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3 settembre 2020

Alcune poesie tratte da "Lavorare stanca", raccolta del Pavese poeta:

"LAVORARE STANCA":

Il titolo della raccolta è curioso (ed è una verità!). E' una raccolta composta dopo la metà degli anni '30, periodo in cui Pavese, in quanto antifascista, era esiliato a Brancaleone Calabro.

Importante è sottolineare che in queste poesie è presente il tema del paesaggio (e si tratta frequentemente di paesaggi di collina). L'autore stesso ha numerato in caratteri romani le varianti del paesaggio (e quindi, con le diciture "Paesaggio I", "Paesaggio II", "Paesaggio III", "Paesaggio IV" etc.)


CARATTERISTICHE METRICHE:

Tutte queste poesie presentano strofe eterometriche, cioè di varia lunghezza e diverse l'una rispetto all'altra, e versi ipermetri, ovvero, versi che eccedono per numero di sillabe, versi spesso più lunghi dell'endecasillabo canonico italiano.

Oltre a ciò, i versi di Pavese, sebbene siano di norma più lunghi del decasillabo italiano, proprio come quest'ultimo, tendono al ritmo anapestico (il piede anapestico è formato da due sillabe brevi e una lunga: uu-/uu-/uu-).

IL DECASILLABO NELLA STORIA DELLA POESIA ITALIANA:

Metrica è un ramo dell'italianistica che mi è piaciuto molto affrontare nel corso della magistrale in Filologia. Non posso non mostrarvi questo sintetico excursus storico-letterario.



PAESAGGIO IV:

I due uomini fumano a riva. La donna che nuota

senza rompere l’acqua, non vede che il verde

del suo breve orizzonte. Tra il cielo e le piante

si distende quest’acqua e la donna vi scorre

senza corpo. Nel cielo si posano nuvole

come immobili. Il fumo si ferma a mezz’aria.


Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. La donna

vi trascorre sospesa; ma noi la schiacciamo,

l’erba verde, col corpo. Non c’è lungo le acque

altro peso. Noi soli sentiamo la terra.

Forse il corpo allungato di lei, che è sommerso,

sente l’avido gelo assorbirle il torpore

delle membra assolate e discioglierla viva

nell’immobile verde. Il suo capo non muove.

 

Era stesa anche lei, dove l’erba è piegata.

Il suo volto socchiuso posava sul braccio

e guardava nell’erba. Nessuno fiatava.

Stagna ancora nell’aria quel primo sciacquío

che l’ha accolta nell’acqua. Su noi stagna il fumo.

Ora è giunta alla riva e ci parla, stillante

nel suo corpo annerito che sorge fra i tronchi.

La sua voce è ben l’unico suono che si ode sull’acqua

– rauca e fresca, è la voce di prima.

 

Pensiamo, distesi

sulla riva, a quel verde piú cupo e piú fresco

che ha sommerso il suo corpo. Poi, uno di noi

piomba in acqua e traversa, scoprendo le spalle

in bracciate schiumose, l’immobile verde.

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Allora. Una strofa per volta. Già dal primo verso è chiaro che, in questo delicato e delizioso paesaggio, ci sono due uomini e una donna (e forse, si tratta di un'amante di Pavese per un periodo).

(...) non vede che il verde/del suo breve orizzonte. Questi sono i versi 2-3, riferiti alla donna che sta nuotando. Per tutta la poesia è naturale chiedersi: ma sono le rive di un laghetto o di un corso d'acqua più simile a un fiume o ad un'affluente come il Mincio o il Tione a Villafranca, a circa 10 km da casa mia? Però mettersi a nuotare nel Tione è un'azione da pazzi, perché la corrente molto probabilmente porterebbe via qualsiasi corpo umano. Io ho voluto interpretare queste espressioni come un implicito richiamo alla fragilità umana. Il Pavese poeta non è affatto facile, ma è questo a renderlo affascinante secondo me! L'orizzonte qui è preceduto dall'aggettivo "breve". In genere, l'orizzonte, in letteratura italiana indica un limite di visibilità, dunque sarebbe un elemento che permetterebbe agli uomini dotati di notevole sensibilità di prendere coscienza dei loro limiti, visivi, conoscitivi e umani. Questo aspetto emerge anche nell'Infinito di Leopardi, come negli articoli poetico-paesaggistici di Comisso e come anche emerge in Luoghi e paesaggi di Zanzotto.

In quest'acqua, la donna vi scorre senza corpo. Sembrerebbe una creatura in perfetta sintonia con l'ambiente circostante, osservata dai due uomini che, seduti a riva, stanno fumando. 

Nel cielo si posano nuvole/come immobili: in Paesaggio V, come vedremo fra non molto, l'autore parla di colline immobili che, con la loro consistenza, riempiono il cielo.

Si potrebbe dividere la seconda strofa di questo componimento in due parti: nei primi quattro versi emerge il contrasto fra leggerezza e pesantezza, mentre, negli ultimi quattro, si dice che l'acqua fredda dona refrigerio al corpo accaldato della donna. Da qui si intuisce che siamo in un'afosa giornata di piena estate. 

Mamma mia, mi viene in mente quel sabato di inizio agosto quando, con questa mia nuova compagnia che frequento in questi ultimi mesi, siamo riusciti ad organizzare un'avventurosa mezza giornata di rafting sull'Adige. Faceva decisamente caldo. Su indicazione dell'istruttore, a turno, in alcune zone del fiume, siamo scesi dalla canoa per sentire il freschetto dell'acqua del nostro Adige (che era però decisamente fredda!).

Ad ogni modo, ciò che mi colpisce di questi ultimi quattro versi della strofa è quell'espressione piuttosto suggestiva membra assolate. C'è il verso di una poesia, nella raccolta zanzottiana intitolata Dietro il paesaggio, che dice membra gemelle. Si tratta della poesia giovanile intitolata L'acqua di Dolle (=Rolle, nella realtà geografica, paesino collinare del trevigiano). Però in Pavese, l'acqua ristora le membra della donna dal calore opprimente, in Zanzotto invece, c'è l'eco di Novalis. Si dice in effetti che Novalis avesse fatto un sogno in cui egli stesso si trovava immerso nelle tranquille acque di un fiume. Ad un tratto, un corpo femminile lo avrebbe abbracciato da dietro. Zanzotto, richiamandosi a Novalis, immagina che nel ruscelletto che scorre sulla collina di Rolle, ci sia un corpo femminile. Le "membra gemelle" sarebbero o le gambe o le braccia, più facilmente.

Della terza strofa forse non c'è molto da spiegare. La donna è giunta alla riva. Volto socchiuso sono in realtà gli occhi socchiusi. Sciaquìo è un verbo onomatopeico che rimanda ad un suono. Il corpo annerito è semplicemente il corpo abbronzato. 

Nell'ultima strofa, il verde è definito più cupo e più fresco. Le ombre degli alberi si riflettono sull'acqua (per questo è più cupo) e il sole, dopo che la donna è riemersa, sta scomparendo o è appena scomparso dietro le chiome degli alberi. 

Anche se qui il paesaggio non è descritto in modo dettagliato, io me lo sono immaginata in due modi: o un ruscello in mezzo ad un prato con molti alberi o una radura con un laghetto circondata dagli alberi di un bosco circostante (tipo Fié allo Sciliar, in Alto Adige).


PAESAGGIO V:

(Prime due strofe)

Le colline insensibili che riempiono il cielo

sono vive nell'alba, poi restano immobili

come fossero secoli, e il sole le guarda.

Ricoprirle di verde sarebbe una gioia

e nel verde, disperse, le frutta e le case.

Ogni pianta nell'alba sarebbe una vita

prodigiosa e le nuvole avrebbero un senso.


Non ci manca che un mare a risplendere forte

e inondare la spiaggia in un ritmo monotono.

Su dal mare non si sporgono piante, non muovono foglie:

quando piove sul mare, ogni goccia è perduta,

come il vento su queste colline, che cerca le foglie

e non trova che pietre. Nell'alba è un istante:

si disegnano in terra le sagome nere

e le chiazze vermiglie. Poi torna il silenzio.

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All'inizio, le colline sono insensibili, cioè, immobili, elevate in tutta la loro forma e in tutta la loro altezza verso il cielo, ravvivate dalla luce del mattino (vive nell'alba). Si tratta di colline brulle, inaridite forse dalla siccità. Anche il monte Baldo è brullo. Sia nella zona trentina, sulla cima al di sopra di Brentonico, sia nella zona di Costabella, sia in quella fra il Chierego e il Telegrafo.

Per Pavese, la presenza di alberi da frutto renderebbe più ridente il paesaggio. Il sole dell'alba e le nuvole, portatrici di pioggia, sono altri elementi garanti della vita e della fecondità del suolo. Questa prima strofa mi richiama l'incipit di Paesaggio I: Non è più coltivata quassù la collina. Ci sono le felci/ e la roccia scoperta e la sterilità. 

All' inizio della seconda strofa si parla del ritmo monotono del mare. Pensate a come inizia il capitolo di Palomar, Lettura di un'onda: 

Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un'onda. Il signor Palomar vede spuntare un'onda in lontananza, crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire e rifluire. A questo punto potrebbe convincersi d'aver portato a termine l'operazione che s'era proposto e andarsene. Però isolare un'onda separandola dall'onda che immediatamente la segue e pare che la sospinga e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile, così come separarla dall'onda che la precede e che sembra trascinarsela dietro verso la riva.

Il signor Palomar, protagonista dell'opera, sta osservando il moto delle onde del mare, sempre uguale, sempre monotono, con lo stesso ritmo e lo stesso rumore.

Bella la frase: ogni goccia è perduta. Nell'immensità del mare, aggiungerei io. Mi fa pensare ad un famoso aforisma di Madre Teresa di Calcutta: 

Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe. 

Il soffio del vento arriva alle pietre e non trasporta foglie. Il silenzio permea l'atmosfera. E il colore predominante, a quanto pare, è il rosso vermiglione (vermiglio), non il verde.


I MARI DEL SUD:

Oooh... una poesia che mi piace moltissimo ma siccome è molto lunga (otto strofe) ed ha dei discorsi diretti fra l'autore e il cugino, ve ne riporto alcune parti.

Prima strofa:

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
un grand’uomo tra idioti o un povero folle
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Il poeta e il cugino fanno una passeggiata in collina, nei dintorni, come si dirà successivamente, di Santo Stefano Belbo, paese natale dell'autore. Il sole è appena tramontato. Il cielo non è del tutto scuro, è crepuscolo. Non c'è accenno né al sorgere né alla luminosità della luna.


E' presente la metafora cugino=gigante. Per vent'anni il cugino è stato molto lontano dal paesaggio piemontese. In effetti, nella terza strofa del componimento si parla dell'isola della Tasmania e dell'Oceano Pacifico (ed ecco qui il senso del titolo Mari del Sud). E' indubbiamente un cugino, viaggiatore, è andato lontano e questa è una caratteristica che lo accomuna ad Anguilla, il protagonista della Luna e i falò. Come Anguilla, anche questo cugino ritorna a 40 anni dai suoi viaggi oltreoceano.

Pavese è stato un poeta e uno scrittore abbastanza sensibile al tema del viaggio come esperienza di vita, come volontà di realizzazione delle proprie ambizioni.

Quinta strofa (prima metà- primi 14 versi):

Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così”.
Mio cugino ha una faccia recisa.
Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.

Dopo i suoi lunghi viaggi e dopo la fine della guerra, il cugino si stabilizza, prende casa e prende anche moglie a quanto sembra. I soldi "non se li mangia" con i vizi o assecondando capricci superflui, ma si serve di questi per la propria stabilità e per la propria realizzazione affettiva.

Sesta strofa-vv.1-2 e v.8:

Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.

I due uomini continuano la loro passeggiata. Attorno a loro si fa più forte la presenza del vento. Questo è l'inizio della sesta strofa.

Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio (...)

E' notte ormai. Il sole sta sorgendo sull'emisfero opposto. Il vento diffonde il delicato profumo della terra... io so cosa significa, visto che vivo in campagna e ai piedi della collina di Sona.

Ottava strofa:

Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

Eh sì. Verità geologica. Un uomo in Tasmania o in qualche altra isola esotica prova meraviglia di fronte ad alba e tramonto ma per le isole, antiche almeno decine di migliaia di anni-se non centinaia- il sorgere del sole non è una meraviglia, non è una suggestione... è consuetudine. Senza contare che le isole, in quanto entità geografiche e geologiche, non hanno cervello e cuore.


Facciamo in modo di non diventare come le isole, allora.

Personalmente, non penso sia necessario andare tanto lontano per godere delle meraviglie di un'alba o di un tramonto.


La felicità probabilmente non esiste.
E la serenità non è uno stato d'animo,
è un modo di reagire 
alle difficoltà di tutti i giorni, 
è il mio modo di affrontare la vita. 

(Perla a fine post. Settembre è il mio mese di nascita. Ormai i miei anni iniziano a diventare un po' tantini.)


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