con l'Innominato al castello.
Notare che il mediocre e pavido curato di Pescarenico nutre continuamente dei dubbi sulla conversione dell'Innominato.
Nel capitolo successivo, una Lucia pallida e stremata dal digiuno e dal terrore, esce dal castello.
Per alcuni giorni rimane nella casa della famiglia della moglie del sarto, poi verrà affidata ad una frivola e superficiale Donna Prassede.