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4 dicembre 2020

La convivialità fra amici nella poesia latina:

Penso che, in un periodo difficile e precario come questo, la convivialità sia ciò che maggiormente ci manca. D'altra parte, con quasi mille morti in un giorno, organizzare feste e cenoni fra tre settimane sarebbe qualcosa di assurdo, di veramente irresponsabile e di incosciente.

Ritorneremo a goderci (e ad apprezzare di più) le opportunità delle relazioni fra diversi mesi. Nel frattempo fa sempre bene leggere, conoscere e approfondire le tradizioni e la modalità di vivere i rapporti umani di qualche millennio fa.

Comunque, saremo anche calati come numeri di infetti e di contagi, ma la situazione è ancora decisamente fuori controllo, come ormai sono fuori controllo le mie abitudini di routine quotidiana. 

Riesco a studiare; è che dovrei tener salve le mie 9 diottrie, e invece, a notte fonda, mi ritrovo davanti ad un film di fantascienza o d'horror. 

Il film "3022" lo conoscete?! Fa schifo. Non ha il minimo senso, è un'americanata fantascientifica con una contraddizione enorme: siamo nel 2195 e i protagonisti sono degli astronauti in viaggio nello Spazio. La Terra è appena esplosa, l'umanità, a parte loro, è estinta. Sull'astronave rimangono scorte di cibo per soli 28 giorni, da dividere in 4. Fossero soltanto in due le scorte durerebbero invece più o meno due mesi. Però due astronauti muoiono molto prima dello scadere del ventottesimo giorno. E gli altri come cavolicchio fanno ad essere ancora vivi dopo 3022 giorni?! 3022 giorni sono circa 8 anni e 1/2. Fra 28, 60 e 3022 giorni mi sembra che un pizzichino di differenza ci sia...


LE CENE FRA AMICI NELL'ANTICA ROMA:


A) CATULLO CARME 13:

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam ,attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusve est;
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod tu cum olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.


Cenerai bene, o mio Fabullo, presso di me

fra pochi giorni, se gli dei te lo consentono

se con te porterai una cena abbondante e squisita

non senza una bella ragazza

e vino, sale e molte risate.

Se, come dico, porterai tutto ciò, caro mio,

cenerai bene. Infatti il borsellino 

del tuo Catullo è pieno di ragnatele.

Ma riceverai una genuina accoglienza e per di più

quello che c'è di più gustoso e di più raffinato:

infatti ti darò il profumo che le Veneri e gli Amorini

hanno donato alla mia ragazza.

Tu, o Fabullo, quando lo annuserai, pregherai gli dei

che ti facciano diventare tutto naso.


vv.3-5: Soprattutto tra adulti, noto che ancora oggi, c'è la tradizione di portare qualcosa quando ci si reca a casa da amici a cenare. (meno male che questa consuetudine sopravvive ancora).



Cachinnis= Più correttamente: "risatine". Questo termine, a mo' di latinismo, è presente in una poesia di Zanzotto, scritta il 31 dicembre 1999, alle soglie del nuovo millennio. E' una poesia che si intitola Luna starter di feste bimillenarie. Questa lirica è un'apostrofe alla luna. La luna, all'inizio di questo componimento, è, metaforicamente, una fotomodella di altissimo rango. 

Ma ecco la parte che ci interessa di più per l'analisi: Ma di certo un lievissimo cachinno/ti sfugge mentre adocchi sulla Terra/formicolar la gente assatanata.

Elegantius= Qui è nella sua forma comparativa. Suo sinonimo, però più frequente in Orazio, è concinnus.

Infine, ecco a voi tutti i verbi latini che corrispondono al "dire" italiano: in questo componimento c'è "inquam" ma esistono anche "aio", "dico", "loquor" (però più nel senso di "parlare") e anche, ma più arcaico, "for, faris, fatus sum, fari".


B) ORAZIO, EPISTOLA I,V°, ALCUNE PARTI:

vv.1-3:

Si potes Archiacis conviva recumbere lectis

nec modica cenare times holus omne patella

supremo te sole domi, Torquate, manebo.


Se puoi, o invitato, sdraiarti sui letti di Archia

né temi di cenare con un modesto piatto di ogni verdura,

alla fine del giorno ti aspetterò a casa (mia), Torquato.


Premessa: Questa è l'epistola V° del primo dei due libri delle Epistole oraziane. Ben si adatta al tema che qui sto trattando, ma la mia lettera preferita è la successiva, la sesta, cioè quella in cui, secondo me, è più evidente l'apprezzamento di Orazio per lo stoicismo. L'epistola VI° la trovo di una malinconia seducente, avrò il tempo di presentarvela credo alla fine della sessione invernale. Tanto per circa i 2/3 questo esame è preparato.

Comunque, in questi versi iniziali, Orazio formula il suo invito a cena per l'amico Torquato, personaggio abbastanza influente nella vita pubblica romana. Il fatto che Orazio proponga una cena a Torquato per la sera del giorno stesso dell'invito è segnale di un buon grado di confidenza tra i due.

Archiacis lectis= "letti di Archia", visto che "letti Archiaici" è una resa di traduzione molto brutta e, a mio avviso, cacofonica. Archia era una artigiano di origine greca. Preciso che, in quel tempo, si mangiava non seduti, ma semisdraiati.

Supremo sole= "al tramonto del sole" o "alla fine del giorno". Un'espressione di uguale significato è un altro ablativo assoluto: occidente sole.

vv.7-11:

Iamdudum splendet focus et tibi munda supellex

mitte levis spes et certamina divitiarum

et Moschi causam: cras nato Caesare festus

dat veniam somnumque dies: impune licebit

aestivam sermone benigno tendere noctem.


Già da un po' splende il fuoco e per te i mobili sono lucenti;

lascia le vane speranze, le contese per le ricchezze

e la causa di Mosco; domani il giorno festivo per la nascita di Cesare

ci regala riposo e sonno: si potrà impunemente 

protrarre la notte estiva con piacevoli chiacchiere.


Supellex= il mobile- qui meglio tradurlo al plurale: "i mobili". Sui mobili sembra riflettersi la luce del fuoco di un caminetto vicino.

Moschi causam= la "causa di Mosco", che, all'epoca, aveva destato scalpore a Roma. Mosco era stato accusato di "veneficio"= di aver avvelenato qualcuno. Questa epistola risale evidentemente prima del processo e della sua condanna definitiva.

Nato Caesare= Non Giulio Cesare! Anche perché qui, quando Orazio scrive, con tutta probabilità siamo nel 23 a.C. Il Caesare è Ottaviano Augusto, che compiva gli anni il 23 di settembre. E' grazie a questi versi che riusciamo a collocare in modo abbastanza preciso l'epistola: è stata scritta nella seconda metà del mese di settembre, che per i Romani era un mese decisamente estivo, dal momento che soffiavano, nelle ore pomeridiane, l'austro e lo scirocco; e quest'ultimo portava la malaria. Settembre, e poi tutto l'autunno "romano" in generale, è un mese di morte (cfr. Epistola VII°: ...dum ficus prima calorque/dissignatorem decorat lictoribus atris: mentre i primi fichi e il caldo decorano il dissignatore dei testamenti con gli scuri littori.).

Adesso settembre è il mese di transizione dall'estate all'autunno: le temperature di giorno sono miti e gli alberi ancora non perdono le foglie. Ci sono, negli ultimi anni, dei settembre in cui si avverte molto l'escursione termica fra il giorno e la sera.

Ad ogni modo, nel periodo del mio compleanno non c'è mai stata né l'afa né il freddo.


Benigno sermone= Le chiacchiere piacevoli tra amici che prolungano il tempo o meglio, che fanno dimenticare lo scorrere del tempo. Succede anche ora, vero?! Anche dopo circa 2000 anni, quando ci troviamo con le persone che più amiamo o con le quali siamo più in sintonia...

vv. 21-27:

Haec ego procurare et idoneus imperor et non

invitus, ne turpe toral, ne sordida mappa

corruget naris, ne non et cantharus et lanx

ostendat tibi te, ne fidos inter amicos

sit qui dicta foras eliminet, ut coeat par

iungaturque pari: Butram tibi Septiciumque

et nisi cena prior potiorque puella Sabinum

detinet adsumam; (...)


Io sono obbligato, adatto e non malvolentieri,

a procurare queste cose: che la tovaglia non sia sporca,

che il tovagliolo sporco non faccia arricciare le narici,

che tu possa specchiarti sia nel càntaro che nel piatto,

che si stia fra amici fidati, che ciò che viene detto, rimanga qui (tra noi),

che il pari sia connesso al proprio pari: per te aggiungerò Butra e Setticio

e, se non lo trattiene una cena precedente o una ragazza più bella, Sabino.


Butra, Setticio e Sabino erano amici di Torquato, amici ai quali Orazio pensa di estendere l'invito.

Eccovi qui un po' del lessico latino della tavola:

Mappa= tovagliolo

Toral= tovaglietta, pezzo di stoffa utilizzato per coprire il triclinio

lanx=piatto

Cantharus= coppa a due manici.


C) MARZIALE, EPIGRAMMI, LIBRO III°, N°45:

Fugerit an Phoebus mensas cenamque Thyestae 

ignoro: fugimus nos, Ligurine, tuam. 

Illa quidem lauta est dapibusque instructa superbis, 

sed nihil omnino te recitante placet.

Nolo mihi ponas rhombos mullumve bilibrem 

nec volo boletos, ostrea nolo: tace.


Non so se Febo sia sfuggito alle mense e alla cena di Tieste:

noi, Ligurino, fuggiamo la tua.

Certamente la tua cena è lauta e ricca di cibi sontuosi,

ma nulla, nel complesso, ci piace, mentre tu reciti.

Non voglio che tu mi prepari dei rombi o una triglia di due libbre,

né voglio i boleti, né desidero ostriche: taci.


Eccola qui, la solita proverbiale perentorietà di Marziale.

L'amico Ligurino era un poeta che, a tutti i suoi ospiti, propinava la recita delle sue poesie. Si dice avesse un talento poetico abbastanza mediocre. Ad ogni modo, la lettura di componimenti poetici era abbastanza frequente, nelle case dei ceti elevati, durante le cene.

La cena guastata dalla recitazione viene addirittura paragonata alla cena di Tieste che aveva mangiato, inconsapevolmente, le carni cotte dei suoi figli imbanditegli per vendetta dal fratello Atreo. Il Sole, qui, con l'appellativo greco di "Febo", per non dover assistere alla scena, aveva invertito il suo corso.



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