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20 gennaio 2019

L'isola di Alcina:


E' una minima parte del canto VI° dell'Orlando furioso di Ariosto. Dal momento che in questo semestre, oltre ad approfondire la storia del romanzo ho avuto l'occasione di conoscere meglio l'epica italiana, vi propongo alcune ottave relative ad una delle molte avventure di Ruggiero, eroe che, nel quarantaseiesimo ed ultimo canto di quest'opera, convola a nozze con la guerriera cristiana Bradamante, dando così origine alla dinastia degli Este.
Naturalmente l'intento del poema epico-cavalleresco di Ariosto è encomiastico, come però lo è anche la Liberata di Tasso, composta alcuni decenni più avanti, nei confronti di Alfonso II d'Este.

Scrivo alcune righe introduttive per contestualizzare il brano:
Ruggiero, volando in groppa ad un ippogrifo, un animale ibrido tra cavallo e uccello, raggiunge l'isola di Alcina, maga che lo seduce. In effetti, le lusinghe di Alcina e le bellezze dell'isola, per un periodo fanno quasi dimenticare a Ruggiero l'amata Bradamante, che successivamente lo libera.
                         
 [17]  
     Ben che Ruggier sia d’animo costante,
     Né cangiato abbia il solito colore,
     Io non gli voglio creder che tremante
     Non abbia dentro più che foglia il core.
     Lasciato avea di gran spazio distante
     Tutta l’Europa, ed era uscito fuore
     Per molto spazio il segno che prescritto
     Avea già a’ naviganti Ercole invitto.

                             
                                 [18]
     Quello ippogrifo, grande e strano augello,
     Lo porta via con tal prestezza d’ale,
     Che lasceria di lungo tratto quello
     Celer ministro del fulmineo strale.
     Non va per l’aria altro animal sì snello,
     Che di velocità gli fosse uguale:
     Credo ch’a pena il tuono e la saetta
     Venga in terra dal ciel con maggior fretta.

   
 [19]
     Poi che l’augel trascorso ebbe gran spazio
     Per linea dritta e senza mai piegarsi,
     Con larghe ruote, omai de l’aria sazio,
     Cominciò sopra una isola a calarsi;
     Pari a quella ove, dopo lungo strazio
     Far del suo amante e lungo a lui celarsi,
     La vergine Aretusa passò invano
     Di sotto il mar per camin cieco e strano.

   
 [20]
     Non vide né ’l più bel né ’l più giocondo
     Da tutta l’aria ove le penne stese;
     Né se tutto cercato avesse il mondo,
     Vedria di questo il più gentil paese,
     Ove, dopo un girarsi di gran tondo,
     Con Ruggier seco il grande augel discese:
     Culte pianure e delicati colli,
     Chiare acque, ombrose ripe e prati molli.

   
 [21]
     Vaghi boschetti di soavi allori,
     Di palme e d’amenissime mortelle,
     Cedri ed aranci ch’avean frutti e fiori
     Contesti in varie forme e tutte belle,
     Facean riparo ai fervidi calori
     De’ giorni estivi con lor spesse ombrelle;
     E tra quei rami con sicuri voli
     Cantanto se ne gìano i rosignuoli.
     

 [22]
     Tra le purpuree rose e i bianchi gigli,
     Che tiepida aura freschi ognora serba,
     Sicuri si vedean lepri e conigli,
     E cervi con la fronte alta e superba,
     Senza temer ch’alcun gli uccida o pigli,
     Pascano o stiansi rominando l’erba;
     Saltano i daini e i capri isnelli e destri,
     Che sono in copia in quei luoghi campestri.

   
 [23]
     Come sì presso è l’ippogrifo a terra,
     Ch’esser ne può men periglioso il salto,
     Ruggier con fretta de l’arcion si sferra,
     E si ritruova in su l’erboso smalto;
     Tuttavia in man le redine si serra,
     Che non vuol che ’l destrier più vada in alto:
     Poi lo lega nel margine marino
     A un verde mirto in mezzo un lauro e un pino.

   
 [24]
     E quivi appresso, ove surgea una fonte
     Cinta di cedri e di feconde palme,
     Pose lo scudo, e l’elmo da la fronte
     Si trasse, e disarmossi ambe le palme;
     Ed ora alla marina ed ora al monte
     Volgea la faccia all’aure fresche ed alme,
     Che l’alte cime con mormorii lieti
     Fan tremolar dei faggi e degli abeti.


Il volo dell'Ippogrifo comprende gli stessi identici orizzonti, considerati vastissimi in epoca rinascimentale, di quella nave guidata dalla Fortuna sulla quale nella Liberata Carlo e Ubaldo, a inizio canto XV°, salgono per raggiungere l'isola di Armida. Con questo parallelismo vorrei far presente che il contenuto dell'ottava 17 allude ad un superamento delle Colonne d'Ercole, che, anche nella Commedia di Dante, segnavano il confine oltre il quale nessun uomo avrebbe potuto spingersi. Sia l'isola di Alcina, sia l'isola di Armida si trovano oltre le Colonne d'Ercole.

L'Ippogrifo vola, più veloce di un lampo. 
In letteratura il lampo, indiscutibilmente, è sempre stato l'emblema della rapidità e l'elemento più adatto a rappresentare una sensazione di improvviso.
Cito indirettamente alcuni esempi qui sotto.

1) Per Cavalcanti l'innamoramento è un fulmine che irrompe all'improvviso in una finestra all'interno di una torre.

2) Per Pascoli, nella breve lirica Il lampo, la luce istantanea del fulmine nella notte di un temporale notturno fa apparire e sparire l'immagine di una casa bianca in una frazione di secondo.

3) Anche Alessandro, nei suoi Promessi sposi, ricorre a similitudini e metafore inerenti al lampo.
  Ad esempio, nel primo capitolo, quando i due bravi menzionano Don Rodrigo al curato Don Abbondio; nella mente di quest'ultimo, preso da una sensazione di soggezione nei confronti del nobile signorotto, il nome Don Rodrigo è come un momentaneo lampo che illumina gli oggetti.

Mi soffermo brevemente sull'ottava 19, dal momento che in questo punto si trova un richiamo ad un episodio inserito nel III° canto dell'Eneide di Virgilio: Aretusa era una ninfa che, per sfuggire all'amore del fiume Alfeo, si era rifugiata lungo le coste della Sicilia. Ma lì, la dea Diana l'aveva trasformata in fontana.

A partire dall'ottava successiva invece, inizia la vera e propria descrizione dell'isola, dotata di una grande varietà di elementi, proprio come lo è anche l'isola di Armida.
Ad ogni modo, ho evidenziato tutte le entità naturali del giardino.
Vedete come la molteplicità caratterizza questo luogo? La molteplicità delle meraviglie della natura, che distrae Ruggiero dai suoi veri sentimenti.
Le mortelle sono i mirti, piante che sono sempre state sacre a Venere.
In un momento successivo si scoprirà che il mirto al quale Ruggiero lega l'Ippogrifo è Astolfo, che è stato trasformato da Alcina in quella pianta.
Scrivo un'osservazione che per voi potrà sembrare azzardata. E' un mio strano collegamento mentale: Astolfo trasformato in pianta mi ha ricordato Pier delle Vigne nella selva dei suicidi del canto XIII° dell'Inferno di Dante. Pier delle Vigne era poeta vissuto alla corte siciliana che era morto suicida dal momento che non poteva più sopportare le invidie e le calunnie sul suo conto da parte di altri cortigiani. Calunnie che purtroppo avevano indotto il sovrano di Palermo ad esiliarlo.
Ad ogni modo, in quel canto, i suicidi sono tutti trasformati in piante le cui foglie vengono rosicchiate dalle Arpie. Tenete presente che Dante è vissuto ed è morto nel Medioevo, per cui all'epoca il suicidio era un peccato grave, era considerato un affronto fatto a Dio: Dio ti dona la vita e tu te la togli.
Ve la traduco ora da laica del XXI° secolo in profonda ricerca di Dio, secondo le mie idee: i genitori ti danno la vita. Proprio i genitori, persone fragili che non ti capiranno mai fino in fondo per quanto tu abbia un buon rapporto con loro. E nessuno dovrebbe permettersi di giudicare il grande dolore di un suicida, perché ogni essere umano è dotato di libero arbitrio e perché mai nessuno potrà completamente capire e intuire le ragioni di una scelta così estrema e disperata.
Credo sia bellissima la convinzione cristiana secondo la quale tutti noi siamo dei "progetti" di vita presenti nella mente di Dio, ma nei miei periodi un po' malinconici come questo fatico a crederci.

Rileggetevi il primo verso dell'ottava 22. A me questo richiama l'inizio di un sonetto di Guinizzelli:
"Io voglio del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio". Sonetto che ho imparato a memoria in seconda media. Già allora la letteratura mi piaceva un sacco; già allora qualcosa approfondivo e imparavo da sola.
Tutti i critici della letteratura dicono che il giglio è simbolo di purezza, la rosa invece di passione amorosa ed erotismo.
Frasi come "Cogliam la rosa", cioè versi, mi sembra, di Poliziano, vogliono dire soprattutto: "Cogliamo la verginità della ragazza. Se non ora che siamo giovani, quando altrimenti?"
E con questo annullo ogni ingenuità.

Ad ogni modo, l'autore che più di tutti gli altri nutriva un gran rispetto per la corporeità femminile era Alessandro, senza dubbi. Lo si intuisce da come le descrive nel suo stupendo romanzo.
L'unico che forse le sapeva amare veramente, come credo che abbia amato profondamente le sue due mogli (vedovo di Enrichetta, aveva poi conosciuto Teresa).
E finalmente domani ho l'esame su Alessandro.


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