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27 gennaio 2019

"Un sacchetto di biglie": la storia drammatica della famiglia Joffo .

Copertina film

Il film "Un sacchetto di biglie" è appena uscito ed è basato sul romanzo di Joseph Joffo, ebreo sopravvissuto alla Shoah, come i fratelli e la madre.
Sia il libro che il film sono raccontano gli eventi dal punto di vista del bambino Joseph, costretto a 8 anni ad una persecuzione razziale di cui non riesce a cogliere il senso.

Soltanto i primi cinque minuti del film sono lieti, dal momento che Joseph e Maurice, i due ragazzini protagonisti della storia, vivono felici con i genitori e gli altri due fratelli maggiori.
Vanno a scuola e collezionano biglie. Il loro padre è un barbiere, la loro madre una violinista.
Si tratta di una famiglia onesta, che non fa del male a nessuno.

Quando inizia una guerra che si fa via via sempre più aspra di anno in anno, Joseph diviene vittima di pesanti umiliazioni da parte dei compagni di scuola: la stella che tutti i ragazzini ebrei sono costretti a portare sui loro indumenti indica che sono loro gli assassini di Gesù Cristo.
Vedete? Fascismo e nazismo, per questo verso, hanno fatto ritornare l'Europa al medioevo e alla prima età moderna: gli ebrei hanno condannato Gesù a morte, per cui di loro non bisogna mai fidarsi, perché sono tutti malvagi e insidiosi.
Copertina romanzo
Nel periodo compreso tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, nessuno doveva servirsi di un minimo di buonsenso per dire apertamente che gli ebrei del XX° secolo erano completamente innocenti perché logicamente non avevano nulla a che fare con alcuni esponenti del popolo ebraico che, quasi duemila anni prima, aveva consegnato Gesù prima ai sommi sacerdoti e poi ai romani.
Notate che ho scritto alcuni esponenti, non tutti.
Nessuno inoltre doveva affermare che una buona parte di responsabilità nella crocifissione di Gesù l'aveva avuta anche Pilato, che era romano.
In un regime autoritario c'è il pensiero unico.
Il dittatore toglie tutte le fondamentali libertà umane al suo popolo.
La dittatura sorge molto spesso a causa di precedenti debolezze politiche, a causa di gravi crisi economiche e a causa del bisogno dei ceti medi di "avere più ordine", di avere un governo dal "pugno di acciaio" che riesca a cancellare ogni incertezza sul presente.
Così è accaduto in Germania: la Repubblica di Weimar (1919-1933), negli ultimi anni della propria esistenza, era diventata così fragile che il maresciallo Hindenburg aveva acconsentito alla nomina di Hitler come cancelliere. Tra il popolo tedesco inoltre serpeggiava un forte senso di frustrazione dal momento che, come prescrivevano i trattati di Versailles, la Germania, oltre ad aver perso l'Alsazia, la Lorena e Danzica, doveva saldare un enorme debito della guerra poco precedente. E per i nazional-socialisti, la causa della caduta in disgrazia della Germania erano gli ebrei.

Nel '42, la famiglia Joffo si trasferisce a Nizza, città che in quell'anno era ancora libera dalle persecuzioni etnico-religiose.
I sei Joffo la raggiungono "a coppie": prima partono i due fratelli più grandi, poi Joseph e Maurice e infine, i due genitori.
Durante il viaggio in treno da Parigi a Nizza, i due fratelli vengono protetti da un curato che li salva dal controllo dei soldati nazisti.
A Nizza tutti i membri della famiglia si ricongiungono. Ma la loro serenità dura appena un anno.
Quando Mussolini viene arrestato, nel settembre del '43, i soldati italiani sono costretti a ritornare in Italia e a sostituirli arrivano i tedeschi.
I coniugi Joffo decidono allora di portare i loro figli in una colonia per ragazzi, in modo tale che possano essere al sicuro.
Anche se Joseph e Maurice riescono a instaurare dei bei rapporti di amicizia con altri ragazzi, in particolare, con un compagno di camera di origini algerine, sentono molto la nostalgia dei loro genitori. D'altra parte, hanno rispettivamente 9 e 13 anni... sono dei ragazzini.
Dei ragazzini che, come gemme nate in un marzo ancora freddo e molto ventoso, purtroppo vengono a contatto con un mondo ingiusto e crudele che li vorrebbe morti. Eppure, sono nell'età dell'innocenza. Vi ricordate quella parola che ho messo in evidenza quando ho svolto l'analisi dell'addio fra Ettore e Andromaca?
Era"ἀταλάφρονα", composta da ἀταλός (atalòs)= innocente + φρὴν (frèn)= mente.
Ed era riferita ad Astianatte, il loro figlio di pochi mesi.
Un bambino di 9 anni e un ragazzino di 13 subiscono il male, ma non commettono il male e probabilmente non sono in grado di formulare pensieri cattivi. 
Volevano soltanto stare con i loro genitori. 
Ma, durante una fuga dal collegio, Joseph e Maurice vengono catturati, picchiati a sangue e incarcerati dai militari delle SS, convinti della loro origine ebraica.
Pietà per dei bambini no, mai. Anche questo aveva dimenticato l'Europa autoritaria degli anni del secondo conflitto mondiale.
Con grande astuzia però, entrambi cercano di dare la stessa falsa versione sulle loro origini, per potersi salvare la vita. Dicono di essere degli algerini cattolici.
Maurice riesce, nel giro di 48 ore, ad ottenere un permesso di uscita dalla prigione per farsi fare dei certificati di battesimo falsi da un parroco, in modo tale da poter dimostrare di essere nati ad Algeri e di essere stati battezzati secondo il rito cattolico.
In quei due giorni Joseph si ammala di meningite, ma guarisce grazie all'intervento di un medico ebreo della sua stessa stanza di prigionia.


Non finisce male, la storia. Sia il romanzo sia il film si concludono con la liberazione di Parigi nel '45 da parte degli Alleati e con il ricongiungimento di quasi tutti i membri della famiglia Joffo. 
Tutti tranne il padre dei ragazzi, che non è sopravvissuto alla deportazione.


E' una bella figura, quella di Joseph Joffo, anche se, come già accennavo sopra, è stato un bambino costretto a perdere presto l'ingenuità e il sorriso. Proprio come Yoram Fridman.
"Di lacrime ne avevo sparse troppe", dice, sia nel libro che nel film.

Se seguite volentieri questo blog non dovete mai dimenticarvi di Yoram, il bambino ebreo polacco orfano e costretto per ben tre anni a correre per le campagne e per i boschi, in fuga dai nazisti che lo avrebbero voluto morto.
Yoram non è morto, ma la sua vita è stata pesantemente segnata da un'infanzia rubata: a 11 anni ha perso un braccio e per molti anni il suo dolore era tale da impedirgli di parlare per testimoniare le crudeltà dell'antisemitismo.
L'ex geniale professore di matematica e fisica continua a godere di buona salute, ma ha quasi 86 anni; questo è bene tenerlo presente.
Siccome ci tengo molto al fatto che anche voi lettori, come me, continuiate a ricordare che cosa ha vissuto e subito Yoram quando era in età da scuole medie, vi metto qui sotto i link dei miei post a lui riferiti:

1) http://riflessionianna.blogspot.com/2015/10/corri-ragazzo-corri-pepe-danquart.html- RECENSIONE FILM "CORRI RAGAZZO CORRI", pellicola fedele alla vera storia di Yoram.

2) https://riflessionianna.blogspot.com/2016/01/shoah-la-preziosa-testimonianza-di.html-
INTERVISTA A YORAM

3) https://riflessionianna.blogspot.com/2017/01/ricordando-la-shoah-e-yoram-fridman.html-
MONITO DELLO STESSO YORAM A NON DIMENTICARE.

Tutti i sopravvissuti alla Shoah hanno almeno 81-82 anni. Questo significa che, tra non molto, i testimoni oculari di questo vergognoso orrore della storia, scompariranno.
Ma io spero che non scompaiano né le loro testimonianze scritte né le interviste e i film dei quali sono stati protagonisti. Mi auguro che si continui a ricordare uno dei genocidi più terribili della storia, anche senza di loro.
Non voglio che accada quello che dice la signora Liliana Segre, italiana scampata alle camere a gas: "Presto la Shoah sparirà dai libri di storia".

La coscienza storica è necessaria! 

Ho caricato qui sotto la video-testimonianza che Liliana Segre ha fatto ad alcuni studenti di Milano lo scorso anno.




A) Non si dica mai che i nazisti sono stati gli unici responsabili dello sterminio degli ebrei. Anche i gerarchi fascisti hanno fatto il loro gran lavoro sporco in quegli anni!
Dire: "Almeno Mussolini non perseguitava gli ebrei" è ignoranza abissale e inammissibile, anche perché le leggi razziali sono uscite anche qui nel '38.

B) State bene attenti a quello che vi scrivo in questo punto: in Italia ci sono, anche oggi, dei politici dei partiti di destra che fanno propaganda sulla pelle degli altri. Fanno credere alla gente di risolvere il problema dei migranti bloccando il loro accesso presso le coste italiane e dando la colpa agli scafisti e alle ONG se esiste il "problema dell'invasione degli extracomunitari".
Come dice sopra la Segre: l'indifferenza fa male.
Chi sono i migranti? Povera gente in cerca di una vita migliore. Non possono stare nei loro paesi di origine perché morirebbero o di fame o a causa di guerre civili o a causa degli attacchi degli estremisti islamici. Però se provano a venire nelle nostre terre, noi europei non li vogliamo perché siamo un po' tutti egoisti. E che colpa ne hanno loro? Hanno soltanto la colpa di esistere, di essere nati.

Io concludo il post con una poesia di Salvatore Quasimodo, intitolata "Uomo del mio tempo":

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

La poesia non ha bisogno di grandi analisi da parte mia, perché si spiega benissimo da sola.
Vi faccio soltanto presente che c'è un chiarissimo riferimento a Caino e Abele e che la citazione "Andiamo nei campi" è tratta direttamente dalla Bibbia.
L’uomo del nostro tempo, afferma il poeta, ha perduto ogni considerazione dei fratelli e ha dimenticato la solidarietà e i principi evangelici che lo trattengono dalla violenza.
La scienza e la tecnica hanno fatto progressi, ma, negli anni del secondo conflitto mondiale, questi saperi sono stati utilizzati per uccidere e per spargere sangue.



20 gennaio 2019

L'isola di Alcina:


E' una minima parte del canto VI° dell'Orlando furioso di Ariosto. Dal momento che in questo semestre, oltre ad approfondire la storia del romanzo ho avuto l'occasione di conoscere meglio l'epica italiana, vi propongo alcune ottave relative ad una delle molte avventure di Ruggiero, eroe che, nel quarantaseiesimo ed ultimo canto di quest'opera, convola a nozze con la guerriera cristiana Bradamante, dando così origine alla dinastia degli Este.
Naturalmente l'intento del poema epico-cavalleresco di Ariosto è encomiastico, come però lo è anche la Liberata di Tasso, composta alcuni decenni più avanti, nei confronti di Alfonso II d'Este.

Scrivo alcune righe introduttive per contestualizzare il brano:
Ruggiero, volando in groppa ad un ippogrifo, un animale ibrido tra cavallo e uccello, raggiunge l'isola di Alcina, maga che lo seduce. In effetti, le lusinghe di Alcina e le bellezze dell'isola, per un periodo fanno quasi dimenticare a Ruggiero l'amata Bradamante, che successivamente lo libera.
                         
 [17]  
     Ben che Ruggier sia d’animo costante,
     Né cangiato abbia il solito colore,
     Io non gli voglio creder che tremante
     Non abbia dentro più che foglia il core.
     Lasciato avea di gran spazio distante
     Tutta l’Europa, ed era uscito fuore
     Per molto spazio il segno che prescritto
     Avea già a’ naviganti Ercole invitto.

                             
                                 [18]
     Quello ippogrifo, grande e strano augello,
     Lo porta via con tal prestezza d’ale,
     Che lasceria di lungo tratto quello
     Celer ministro del fulmineo strale.
     Non va per l’aria altro animal sì snello,
     Che di velocità gli fosse uguale:
     Credo ch’a pena il tuono e la saetta
     Venga in terra dal ciel con maggior fretta.

   
 [19]
     Poi che l’augel trascorso ebbe gran spazio
     Per linea dritta e senza mai piegarsi,
     Con larghe ruote, omai de l’aria sazio,
     Cominciò sopra una isola a calarsi;
     Pari a quella ove, dopo lungo strazio
     Far del suo amante e lungo a lui celarsi,
     La vergine Aretusa passò invano
     Di sotto il mar per camin cieco e strano.

   
 [20]
     Non vide né ’l più bel né ’l più giocondo
     Da tutta l’aria ove le penne stese;
     Né se tutto cercato avesse il mondo,
     Vedria di questo il più gentil paese,
     Ove, dopo un girarsi di gran tondo,
     Con Ruggier seco il grande augel discese:
     Culte pianure e delicati colli,
     Chiare acque, ombrose ripe e prati molli.

   
 [21]
     Vaghi boschetti di soavi allori,
     Di palme e d’amenissime mortelle,
     Cedri ed aranci ch’avean frutti e fiori
     Contesti in varie forme e tutte belle,
     Facean riparo ai fervidi calori
     De’ giorni estivi con lor spesse ombrelle;
     E tra quei rami con sicuri voli
     Cantanto se ne gìano i rosignuoli.
     

 [22]
     Tra le purpuree rose e i bianchi gigli,
     Che tiepida aura freschi ognora serba,
     Sicuri si vedean lepri e conigli,
     E cervi con la fronte alta e superba,
     Senza temer ch’alcun gli uccida o pigli,
     Pascano o stiansi rominando l’erba;
     Saltano i daini e i capri isnelli e destri,
     Che sono in copia in quei luoghi campestri.

   
 [23]
     Come sì presso è l’ippogrifo a terra,
     Ch’esser ne può men periglioso il salto,
     Ruggier con fretta de l’arcion si sferra,
     E si ritruova in su l’erboso smalto;
     Tuttavia in man le redine si serra,
     Che non vuol che ’l destrier più vada in alto:
     Poi lo lega nel margine marino
     A un verde mirto in mezzo un lauro e un pino.

   
 [24]
     E quivi appresso, ove surgea una fonte
     Cinta di cedri e di feconde palme,
     Pose lo scudo, e l’elmo da la fronte
     Si trasse, e disarmossi ambe le palme;
     Ed ora alla marina ed ora al monte
     Volgea la faccia all’aure fresche ed alme,
     Che l’alte cime con mormorii lieti
     Fan tremolar dei faggi e degli abeti.


Il volo dell'Ippogrifo comprende gli stessi identici orizzonti, considerati vastissimi in epoca rinascimentale, di quella nave guidata dalla Fortuna sulla quale nella Liberata Carlo e Ubaldo, a inizio canto XV°, salgono per raggiungere l'isola di Armida. Con questo parallelismo vorrei far presente che il contenuto dell'ottava 17 allude ad un superamento delle Colonne d'Ercole, che, anche nella Commedia di Dante, segnavano il confine oltre il quale nessun uomo avrebbe potuto spingersi. Sia l'isola di Alcina, sia l'isola di Armida si trovano oltre le Colonne d'Ercole.

L'Ippogrifo vola, più veloce di un lampo. 
In letteratura il lampo, indiscutibilmente, è sempre stato l'emblema della rapidità e l'elemento più adatto a rappresentare una sensazione di improvviso.
Cito indirettamente alcuni esempi qui sotto.

1) Per Cavalcanti l'innamoramento è un fulmine che irrompe all'improvviso in una finestra all'interno di una torre.

2) Per Pascoli, nella breve lirica Il lampo, la luce istantanea del fulmine nella notte di un temporale notturno fa apparire e sparire l'immagine di una casa bianca in una frazione di secondo.

3) Anche Alessandro, nei suoi Promessi sposi, ricorre a similitudini e metafore inerenti al lampo.
  Ad esempio, nel primo capitolo, quando i due bravi menzionano Don Rodrigo al curato Don Abbondio; nella mente di quest'ultimo, preso da una sensazione di soggezione nei confronti del nobile signorotto, il nome Don Rodrigo è come un momentaneo lampo che illumina gli oggetti.

Mi soffermo brevemente sull'ottava 19, dal momento che in questo punto si trova un richiamo ad un episodio inserito nel III° canto dell'Eneide di Virgilio: Aretusa era una ninfa che, per sfuggire all'amore del fiume Alfeo, si era rifugiata lungo le coste della Sicilia. Ma lì, la dea Diana l'aveva trasformata in fontana.

A partire dall'ottava successiva invece, inizia la vera e propria descrizione dell'isola, dotata di una grande varietà di elementi, proprio come lo è anche l'isola di Armida.
Ad ogni modo, ho evidenziato tutte le entità naturali del giardino.
Vedete come la molteplicità caratterizza questo luogo? La molteplicità delle meraviglie della natura, che distrae Ruggiero dai suoi veri sentimenti.
Le mortelle sono i mirti, piante che sono sempre state sacre a Venere.
In un momento successivo si scoprirà che il mirto al quale Ruggiero lega l'Ippogrifo è Astolfo, che è stato trasformato da Alcina in quella pianta.
Scrivo un'osservazione che per voi potrà sembrare azzardata. E' un mio strano collegamento mentale: Astolfo trasformato in pianta mi ha ricordato Pier delle Vigne nella selva dei suicidi del canto XIII° dell'Inferno di Dante. Pier delle Vigne era poeta vissuto alla corte siciliana che era morto suicida dal momento che non poteva più sopportare le invidie e le calunnie sul suo conto da parte di altri cortigiani. Calunnie che purtroppo avevano indotto il sovrano di Palermo ad esiliarlo.
Ad ogni modo, in quel canto, i suicidi sono tutti trasformati in piante le cui foglie vengono rosicchiate dalle Arpie. Tenete presente che Dante è vissuto ed è morto nel Medioevo, per cui all'epoca il suicidio era un peccato grave, era considerato un affronto fatto a Dio: Dio ti dona la vita e tu te la togli.
Ve la traduco ora da laica del XXI° secolo in profonda ricerca di Dio, secondo le mie idee: i genitori ti danno la vita. Proprio i genitori, persone fragili che non ti capiranno mai fino in fondo per quanto tu abbia un buon rapporto con loro. E nessuno dovrebbe permettersi di giudicare il grande dolore di un suicida, perché ogni essere umano è dotato di libero arbitrio e perché mai nessuno potrà completamente capire e intuire le ragioni di una scelta così estrema e disperata.
Credo sia bellissima la convinzione cristiana secondo la quale tutti noi siamo dei "progetti" di vita presenti nella mente di Dio, ma nei miei periodi un po' malinconici come questo fatico a crederci.

Rileggetevi il primo verso dell'ottava 22. A me questo richiama l'inizio di un sonetto di Guinizzelli:
"Io voglio del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio". Sonetto che ho imparato a memoria in seconda media. Già allora la letteratura mi piaceva un sacco; già allora qualcosa approfondivo e imparavo da sola.
Tutti i critici della letteratura dicono che il giglio è simbolo di purezza, la rosa invece di passione amorosa ed erotismo.
Frasi come "Cogliam la rosa", cioè versi, mi sembra, di Poliziano, vogliono dire soprattutto: "Cogliamo la verginità della ragazza. Se non ora che siamo giovani, quando altrimenti?"
E con questo annullo ogni ingenuità.

Ad ogni modo, l'autore che più di tutti gli altri nutriva un gran rispetto per la corporeità femminile era Alessandro, senza dubbi. Lo si intuisce da come le descrive nel suo stupendo romanzo.
L'unico che forse le sapeva amare veramente, come credo che abbia amato profondamente le sue due mogli (vedovo di Enrichetta, aveva poi conosciuto Teresa).
E finalmente domani ho l'esame su Alessandro.


9 gennaio 2019

FIGURE FEMMINILI NELLA GERUSALEMME LIBERATA:


Questo che vi sto proponendo è uno studio sulla psicologia dei personaggi femminili presenti all'interno del poema storico-religioso di Torquato Tasso relativo allo scontro fra cristiani e saraceni nella prima crociata (1096-1099).
Innanzitutto, occorre precisare che le "donne" del poema sono quattro: Clorinda, Erminia, Armida e Sofronia. 
La quarta è conosciuta soltanto dagli studenti universitari di Lettere/ Filologia italiana, dal momento che le tempistiche dei programmi scolastici delle scuole secondarie non consentono né ai docenti di spiegarla né ai ragazzi di studiarla.
Innanzitutto premetto che non è del tutto corretto considerare la Liberata come "il poema delle donne vergini", almeno per il fatto che la maga Armida, nel corso della narrazione, perde eccome la verginità.
Smentisco anche la sciocca affermazione di un Foscolo romantico e saggista letterario: "Nel suo poema, Tasso ha idealizzato le donne perché non le conosceva abbastanza bene." Non le ha mai idealizzate. Tutti e quattro i caratteri femminili proposti nella Liberata hanno anche dei limiti. E tutte e quattro sono giovanissime, tutte intorno ai 20 anni.
A me questo resoconto serve da ripasso.
Ad ogni modo, parto dalla figura femminile meno conosciuta.

A) SOFRONIA:

Olindo e Sofronia
Sofronia compare nel secondo canto del poema, ovvero, quando il mago Ismeno suggerisce al re Aladino uno stratagemma per proteggere Gerusalemme: rubare un'immagine della Vergine dal tempio cristiano per portarla in una moschea.
Prima però che i due riescano ad attuare il piano, l'immagine scompare per volontà divina e Aladino si infuria e convoca la popolazione di Gerusalemme promettendo pene severissime per il colpevole.
E qui entra in scena Sofronia: la ragazza, per il bene della comunità cristiana prigioniera a Gerusalemme, autoaccusatasi del furto, accetta la condanna al rogo.
A quel punto però, Olindo, giovane timido segretamente innamorato di lei, si autoaccusa di fronte al re per morire con lei.
Torquato aveva composto la Gerusalemme Liberata nei primi anni '70 del XVI° secolo. Si era fornito di diversi intellettuali revisori dell'opera e alcuni di loro gli avevano proposto di tagliare questo episodio, ritenuto poco funzionale alla trama dell'opera dal momento che violava il principio dell'aristotelica unità d'azione. (Sì, poi è vero che Ariosto, di poco precedente a Tasso, aveva già, con il Furioso, infranto egregiamente i principi aristotelici sulla narrativa).
Poi però, il sacrificio di Olindo e Sofronia era rimasto, a simboleggiare la forza della fede dei cristiani ardentemente credenti.
Ma torniamo un po' indietro. 
All'ottava 14 del canto II°, che è questa:

Vergine era fra lor di già matura
verginità, d’alti pensieri e regi:
d’alta beltà, ma sua beltà non cura,
o tanto sol quant’onestà sen fregi.
È il suo pregio maggior, che tra le mura
d’angusta casa asconde i suoi gran pregi:
e de’ vagheggiatori ella s’invola
alle lodi, agli sguardi, inculta e sola.

Questa è la descrizione di Sofronia. L'espressione "matura verginità" significa "in età da marito". Ma Sofronia è una giovane donna sospesa tra la lirica amorosa-sentimentale e l'eroismo di carattere biblico. E' vergine, come Clorinda e come Erminia. Appare troppo pura persino per innamorarsi.
Non si vanta affatto della sua bellezza, ma la nasconde.
Prossimamente invece vedrete come Armida se ne vanta!
Olindo e Sofronia vengono legati allo stesso palo e attorno a loro, fra la disperazione del popolo cristiano, viene acceso un rogo. Però i due si sacrificano per ragioni completamente diverse: Sofronia è mossa da una sincera fede in Dio e da una spaventosa generosità verso il popolo al quale lei appartiene, Olindo invece lo fa per legare il suo destino a quello della donna amata.
Ma muoiono veramente?!
No, perché la guerriera Clorinda, giunta davanti al rogo, si commuove per il destino dei due giovani e chiede al re Aladino di risparmiare loro la vita. Aladino, che nutre il massimo rispetto per il valore di Clorinda, accetta la sua proposta.
Sofronia e Olindo, una volta usciti dalla città, si sposano felicemente.
Per concludere, Sofronia avrà anche un'innata generosità e un incredibile senso del sacrificio, ma è, come dicevo sopra, troppo pura per essere una donna terrena e troppo lontana da qualsiasi interesse mondano.
Oltre a ciò, mentre è sul rogo e finalmente Olindo le dichiara apertamente il suo amore, non si emozione né si commuove per questo sentimento. E' capace soltanto di rispondergli: "Sei sul punto di morire anche tu. Dovresti pensare ad altro, ad esempio a pentirti dei tuoi peccati prima di salire a Dio".
Troppo pura e per giunta troppo moralista.

B) CLORINDA:

Come già sapete, Clorinda è la guerriera musulmana di questo poema.
E' anche onesta, sensibile, valorosa ed energica in battaglia. Ma, come la Marfisa di Ariosto, non ha altri interessi che quelli militari. Pare che nel suo cuore non ci si spazio per nessuno.
Tancredi, cavaliere cristiano, è segretamente innamorato di lei.
Clorinda compare più volte all'interno del poema. Tancredi ne rimane folgorato sin dalla prima volta che la vede, ovvero, nel deserto e nei pressi di un' oasi.
Però, va precisato che Clorinda è la protagonista quasi assoluta del dodicesimo canto.
In 105 ottave infatti, il lettore apprende le sue origini etiopi, il suo profondo legame affettivo con l'eunuco Arsete, suo tutore da sempre, e la sua morte nel duello contro Tancredi. Il loro è il duello più violento che sia mai stato descritto, dal momento che è corpo a corpo.
L'ottava 57 del canto XII° è a doppio senso (militare-erotico):

Tre volte il Cavalier la donna stringe
con le robuste braccia: ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge;
Nodi di fier nemico, e non d’amante.
tornano al ferro: e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe, e stanco ed anelante
e questi e quegli alfin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.


Battesimo di Clorinda
In questo punto però Tancredi appare come feroce guerriero, non come uomo innamorato. Ma perché non sa che al di sotto di quell'elmo avversario c'è Clorinda.
E' un triplice abbraccio che fa pensare a dei connotati erotici ma in realtà è il momento più atroce e più violento del loro duello.
Alla fine, Clorinda morente chiede il battesimo a Tancredi il quale, scoprendole il volto, scopre con orrore di aver ucciso proprio la donna che amava.
Più volte, anche nel canto successivo, chiama se stesso "mostro".
Odia se stesso per ciò che ha commesso, anche se era inconsapevole dell'identità dell'avversario.

C) ERMINIA:

Erminia ha il grande dono di saper ammirare con stupore lirico le meraviglie naturali, è sincera nei suoi sentimenti, sensibile al punto tale da custodire profondamente dentro di sé la gentilezza che un cavaliere le riserva.
Erminia era il nome della mia bisnonna paterna. Erminia Rosa.
Ad ogni modo, Erminia compare già al terzo canto, quando si trova con il re Aladino sulla torre altissima di Gerusalemme per potergli indicare i cavalieri cristiani che stanno combattendo.
La scopriamo fin da subito perdutamente innamorata di Tancredi.
Erminia lo connota come un soldato "crudo nel ferire".
Dice al re Aladino che Tancredi è crudele semplicemente perché il suo è un amore impossibile!
Lei, principessa di Antiochia che è stata catturata proprio dal cavaliere di cui è innamorata, non può dire ad Aladino di esserne attratta! Erminia tiene per sé i suoi sentimenti, per questo soffre.
Per questo, quando è invitata a parlare di Tancredi, trattiene il pianto.
Ammira con una lieve punta di invidia il valore militare di Clorinda. Per attirare Tancredi, alla fine del sesto canto, si traveste con le armi di Clorinda. Ma viene avvistata dai guardiani del campo cristiano ed è costretta a fuggire.

Ottava 3, canto VII°:

Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno
che le lagrime sue, che le sue strida.
ma nell’ora che ’l Sol dal carro adorno
scioglie i corsieri, e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano alle chiare acque,
e scese in riva al fiume, e quì si giacque.

La fuga di Erminia ricorda un po' quella di Angelica (Orlando furioso, canto I°: s'andò aggirando e non sapeva dove).
Erminia fra i pastori
Angelica... la donna che nel poema di Ariosto tutti inseguono... e lei che non desidera nessuno dei suoi inseguitori ma anzi, si sposa con Medoro, che è sostanzialmente "il signor nessuno"!
Notate che il verbo "errare" qui è un latinismo, per cui significa "vagare senza una meta precisa" e non "sbagliare".
Erminia è spaventata in questo passo. Giunge alle rive del Giordano e qui si assopisce per un po'.
Al suo risveglio, comprende di essere finita in un luogo idilliaco, tra i pastori.
Lei, principessa di Antiochia, accetta di buon grado di condurre il loro stile di vita, indossando abiti semplici e mettendosi a intrecciare ceste di vimini.
La ritroveremo al canto XX°, nel bel mezzo della battaglia finale tra crociati e saraceni, intenta a soccorrere Tancredi ferito.
Sarà mai Erminia ricambiata nel suo immenso amore? A noi lettori non sarà mai dato saperlo, certo è che, a mio avviso, almeno nella Liberata si apre una speranza d'amore per Erminia e una speranza di superamento del dolore (fisico e spirituale) per Tancredi.
Sempre meglio della fine che Tasso stesso farà fare a questo personaggio nella Conquistata, dove la spedisce in convento!
Apparentemente senza difetti, Erminia ne ha in realtà più di uno: cela se stessa con l'inganno, esce da Gerusalemme senza un piano ben preciso e quindi da vera sprovveduta, visto che è mossa soltanto dal desiderio d'amore. Inoltre, invidia Clorinda e si ostina su un amore impossibile. (Sarà mica esistito soltanto Tancredi, vero?! Tra l'altro, da quelli che non ti ricambiano sarebbe proprio meglio scappare!)

D) ARMIDA:

Maga saracena, abile dissimulatrice, nipote del mago Idraote. Personalmente non mi piace!
A metà del IV° canto, Armida giunge piangente e supplicante dinanzi ai cavalieri cristiani.
Purtroppo è di stupefacente bellezza. Dico purtroppo perché appunto la odio.

Ottava 28, canto IV°:

Dopo non molti dì vien la donzella
dove spiegate i Franchi avean le tende.
all’apparir della beltà novella
nasce un bisbiglio, e ’l guardo ognun v’intende;
siccome là, dove cometa o stella,
non più vista di giorno, in ciel risplende:
e traggon tutti per veder chi sia
sì bella peregrina, e chi l’invia.

Armida è fisicamente molto bella e basta. Caratterialmente non ha nulla di positivo.
Basta che appaia per far innamorare i cavalieri. Inoltre, sa bene come "intortarli" con una storia di menzogne.
Nel corso del IV° canto del poema infatti, la maga racconta di essere l'erede al trono di Damasco. Racconta di essere orfana da tempo e di essere stata vittima di un matrimonio combinato per volere di uno zio cinico e violento. Secondo il suo racconto, la madre sarebbe morta partorendola, il padre invece quando lei aveva soltanto 5 anni.
Armida chiede a Goffredo di Buglione, capo dei crociati, di poter essere accompagnata da alcuni cavalieri per poter riprendere il trono.
Memorabili e significative sono queste tre ottave:

Ottave 33-35, canto IV°:

Lodata passa, e vagheggiata Armida,
fra le cupide turbe, e se n’avvede.
nol mostra già, benchè in suo cor ne rida,
e ne disegni alte vittorie e prede.
mentre sospesa alquanto, alcuna guida
che la conduca al Capitan, richiede;
Eustazio occorse a lei, che del sovrano
principe delle squadre era germano.


Come al lume farfalla, ei si rivolse
allo splendor della beltà divina;
e rimirar dappresso i lumi volse,
che dolcemente atto modesto inchina:
e ne trasse gran fiamma, e la raccolse,
come da foco suole esca vicina:
e disse verso lei, ch’audace e baldo
il fea degli anni e dell’amore il caldo:

"Donna, se pur tal nome a te conviensi;
chè non somigli tu cosa terrena:
nè v’è figlia d’Adamo, in cui dispensi
cotanto il ciel di sua luce serena:
chè da te si ricerca? e donde viensi?
qual tua ventura o nostra or quì ti mena?
fa ch’io sappia chi sei; fà ch’io non erri
nell’onorarti, e s’è ragion, m’atterri."


Armida, al contrario di Sofronia, si compiace di veder riconosciuto il suo magnifico aspetto.
Eustazio, fratello di Goffredo, è attratto da Armida come una falena è attratta dalla luce di una lanterna.
Notate bene che le dice Donna, se pur tal nome a te conviensi;/ chè non somigli tu cosa terrena.
Silvio Antoniniano, poeta e latinista romano del Cinquecento, avrebbe voluto cassare questi due versi, dal momento che riteneva quasi blasfemo il paragone tra una maga seduttrice e una dea.
Ad ogni modo, il racconto di Armida riesce ad ammaliare molti cavalieri che si offrono successivamente di accompagnarla. Ma qui, la maga rivela tutta la sua natura psicologica di vipera: li sottopone ai suoi perfidi incantesimi trasformandoli a suo piacimento in animali e vorrebbe condurli prigionieri al re d'Egitto ma Rinaldo riesce a liberarli tutti quanti.

Rinaldo e Armida
Armida è tutta malizia e vendetta. Vuole vendicarsi di Rinaldo che ha fatto fallire il suo progetto sui cavalieri cristiani ma, quando vede il suo bel viso addormentato, se ne innamora perdutamente (almeno così scrive Tasso!) e lo seduce con un incantesimo, portandolo al di là delle Colonne d'Ercole (attuale stretto di Gibilterra) in una delle Isole Fortunate (attuali Canarie, se ben ricordo).
Il canto XV°, che narra il viaggio di Carlo e Ubaldo, due cavalieri crociati che si recano nell'isola per liberare Rinaldo, è decisamente improponibile in un'antologia di liceo! Per l'eccessivo erotismo di due sirene incantatrici che compaiono alla Fontana del riso allo scopo di distrarre Carlo e Ubaldo.
Io devo leggermi tutto, i ragazzi fortunatamente soltanto le parti con più tensione lirica/militare/patetica. Le parti più interessanti.
L'inizio del canto XVI° è invece meno "dannoso" in questo senso, ma comunque caratterizzato da una natura in perenne primavera dove Rinaldo e Armida, teneri fra loro, si godono languidamente il loro amore.
Specchio t'è degno il cielo, dice Rinaldo ad Armida...
Trovalo uno che ti loda così tanto! Con un ragazzo del genere io attraverserei tranquillamente, come se stessi passeggiando per via Mazzini a Verona, le male bolge dell'inferno dantesco!
Forse, anche se ho una particolare antipatia per la personalità di Armida, mi fa un po' sognare questa sua idea di trasportare l'amato in un mondo isolato.
Se fossi dotata di poteri magici lo farei anch'io con il ragazzo che amo.
Lo prenderei per mano e lo porterei in alto, sulla vetta di una montagna innevata, in una casetta di legno con tanto di divano, camino, coperte e legna.
E noi due lì, ad abbracciarci e a leggere poesie... e la cattiveria e la falsità fuori dal nostro piccolo universo!
Intorno alla casetta metterei un recinto sorvegliato da orsi pronti ad aggredire qualsiasi elemento esterno che voglia fargli/farci del male.

Va bene, la smetto. Ho proprio 20 anni: quello che avrebbe dovuto essere un altro post un po' letterario e un po' psicologico alla fine è diventato un racconto improvvisamente prodotto dalla mia mente!

1 gennaio 2019

"Rifugio d'uccelli notturni", Quasimodo

Quanto era stupendo il cielo ieri notte?
Terso, sereno, pieno di luminosissime stelle... e la luce brillantissima della luna che con la sua purezza abbracciava i rami spogli degli alberi!
E' passato troppo in fretta questo dicembre.
Dicembre è un mese che certamente ci richiama alla memoria il nostro essere fragili, la bellezza dell'umiltà e la pazienza nell'attesa.
Però è anche un mese che, sebbene sia un po' malinconico, desidera la vita.
Nelle aurore e nei tramonti dorati di dicembre si possono scorgere le stesse tinte di arancio e rosa che caratterizzano i crepuscoli di settembre, nelle limpide e soleggiate giornate di dicembre si scorgono echi della chiara luce dell'estate, nelle nubi alte, vaporose e grigie c'è un richiamo alla primavera, alla voglia di pioggia, di acqua e quindi di rinascita della vita.

Vorrei proporvi una poesia piuttosto suggestiva di Salvatore Quasimodo. E' il modo migliore per iniziare il 2019!!

RIFUGIO D'UCCELLI NOTTURNI:

In alto c’è un pino distorto;
C. Friedrich, "L'albero dei corvi", 1822

sta intento ed ascolta l’abisso
col fusto piegato a balestra.
 
Rifugio d’uccelli notturni,
nell’ora più alta risuona
d’un battere d’ali veloce.
 
Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.


Tutta questa lirica è basata su un'analogia tra il pino distorto e il cuore del poeta. 

La pianta, che si trova a ridosso di una scogliera, è piegato ad arco su un abisso come se volesse ascoltare una voce misteriosa. 
Quest'immagine, che appare nella prima strofa, rimanda all'interiorità di Quasimodo, all'animo quindi di un poeta che cerca di comprendere il senso dell'esistenza.
La seconda strofa aggiunge la presenza degli uccelli, con i battiti veloci delle loro ali.
L'ultima invece, si concentra su un io poetico che si riconosce nell'albero sospeso.
Notate che vista e udito si alternano in questa poesia.

In questa lirica, la notte assume una particolare rilevanza; e non soltanto ambientale: la notte qui è anche simbolica, dal momento che si riferisce anche ai momenti più difficili e più dolorosi della vita. 
D'altra parte, nei periodi di travaglio o in situazioni drammatiche, non ci sentiamo un po' tutti come dei pini distorti, in bilico e piegati all'ingiù?
Un dramma, una tragedia, degli imprevisti spiacevoli... tutti eventi che minano le nostre sicurezze, le nostre poche certezze. Tutti avvenimenti che dovrebbero farci "ripiegare su noi stessi" per riflettere, sui nostri limiti e sulle nostre risorse. 
Per riflettere tra le lacrime e per poi stringere i pugni e continuare.
Ha senso dare un senso alla nostra esistenza?! 
Non siamo noi che scegliamo i nostri genitori, non siamo noi a scegliere i compagni di classe, i compagni di corso e i componenti di un gruppo di un'attività extra-studio.
Non siamo noi a controllare il nostro tempo: non solo il futuro è un tempo troppo esteso per poter essere dominato da una mente umana, ma addirittura il presente è incontrollabile, perché, "esistenzialmente" parlando, continua a scorrere.
C'è differenza tra tempo verbale e aspetto verbale. Tutte le lingue lo evidenziano.
E il greco antico è una di quelle che sa marcare benissimo questa diversità. 
Non per nulla in greco c'è l'aoristo, cioè, "l'indeterminato"(ἀόριστος). 
L'aoristo di per sé non ha una connotazione temporale, esprime azioni compiute, delimitate dall'inizio alla fine, già definite sulla linea immaginaria del tempo.
E' errato identificarlo totalmente come il corrispondente italiano passato remoto. 
Solo se in un testo compare all'indicativo, allora è traducibile con il passato remoto. 
Negli altri modi verbali può anche essere tradotto al presente o anche al futuro.

Quando leggo questa lirica, è facile per me richiamare alla mente le mie lunghe camminate in montagna.
Da adolescente adoravo le escursioni, anche se le facevo soprattutto nei periodi estivi.
Da liceale adoravo sentire la soddisfazione di aver raggiunto il Telegrafo su una delle cime del Baldo e amavo essere accarezzata dalle nuvole.
Io ero così: mi sedevo su una roccia, socchiudevo gli occhi e respiravo profondamente, affascinata dalle molteplici forme delle nubi poco più basse di me.
Le nubi che mi sfioravano mi ricordavano vivamente tutte quelle persone che hanno sempre saputo amarmi per quella che sono, che hanno riposto fiducia in me. E anche tutti coloro che, in fin dei conti, mi hanno considerata una sorta di "rifugio" in cui riporre ansie, inquietudini, gioie e soddisfazioni.
Quello però (ed è sempre bene specificarlo!) della mia adolescenza è stato un periodo difficilissimo.
Però, anch'io spesso sono piegata ad "ascoltare un abisso".
Cerco di disegnare dei progetti di vita e di ravvivare la fiamma dei miei sogni. 
In questo modo allevio e ho sempre alleviato l'ansia che compare in certi momenti.
Lassù, mi sentivo parte di un Creato straordinario!!!


Per me il 2018 è stato fantastico! Innanzitutto per la laurea.
Poi anche perché ho imparato qualcosa di molto importante dagli adolescenti che incontro in parrocchia: prendersi cura dell'altro significa mettersi in ascolto, interessarsi di quello che è e di quello che fa.
Il vero animatore adolescenti, il vero responsabile di un grest sa ascoltare, non tratta aprioristicamente dei giovanissimi come se fossero tutti degli imbecilli. 
Quest'anno mi sono impegnata, ho fatto quello che ho potuto per rendere l'ambiente parrocchiale un ambiente accogliente, e so di non essere stata l'unica.
Non ho fatto molto, ma quel poco che ho fatto mi ha resa una ragazza più ricca interiormente.


Per questo 2019 ho diversi progetti, che tengo dentro di me.
Alcuni di voi si chiederanno: verrà alla luce quel benedetto romanzo prima del prossimo dicembre? Potrebbe darsi. 
E' da un anno e mezzo che ci sto lavorando a periodi.
Per il momento, siccome sono una persona ben ancorata a terra, preferisco parlarne poco di questa faccenda, perché devo finire di revisionarlo per poi darlo in pasto all'editoria senza troppe illusioni.
...E durante il 2019 si vedrà!