"L'animatore nel suo servizio non deve abbandonare i ragazzi a loro stessi"
(cit. Alessandro)
Un breve percorso artistico e letterario su questo stato d'animo comune a tutti gli uomini.
1-JUMANJI:
Parto proprio dalla trama del film dal quale i responsabili del Grest del mio paese hanno tratto la storia, realizzata in brevi momenti di scenografie.
Nel 1869, al buio e sotto una pioggia torrenziale, due ragazzi seppelliscono una cassa in un bosco.
Cent'anni dopo, Alan Parrish, ragazzino tormentato dai bulli, sente tra gli scavi di un'impresa edile uno strano battito di tamburi, e ritrova la cassa. Al suo interno c'è uno strano gioco da tavolo chiamato "Jumanji".
Alan decide di portarlo a casa e, la sera stessa del ritrovamento, inizia a giocare una partita con l'amica Sarah.
Quello che a prima vista sembra un semplicissimo gioco in scatola appare in realtà un oggetto pieno di sorprese inquietanti. Quando, sia Sarah che Alan, tirano i dadi, le conseguenze appaiono terrificanti: Sarah fugge dalla casa dei Parrish inseguita da uno stormo di pipistrelli africani e Alan invece viene risucchiato dal gioco secondo la formula rimata: "nella giungla dovrai stare finché un cinque o un otto non compare".
Ventisei anni dopo, nel 1995, la vecchia villa dei Parrish diviene proprietà di Nora e dei suoi due nipoti Judy e Peter, rimasti orfani a causa di un incidente d'auto dei genitori.
E' l'autunno del 1995. Prima di uscire di casa per prendere l'autobus e per raggiungere la scuola, Judy e Peter, attirati dal suono dei tamburi, raggiungono la soffitta. Lì trovano il famigerato gioco in scatola e iniziano una partita. Ben presto, anche loro si rendono conto di essersi imbattuti in qualcosa di molto pericoloso: dal gioco infatti scaturiscono scimmie, zanzare, leoni, mandrie tipiche delle praterie africane, tempeste violente, ragni enormi, piante carnivore, un cacciatore che con il suo fucile spara a chiunque...
Ma un aspetto positivo, in tutte queste comparse, c'è: Peter riesce a far uscire "5" come risultato durante un tiro e quindi ricompare Alan, un Alan adulto vestito di fogliame della giungla.
Alan è un personaggio determinante per Judy e Peter, dal momento che li aiuta ad affrontare la paura di animali ed elementi naturali più grandi e più potenti di loro.
Oltre a ciò, Alan riesce a coinvolgere di nuovo Sarah, che appare ancora molto traumatizzata dagli eventi accaduti 26 anni prima.
Alan vince la partita e, nel pronunciare la parola "Jumanji", fa scomparire tutto ciò che era fuoriuscito dal gioco.
Animali esotici, piante carnivore e nuvole da forti tempeste vengono risucchiati dal gioco e il tempo ritorna indietro al 1969, all'abbraccio tra Sarah e Alan.
Negli ultimi minuti del film, si piomba invece alla vigilia di Natale del 1994, dove si vedono Sarah e Alan che stanno per diventare genitori e che hanno allestito una cena a casa loro, dove sono invitati anche Judy, Peter, i loro genitori e la zia Nora.
Animali esotici, piante carnivore e nuvole da forti tempeste vengono risucchiati dal gioco e il tempo ritorna indietro al 1969, all'abbraccio tra Sarah e Alan.
Negli ultimi minuti del film, si piomba invece alla vigilia di Natale del 1994, dove si vedono Sarah e Alan che stanno per diventare genitori e che hanno allestito una cena a casa loro, dove sono invitati anche Judy, Peter, i loro genitori e la zia Nora.
La trama è complicata. I nostri responsabili sono stati molto bravi a renderla con le varie scenette quotidiane e anche a trasmetterla.
Il principale messaggio del film è che le paure vanno affrontate e che una vita passata a stare sdraiati sul divano senza mai prendere decisioni è in realtà una non-vita. Bisogna scegliere, rischiare, affrontare timori e difficoltà e mettersi in gioco per vivere veramente!
Sapete che discorsi mi fanno piuttosto spesso negli ultimi periodi? Eccoli qui: "Ma non hai paura di diventare un'insegnante? Proprio nelle scuole secondarie andresti con i tuoi titoli di studio? Avrai soprattutto alunni oppositori, incivili, maleducati!"
Sembrerò matta ma io in realtà ho fiducia nei ragazzini e negli adolescenti.
Perché semplicemente li rispetto come persone che possono aver subito anche dei vissuti decisamente drammatici.
Una delle sfide più grandi e più complesse della mia futura carriera di insegnante sarà quella di cercare di far comprendere, soprattutto agli adolescenti che provengono da contesti familiari tragici e molto gravi, che la vita non è solo schifo, paura di adulti cattivi e abusanti, dolore e violenza. C'è una bellezza e una positività che, inizialmente con fatica, possono e devono cercare prima di tutto dentro di loro. Solo dopo che l'avranno scoperta (e per scoprirla servono degli adulti che si mettano pazientemente in cammino con loro) potranno divenire persone estremamente significative per molti, anche per me.
2-L'URLO DI MUNCH:
Quel che colpisce subito è proprio quel volto in primo piano, simile al cranio di uno scheletro.
Quel volto dagli occhi piccoli, tondi e sbarrati che sembra gridare con angoscia la propria solitudine e il proprio sgomento.
Notate inoltre le due figure sullo sfondo: esse camminano l'una vicina all'altra e si allontanano incuranti del dolore e dell'angoscia dell'individuo, il cui malessere non sembra interessarli.
A mio avviso, questo è un dipinto che, se osservato profondamente, inviterebbe ad essere un po' più umani, a mettere da parte l'egoismo e l'indifferenza per creare ponti di empatia.
In fin dei conti, quella creatura vestita di nero, senza capelli e dalle guance scavate vuole dire questo: l'insensibilità e l'individualismo fanno paura. Sono atteggiamenti che purtroppo tutti subiamo e che ci fanno provare un senso di solitudine opprimente, una solitudine che deriva proprio dalla paura di essere e di rimanere non amati e incompresi.
Un'ultima cosa: il paesaggio oltre il ponte è quello dei fiordi norvegesi, blu scuri, curvi e ondulati come le tinte arancioni, rosse e del cielo.
In una sua pagina di diario, Munch stesso delinea le circostanze (autobiografiche) che lo hanno portato alla creazione di questo quadro:
Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. (...) Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Questo è diventato "L'urlo".
3- UNGARETTI, "FRATELLI":
Nella letteratura, tutti lo sappiamo, il brano in prosa che più di altri ha come tematica la paura è il primo capitolo dei "Promessi sposi", nel punto in cui Don Abbondio incontra i due bravi di Don Rodrigo.
Dal momento che è un esempio troppo ovvio, ometto il dialogo fra questi tre personaggi del capolavoro manzoniano per proporvi invece due poesie di Ungaretti scritte in tempo di guerra, nelle quali si può scorgere anche la tematica della paura.
Mariano, 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
La brevità di Ungaretti non è sempre facile da decifrare.
Questa lirica è stata composta a Mariano del Friuli (località attualmente in provincia di Gorizia).
In questo testo, "fratelli" è una parola-chiave, che collega tra loro espressioni suggestive ma non di immediata comprensione come: "parola tremante", "foglia appena nata", "aria spasimante", "involontaria rivolta".
Le tematiche proposte in questa poesia sono due: la paura, legata alla realtà della guerra che mette ogni soldato di fronte alla fragilità della condizione umana, e la fratellanza, valore positivo che due reggimenti diversi provano ad instaurare in una notte di terrore.
Qui sotto, in una tabella, ho riassunto le espressioni più significative collegate sia alla paura che alla fragilità.
PAURA
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FRAGILITA’
|
Un'altra lirica di Ungaretti che ricorda la condizione estremamente fragile e precaria dei combattenti della Grande Guerra è sicuramente "Soldati":
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
Questa è tutta una similitudine che mette a confronto la condizione dei soldati con quella delle foglie degli alberi in pieno autunno: in ogni istante della guerra c'è il pericolo della morte e dunque costante è la paura di dover chiudere gli occhi per sempre.
4- SENECA E LA MORTE COME ESPERIENZA QUOTIDIANA:
Premetto che, mentre a mio avviso, la letteratura latina arcaica è una copia sbiadita della invece grandiosa letteratura greca, soprattutto per quel che riguarda i generi della commedia e della tragedia, la letteratura latina di età imperiale (da Ottaviano Augusto in poi) è decisamente più interessante, perché compaiono finalmente delle figure di filosofi che riflettono sul valore del tempo e sulla paura della morte. Uno di questi è Seneca, nato nella penisola iberica il 4 a.C.
Seneca, Epistulae ad Lucilium, 24, 20:
"Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit. Infantiam amisimus, deinde pueritiam, deinde adulescentiam. Usque ad hesternum quidquid transit temporis perit; hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus. Quemadmodum clepsydram non extremum stilicidium exhaurit sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, sed diu venimus."
AVVERTENZA!= La mia è una traduzione praticamente istantanea e senza dizionario. Lessicalmente parlando, potrebbe non essere perfetta. Il senso globale c'è, comunque.
"Ogni giorno moriamo, quotidianamente infatti ci viene sottratta una parte della vita, e allora anche quando cresciamo (o avanziamo negli anni) la vita decresce. Perdiamo l'infanzia, poi la fanciullezza, poi l'adolescenza. Si va morendo fino alla fine per tutto il tempo che si attraversa, questo stesso giorno che trascorriamo lo dividiamo con la morte. Allo stesso modo in cui l'ultima goccia non esaurisce la clessidra ma qualsiasi (goccia) è defluita prima, così l'ultimo istante in cui noi smettiamo di esistere non è la sola cosa che provoca la morte ma la sola che la testimonia; allora a quella giungiamo ma siamo giunti a lungo."
E', a mio avviso, uno dei passi più significativi delle lettere al discepolo Lucilio. Ed è la pura verità: ogni fase della nostra crescita è anche una diminuzione graduale dei giorni che ci restano da vivere. Quotidianamente il nostro tempo va quindi incontro alla morte. Per Seneca la morte è una delle leggi supreme dell'Universo e, ovviamente, è inevitabile.
Per questo bisogna "bene vivere".
In più opere egli sente il bisogno di placare il suo timore e il timore degli uomini verso la morte. Coraggiosa, sempre da parte di Seneca, è l'affermazione (non ricordo più da quale opera): "Che cos'è la morte, se non fine o passaggio?".
Penso inoltre ad un'altra opera di cui invece ricordo bene il titolo, che è la Consolatio ad Polibium, dove Seneca, nel consolare Polibio che aveva appena perduto per sempre il suo amato fratello, dice che i morti hanno la possibilità di contemplare l'ordine del cosmo.
Credo che la vera morte non consista tanto nella fine biologica e naturale della vita, quanto piuttosto nell'assenza di amore, di pace, di entusiasmo.
(cit. Anna, agosto 2019)
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