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12 ottobre 2018

La maternità nei Promessi Sposi:


Ho riletto il romanzo in quest'ultimo periodo, visto che devo prepararlo per un esame.
Ho notato che in quelle pagine il tema della maternità compare più volte e assume, a seconda del contesto nel quale è incasellato, o un afflato dolce e struggente, o un realismo abbastanza crudo, o una sfumatura di tenerezza.
Faccio una cosa molto strana, visto che di indole sono anche un po' matta: analizzo gli episodi relativi a questo argomento partendo da uno degli ultimi capitoli per arrivare quasi all'inizio della storia. 

CAPITOLO 34:


Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. 
Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. 
E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

Nel trentaquattresimo capitolo del romanzo manzoniano, Renzo giunge in una Milano devastata dalla miseria e dalla peste per cercare Lucia, con la speranza di poterla ritrovare sana e viva.
Riassumo brevemente ciò che è accaduto nel capitolo precedente, giusto perché abbiate un po' di contestualizzazione: Don Rodrigo ritorna a casa da una festa nella quale, scherzosamente, ha recitato un elogio funebre dedicato al cugino Conte Attilio, morto due giorni prima (però, che bene che gli voleva!), scende dalla carrozza, si fa accompagnare dal Griso (il suo bravo più fedele) in camera e già, durante la notte, avverte i sintomi della peste. Dopo un sonno molto agitato, scopre di avere già qualche bubbone. Per questo vorrebbe che il Griso chiamasse un chirurgo.
Proprio in questo frangente, il bandito al suo servizio si rivela traditore e deludente: invece di portare un chirurgo, egli ritorna al palazzotto di Don Rodrigo affiancato da due monatti che trasportano il suo padrone nel lazzeretto.
Il Griso si impadronisce di una cospicua parte di denaro di Don Rodrigo ma...il giorno successivo si ammala e muore dello stesso male. (Manzoni condanna l'avidità e la disonestà. E nutre una profonda ripugnanza verso il Griso).
Nel capitolo 34, l'autore riprende la vicenda di Renzo il quale, dopo essere rimasto per più di un anno e mezzo nella Repubblica di Venezia dal cugino Bortolo, ritorna a Pescarenico dove regnano morte e devastazione.
Per una sera, si ferma a cena da un amico di infanzia rimasto completamente solo al mondo perché l'epidemia di peste bubbonica gli ha sterminato la famiglia.
Nel suo paese natale non trova né Lucia né Agnese. Chiede notizie di loro a un don Abbondio piuttosto disinformato e ancor più pavido dopo essere sopravvissuto al "gran flagello".

Giunto nuovamente a Milano, i suoi occhi osservano un oggetto singolare di pietà.
Il giovane protagonista vede infatti, sul varco della porta di una casa, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa.
Avanzata ma non trascorsa. 
Provate a ipotizzare l'età anagrafica della signora. Io dico intorno ai 38 anni, periodo della vita in cui si è ancora giovani ma non troppo. 
E' il periodo della vita in cui può ancora esserci in una fisionomia umana, maschile o femminile, un bel volto e un corpo slanciato e forte. Però non è strano che verso i 40 anni compaiano i primi capelli bianchi. 
Non è affatto la terza età quella di questa donna; ma è il transito dalla giovinezza alla maturità adulta, fisica e mentale. Poi è verissimo anche che esistono degli adolescenti e alcuni ventenni che ragionano molto meglio dei "nearly 40", come li chiamo io, ma questa è una faccenda poco inerente al testo che sto analizzando e interpretando.
Questa donna è descritta come bella ma languida: qui il termine passione è strettamente legato ad uno stato d'animo di dolore. Bellezza molle e maestosa significa sostanzialmente espressione del viso dolce, grande nella sua dignità di sopportazione di una tragedia immane e non-naturale: la morte di una figlia. La signora non piange, anche se credo che Alessandro (ormai ho una tale familiarità con gli autori della letteratura italiana che mi capita di chiamarli per nome), quando scrivesse di lei, avesse immaginato una creatura femminile con gli occhi un po' arrossati e un po' umidi.
"(...) che brilla nel sangue lombardo". Questa relativa a mio avviso però poteva anche risparmiarsela!! E' un orgoglio locale che sinceramente fa abbastanza rabbia!
Intanto la bellezza di qualcuno non dipende dal luogo geografico in cui è nato e cresciuto, per questo quella qualità non brilla soltanto nel sangue lombardo!
Oltre a ciò, consideriamo che la peste del 1630 si era diffusa in tutto il Nord Italia quindi anche a Torino, a Verona, a Padova, a Udine ci saranno sicuramente state donne "molli e maestose" che, con dignità mista a sofferenza, tenevano tra le braccia le loro figlie uccise dall'epidemia!

Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.

Queste righe mi fanno pensare alle ultime frasi che, nell'ottobre del 1989, la giovanissima Chiara Luce Badano, consapevole di essere molto vicina alla morte, diceva alla madre: "Non voglio lacrime al mio funerale, voglio gente che canta. Mettimi un abito bianco, mamma, e dì alla gente: «Ora Chiara Luce vede Gesù»".
Lei, come ben ha interpretato Mariagrazia Magrini, l'autrice della sua biografia, voleva essere bella per il Regno di Dio.
Da notare inoltre che Alessandro, proprio nel periodo in cui lavorava ai Promessi Sposi, aveva subito la perdita prematura di otto figli... Chissà se lui e sua moglie, dotati di fede sincera in Dio, li avevano lavati, ben sistemati e vestiti con abiti bianchi per "prepararli alla vita eterna"...

(...) una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno (...)

Questa parte del brano mi ricorda il braccio del Gesù senza vita rappresentato nella Pietà di Michelangelo. Qui sotto inoltre potete vedere un particolare che colpisce qualsiasi spettatore di quest'opera: il volto molto giovane di Maria, che sembra una ragazza alla fine dell'adolescenza.
Lo scultore ha voluto farle il volto di ragazzina per evidenziare la sua purezza interiore.
"La pietà "di Michelangelo
Oltre a questo, penso anche a una citazione che riporta Ezio Raimondi, autore del saggio di commento all'opera di Manzoni intitolato Il romanzo senza idillio.
E' un discorso che lo scrittore, nel Fermo e Lucia, prima versione della storia, attribuisce a un Fra' Cristoforo piuttosto sentenzioso e pedante.
Lo riporto in maniera indiretta.
Nella parte in cui scoppia la peste, il frate dice che questo flagello è come una grandine che percuote una vigna e che rovina tutti i suoi grappoli. Dopo il passaggio della grandine, sulla vite rimangono soltanto i grappoli più brutti, mentre tutti gli altri sono caduti.
Profondamente diverso è il discorso dello stesso personaggio all'interno del 36° capitolo dei Promessi Sposi.
Questo religioso appare come un santo, contento di donare la sua vita per gli altri nel lazzeretto di Milano:

È già molto tempo, - rispose con tono serio e dolce il vecchio, - che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo. 

Arriviamo al punto in cui il monatto che, con grande rispetto, cerca di trasferire il corpo della bambina sul carro.
"Turpe" credo che abbia un doppio significato: o è sinonimo di "truce" oppure è collegato alla lugubre e tristissima funzione del personaggio (trasportare i malati al lazzeretto e caricare i cadaveri). Neanch'egli dotato di nome proprio, proprio come la donna che ha appena perduto sua figlia.

Il monatto e la donna con la bimba morta tra le braccia sono soltanto delle comparse.
Eppure suscitano un sincero coinvolgimento emotivo, pari a quello che si prova quando si leggono altri episodi o altre storie che riguardano i personaggi principali: la conversione dell'Innominato e la sua notte tormentata, la triste storia di Gertrude, adolescente oppressa da un padre cinico e autoritario, Renzo che a notte fonda cammina nel bosco per raggiungere l'Adda, il terrore di Lucia durante la notte di prigionia al castello dell'Innominato.

Il paragone finale del fiorellino e del fiore che cadono a colpo di falce ha la funzione di mettere in risalto la tragedia dell'imminente e irreversibile scomparsa di un'umilissima famiglia cittadina.


CAPITOLO 28:

Il vòto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere S’incontravano nell’opposto viaggio questi e que’ pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. 
 «Vidi io, - scrive il Ripamonti, - nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna... Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso... Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno».

Questo è un capitolo in cui l'autore inserisce una digressione storica sulla grave carestia che aveva colpito il territorio lombardo alla fine del 1629 e che, oltre ad aver causato emigrazioni di gruppi di persone, aveva già abbastanza decimato la popolazione, prima dell'invasione dei Lanzichenecchi e prima del contagio della peste.
Ho evidenziato soltanto la citazione diretta tratta dall'Historia Patria di Ripamonti, una delle fonti che Alessandro aveva consultato frequentemente per verificare l'attendibilità delle notizie del passato.

Qui però, più che analizzare bisogna farsi delle domande che rimangono per lo più senza risposta: ma è normale che uno storico inserisca un'immagine così drammatica e così cruda in un trattato che dovrebbe avere per lo più una funzione informativa per i posteri?
Che cos'era la storia per gli uomini del Seicento? Un susseguirsi di eventi da registrare, un nesso tra problemi politici e problemi sociali, oppure una narrazione all'interno della quale potevano anche starci episodi finalizzati a "muovere l'animo" dei lettori?
Se voi miei lettori doveste scrivere un saggio sulla storia dell'Italia del Seicento per noi poveri specializzandi in Filologia Italiana, mettereste mai una piccola digressione su una giovane madre morente di fame e di stenti a causa della carestia? Sarebbe un modo per coinvolgerci maggiormente  in ciò che studiamo, credo io, per farci memorizzare meglio contenuti e problematiche.

Questa comunque è una madre morta. E il bambino accanto a lei strilla perché privo di nutrimento. La sua vita viene salvata da persone compassionevoli che lo allattano e probabilmente lo crescono.
Ma quel bambino saprà mai che la sua madre biologica è stata vittima della carestia?

Se avessi letto queste righe dieci anni fa, quando frequentavo le medie, mi sarei messa a piangere, perché ero ancora più sensibile di come sono adesso.
Adesso, una scena del genere mi mette una fitta di malinconia momentanea, perché per un istante cerco di immaginare questa donna con le labbra un po' violacee e con a lato un piccolo fagotto e un neonato piangente che inconsapevolmente rivolge lo sguardo verso un cielo grigio nuvoloso, in cerca di un aiuto misericordioso.

CAPITOLO 17:

Entrò in un'osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell'uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v'inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un'altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d'un'antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt'e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?

- La c'è la Provvidenza! - disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l'opera buona (giacché siam composti d'anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall'essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. 
Perché, se a sostenere in quel giorno que' poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch'io l'abbia saputo esprimere.

Renzo, dopo una notte trascorsa all'interno di un casolare di campagna nei dintorni di un bosco, attraversa l'Adda di primo mattino e giunge a Bergamo, cittadina che nel XVII° secolo faceva parte della Repubblica di Venezia.
Prima di arrivare alla dimora del cugino Bortolo, il giovane si ferma a mangiare in un'osteria.
Non vuole infatti chiedere cibo come prima cosa a un suo parente per non sembrare un "pitocco", cioè un poveraccio.
Da Bortolo avrà un lavoro, questo sì.
Comunque, all'uscita dall'osteria, Renzo vede una famiglia misera e anche qui, un bambino affamato.
Egli dà loro gli ultimi spiccioli che gli rimangono e che garantiscono la sopravvivenza almeno per una giornata.
Il motivo della Provvidenza compare più volte all'interno dell'opera.
Il pane che Renzo, nel capitolo 11, coglie da terra mentre cammina in una strada di Milano, diventa  "il pane della Provvidenza" nel capitolo 14, quando si trova in un'osteria a bere e a raccontare i fatti suoi.
Pensate al latino "pro"+ "video".
Letteralmente: "Vedere per/a vantaggio di.... (qualcuno)".
Lucia mette in campo la Provvidenza Divina quando viene liberata.
Credere nella Provvidenza, in senso religioso, significa ritenere che la storia degli uomini sia governata da un Essere superiore e divino. 
Dio ha "mosso" il cuore dell'Innominato e lo ha invitato a cambiare stile di vita. Dio gli ha suggerito di liberare Lucia e di metterla sotto la protezione del cardinal Borromeo.
Già nell'antichità alcuni filosofi come Platone ritenevano che esistesse la πρόνοια (prònoia), ovvero, la Provvidenza Divina degli dèi, non di un unico dio.
Il Cristianesimo interpreta la Provvidenza come una Volontà Divina che segue il cammino di ogni uomo, che vive, soffre e gioisce con ogni uomo.
Sant'Agostino diceva che nulla sotto l'ordinamento sublime della divina provvidenza si verifica irrazionalmente.

Il critico Luigi Russo commenta così questa scena del romanzo:
Questo quadro prepara le scene culminanti della carestia e della peste, che non giungeranno però così all'improvviso. C'è sempre la consueta sapienza artistica del Manzoni che viene lentamente diffondendo un'atmosfera, perché il tragico degli episodi trovi il suo clima adatto.

Notate un paio di cose: quel piangeva, piangeva, funzionale a sottolineare la difficilissima quotidianità di un neonato figlio di popolani del XVII° secolo al quale spesso manca la soddisfazione dei bisogni primari e notate anche ciò che Alessandro scrive poco dopo all'interno della stessa frase: tutti del color della morte. 
Come immaginate le persone che patiscono la fame? Io me le immagino molto pallide e con le guance scavate. 
Quel color della morte fa parecchio pensare, induce a immaginare quella famiglia sofferente e indigente. Induce i lettori a mettersi, per qualche istante, nei panni di un Renzo viaggiatore che scorge davanti a sé delle persone in uno stato pietoso, con un bimbo piccolissimo che poverino, non fa altro che chiedere cibo per com'è capace.

CAPITOLO 3:
 
 Partito fra Galdino, “tutte quelle noci!” esclamò Agnese: “in quest’anno!”
“Mamma, perdonatemi,” rispose Lucia; “ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio, sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...”
“Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto,” disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza. 


Riassumo molto sinteticamente ciò che è accaduto nei primi due capitoli del libro: nel primo, indipendentemente dal fatto che studiate Lettere o comunque materie umanistico-letterarie, sapete tutti quanti che Don Abbondio, durante la sua consueta passeggiatina in campagna al tramonto del sole, incontra i bravi di Don Rodrigo che gli ordinano di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia.
Nel secondo, sostanzialmente, il matrimonio tra i due ventenni va a monte, causa reticenze del curato del paese sopra menzionato che prima, con Renzo, finge di trovare mille inutili scuse e giustificazioni, poi si finge malato e rimane, rintanato e impaurito, in canonica.
Nella prima parte del terzo capitolo, su suggerimento di Agnese, Renzo si reca dall'Azzecca-Garbugli per ottenenere una difesa, senza successo.
Mentre Renzo è via, Fra' Galdino, confratello di Padre Cristoforo, entra nella casa di Agnese e Lucia. Lucia dona moltissime noci al frate.
Ma rileggiamo l'ultima frase del brano:

Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.

Agnese è vedova. Non è ci dato sapere da quanto tempo lo sia, ma lo è.
Una donna che perde il marito ripone tutto il suo affetto sulla figlia/sui figli, è normale che sia così.
Agnese può essere molto fiera di quella figlia così buona, così semplice, così onesta e così pura, come suggerisce il cognome Mondella, che rimanda alla frase latina omnia munda mundis: tutto è puro per i puri.
Sapete che una prof. del liceo un giorno in privato mi aveva detto che io secondo lei assomigliavo a Lucia Mondella?  Forse per alcuni lati del carattere sì. Sono anch'io timida e onesta.
Però sono istruita, lei era analfabeta. Io sono figlia del XXI° secolo, anche se il XXI° secolo non mi piace tanto come epoca.
Intendevo dire che il mio rapporto con la fede è diverso dal suo: io non faccio voti di un certo tipo alla Madonna! A dire il vero, alla Madonna ci penso pochissimo, povera lei.

Dicevo: è bellissimo e conforme alla natura di un genitore stravedere per un figlio.
Lucia non ha più il padre, Renzo invece è proprio orfano.
Tragico è perdere un genitore precocemente. Purtroppo capita, è capitato in tutte le epoche storiche.
L'importante, a mio avviso, è poter godere della compagnia e del sostegno del genitore che rimane.

A diventare genitori biologici "i è boni tuti", cioè, sono tutti capaci. Solo che la vita intera poi ti chiede di esserci, con la testa e con il cuore, per tuo figlio.

... Notizia della settimana: indovinate chi è venuto a trovare me martedì notte?! Il signor raffreddore, che gioia immensa!!!
Seguito dalla sua deliziosa figliola, la signorina tosse.
Vengono più di una volta l'anno. Ho capito che sto loro simpatica, ma cavolo, sono troppo invadenti, non hanno il senso del limite. La gente di 13-14 anni ha molto più senso della misura di loro.
Padre e figlia non riescono a mettersi in testa che io di notte devo dormire, non soffrire per colpa loro.




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