22 APRILE 2023= GIORNATA MONDIALE DELLA TERRA
Che cosa vuol dire coltivare e custodire la terra? Il verbo coltivare mi richiama alla mente la cura che l'agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta attenzione, passione e dedizione! Coltivare e custodire il Creato vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti. Noi invece siamo spesso guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare: non la custodiamo, non la rispettiamo, non la consideriamo un dono gratuito di cui avere cura. Ma il coltivare e il custodire non comprende solo il rapporto tra noi e l'ambiente, tra l'uomo e il creato, riguarda anche i rapporti umani.
(Papa Francesco, un'udienza del 2013)
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Il passero solitario è una poesia sulla primavera, sulla dolcezza della natura e sulla solitudine che adoro. Di mia iniziativa l'avevo imparata a memoria ai tempi delle medie.
Da adolescente mi identificavo in Leopardi e nello stato d'animo che deve aver provato nel comporla.
E' composta da tre lunghe strofe e fa parte della raccolta dei Canti, pubblicata nel 1835 a Napoli.
Il passero solitario è diverso dal passero comune: è un po' più grande, canta invece di cinguettare e non è gregario.
Riporto una strofa per volta accompagnata dalle mie spiegazioni:
PRIMA STROFA:
D’in su la vetta della torre antica,passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
La torre antica del primo verso è il campanile della Chiesa di Sant'Agostino a Recanati, luogo in cui è ambientata la poesia. Su questa torre un passero solitario continua a cantare, finché non giunge il tramonto del sole, sulla cima della torre antica.
Ci sono alcuni chiari riferimenti a Petrarca in questa prima strofa:
1) L'inizio del verso 2 è un richiamo al verso del sonetto 226 di Petrarca: passer mai solitario in alcun tetto.
2) Il cantando vai del verso 3 riprende un verso del sonetto 353: Vago augelletto che cantando vai.
Brilla il sole primaverile, i campi sono rigogliosi di fiori. E questo suscita tenerezza nel cuore dell'autore, molto attento e molto sensibile ai suoni di questa campagna: oltre alle greggi, gli uccelli festosi riempiono il cielo, in compagnia gli uni con gli altri, felici per l'arrivo della primavera (il lor tempo migliore). Ma il passero solitario, per sua definizione, non è tra loro e non è interessato alla compagnia delle altre specie.
Canti, e così trapassi/dell’anno e di tua vita il più bel fiore. Questa è una constatazione che il poeta fa di se stesso e della sua gioventù appartata, pienamente immersa nei libri, senza amicizie, senza occasioni di svago. Proprio da qui inizia il parallelismo tra il poeta e il passero solitario.
La maggior parte di questo componimento si fonda su una larghissima similitudine tra il comportamento del passero e il comportamento del poeta.
Tuttavia, il passero è solitario per sua natura, Leopardi è solitario prima di tutto perché è stato relegato per tutta l'adolescenza nella biblioteca di casa da un padre rigido e autoritario. Se, da una parte, ha potuto sviluppare il suo genio letterario e ha potuto acquisire una vastissima conoscenza delle materie umanistiche, dall'altra, una volta giunto in età matura e, come prevede nel momento in cui scrive, da vecchio, rimpiangerà di non essere stato spensierato.
SECONDA STROFA:
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia.
E te german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno.
Oimè, quanto somiglia/ al tuo costume il mio! La seconda strofa inizia con questa esclamazione non gioiosa.
Leopardi non cerca piaceri e divertimenti e di questo si pente una volta giunto alle soglie dell'età matura. Anzi, oltre che solo, si sente strano ed estraneo al luogo stesso in cui ha trascorso la giovinezza. La primavera ha un valore qui non soltanto stagionale ma anche come tempo della vita.
Il termine german deriva dal latino germanus che a sua volta proviene da germen indica i fratelli di sangue legati da un profondo affetto: in questo contesto sta ad indicare che anche l'amore è legato alla giovane età.
L'ultima parte della seconda strofa parla di una festa: la gioventù recanatese si prepara con entusiasmo ad un evento di società, forse, una festa tradizionale di paese. Loro stato d'animo di quei giovani non coincide con quello di Leopardi e intanto il sole si nasconde tra i monti. E' un sole che ferisce gli occhi del poeta e sembra annunciargli che la giovinezza è agli sgoccioli.
Quante volte nella letteratura italiana e latina si dice che la giovinezza è fugace e non certo eterna!
TERZA STROFA:
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
Il finale di questo canto è struggente. Dalle tre domande che Leopardi pone a se stesso traspaiono desolazione e dolore.
Quest'ultima strofa istituisce una contrapposizione tra Leopardi e il passero, in particolar modo, sulla vecchiaia che vivranno: la vecchiaia in solitudine del passero sarà data dalla natura e dal destino, mentre invece quella di Leopardi sarà occasione di amarezza inconsolabile.
Il canto Il passero solitario presenta una serie di antitesi: compagnia/solitudine, giovinezza/vecchiaia, felicità/malinconia, dolore e rassegnazione/interesse per la vita, spensieratezza/pentimento.
In questa lunga canzone poetica gli endecasillabi si alternano ai settenari. Le due metafore più importanti sono costituite dal collegamento tra la primavera e la giovinezza e da quello fra il tramonto e la fine della giovinezza.
Anafore:
-non compagni, non voli,/non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
-quasi fuggo lontano;/quasi romito, e strano
-Odi per lo sereno un suon di squilla,/odi spesso un tonar di ferree canne...
-che parrà di tal voglia?/Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
Chiasmi:
-brilla (A) nell’aria (B), e per li campi (B) esulta (A)
-greggi (A) belar (B), muggire (B) armenti (A)
!Importante!
Come A Silvia, anche questo componimento è costruito su un dialogo fittizio nel quale il poeta-interlocutore non può dare risposte: in A Silvia perché Teresa Fattorini è morta, nel Passero Solitario perché l'interlocutore è un animale.
Che cos'è per voi lettori la solitudine? Che cosa significa essere e sentirsi soli?
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Vi lascio, a conclusione del post, le fotocopie del capitolo decimo del "Docat", traduzione per giovani della Dottrina sociale della Chiesa. Questo breve capitolo riguarda l'ambiente. Vale la pena di leggerlo, anche perché a mio avviso è la parte migliore.
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