Sto per iniziare una serie di post legati alla tematica del declino dell'aristocrazia con conseguente ascesa della borghesia. Parto con un'opera di letteratura spagnola.
Non so molto di letteratura spagnola... alcuni anni fa ricordo di aver iniziato la lettura di "Don Chisciotte" ma senza terminarla (l'ho trovato un romanzo troppo ripetitivo), motivo per cui ho preferito assistere ad una rappresentazione teatrale della storia.
1) CARATTERISTICHE PRINCIPALI DEL ROMANZO PICARESCO:
L'origine del termine "picaresco" è tutt'ora incerta e sono state formulate diverse ipotesi:
-potrebbe derivare da "picaros", ovvero, "popolani senza fissa dimora che vivono di espedienti per poter sopravvivere e che, dopo molte fatiche e travagli, migliorano le loro condizioni di vita divenendo parte della classe borghese".
-forse la denominazione di questo genere romanzesco deriva da "picard", cioè, "abitante della Piccardia", derivato a sua volta dal fiammingo dispregiativo "picker", riferito ad una persona di bassa estrazione sociale.
Il romanzo picaresco è nato in Spagna nel XVI° secolo. Gli autori di queste opere, impegnati a sottolineare il declino della classe aristocratica e il tramonto degli ideali cavallereschi, sono spesso ignoti.
In questo filone letterario il protagonista di solito coincide con il narratore (ma non con l'autore!) e presenta le seguenti caratteristiche: è di umile estrazione sociale, la sua narrazione è in prima persona, racconta gli episodi della sua vita dall'infanzia alla maturità e la sua "iniziazione alla società" avviene a causa di un fatto spiacevole che dà inizio ai suoi viaggi e alle sue avventure.
2) CONTENUTI ROMANZO:
La prima edizione di quest'opera risale al 1554; dunque, nel periodo del regno di Carlo V° d'Asburgo.
Se anche ai giorni nostro non è possibile attribuire un determinato autore a questo libro, gli studiosi di letteratura spagnola sono tuttavia sicuri che provenga dagli ambienti culturali dei cristianos nuevos che sostanzialmente erano ebrei molto colti e forzatamente convertiti al Cristianesimo dopo l'editto di espulsione del 1492 da parte dei Re cattolici. A sostegno di questa tesi largamente condivisa sarebbero alcuni riferimenti alla cultura classica del prologo oltre che una vena anti-clericale presente soprattutto nella prima metà dell'opera.
Nel prossimo paragrafo ritornerò su alcune parti del prologo.
Il libro è strutturato secondo l'ordine cronologico della fabula. Questo significa che non sono previsti flashbacks. Il protagonista inizia raccontando innanzitutto le proprie origini:
La mia nascita avvenne dentro il fiume Tòrmes, e per questo motivo presi il soprannome. E avvenne in questo modo: mio padre, che Dio lo perdoni, lavorava come mugnaio in un mulino che sta sulla riva di quel fiume e nel quale macinò per oltre quindici anni. E trovandosi una sera mia madre al mulino, incinta di me, le vennero le doglie e mi partorì lì. Quando ero un bambino di otto anni, imputarono a mio padre certi mal fatti salassi nei sacchi di quelli che venivano lì a macinare, e per questo fu imprigionato, e confessò e non negò, e incorse nella persecuzione della giustizia.
Poco dopo, Lazaro entra a servizio di diversi padroni: un cieco e un uomo di chiesa, entrambi molto avari, uno scudiero nullatenente, un frate dal quale riceve il suo primo paio di scarpe, un fraudolento venditore di bolle papali... si libera dei suoi padroni in modo a tratti divertente a tratti vendicativo, basti pensare a quando fa sbattere il cieco contro un pilastro.
Si potrebbe definire Lazaro una sorta di anti-eroe che in tenera età deve escogitare diversi stratagemmi per sopravvivere.
Le pagine in cui il giovanissimo protagonista si trova a servizio del sacerdote sono davvero drammatiche anche per il fatto che evidenziano l'ipocrisia della Chiesa dell'epoca:
E per nascondere la sua gran tirchieria mi diceva: "Bada ragazzo, i sacerdoti devono essere molto morigerati nel bere e nel mangiare, per questo io non mi abbuffo come fanno altri". Ma quell'avaraccio mentiva sapendo di mentire, perché quando andavamo a pregare per le confraternite o alle veglie funebri, cioè a spese altrui, mangiava come un lupo e beveva come una spugna.
(...) Pensavo di lasciare quel padrone taccagno, ma esitavo per due ragioni: la prima che non osavo affidarmi alle mie gambe, per paura dell'estrema debolezza in cui mi teneva la fame, la seconda era che meditavo e dicevo: "Io ho avuto due padroni: il primo mi faceva morire di fame e quando l'ho lasciato sono andato a imbattermi in quest'altro, che a forza di fame finirà per seppellirmi. Se mollo questo e ne trovo uno ancora peggiore che sarà di me se non crepare del tutto?". Con queste considerazioni non osavo muovermi, perché ero certo che avrei conosciuto tutti i toni più bassi della scala. E se fossi sceso di un'altra nota nessuno al mondo avrebbe più sentito suonare il nome di Lazaro.
Nel terzo capitolo, Lazaro si rende ben presto conto di trovarsi costretto a mantenere il padrone scudiero con l'elemosina:
Per farla corta passammo in questo modo otto o dicei giorni, con quel disgraziato che ogni mattina se ne andava per la strada con tanta soddisfazione, il passo solenne e il naso per aria, e il povero Lazaro a chiedere la carità per lui. Io riflettevo spesso sulla mia sfortuna: scappato dai padroni taccagni che avevo avuto per cercare una sorte migliore, ero andato a finire con uno che non solo non mi manteneva ma che anzi dovevo mantenere io. E tuttavia gli volevo bene davvero, perché vedevo che non aveva nulla e non poteva far altro, e avevo per lui più pietà che rancore. E molte volte, pur di portare a casa di che sfamare lui a malapena sfamavo me stesso.
In spagnolo la parola hidalgo corrisponde al nostro italiano scudiero.
Credo sia interessante sottolineare che questo personaggio, incontrato da Lazarillo a Toledo, non proviene dalla tradizione letteraria iberica ma dalla realtà storico-sociale della Spagna imperiale.
La comparsa dell'hidalgo conferisce dunque un carattere di realismo alla presente opera: gli hidalgos, nobili proprietari terrieri, erano esenti dal pagamento delle imposte ed erano boriosi e indolenti come il giovin signore di Parini.
Gli hidalgos vivevano di apparenze e non conoscevano i sacrifici quotidiani del vivere, molto spesso facevano lavorare i servitori.
Alla fine della storia il protagonista diviene un banditore e a quel punto trova moglie e la sua vita adulta risulta molto migliore rispetto ai trascorsi dell'infanzia e dell'adolescenza. Nelle ultime pagine del libro è quindi diventato un membro della borghesia mercantile.
3) IL PROLOGO:
Si potrebbe dividere il prologo in due sezioni: nella prima parte si mette in luce l'importanza della trasmissione degli eventi della storia e il diritto della ricerca di fama gloriosa da parte di uomini di valore. Nella seconda parte invece il lettore scopre che il personaggio principale proviene dagli strati sociali più bassi e che con il suo romanzo si rivolge ad un'autorità (Sua signoria).
(...) Plinio dice che "non c'è libro, per cattivo che sia, che non abbia in sé qualcosa di buono", soprattutto se si considera che non tutti i gusti sono uguali, e ciò che ad uno non piace può sembrare prelibato a qualcun altro; così vediamo che cose disprezzate da alcuni non lo sono affatto per altri.
Qui il riferimento è legato a Plinio il Giovane che riporta le parole dello zio Plinio il Vecchio nelle Epistolae, III, 10: "Dicere etiam solebat nullum esse librum tan malum, ut non aliqua parte prodesset".
Se non fosse così, infatti, ben pochi scriverebbero solamente per uno, perché non lo si fa senza fatica, e quelli che lo fanno vogliono essere compensati non con il denaro, ma con la speranza che le loro opere siano conosciute e lette e , se lo meritano, lodate. E a questo proposito Tullio dice: "La gloria dà vita alle arti".
Qui l'autore si riferisce a Cicerone il quale, nelle Tuscolanae, asseriva: "honos alit artes".
Questa parte di prologo tra l'altro mi fa tornare in mente la κλέος greca (=fama, gloria riferita agli eroi epici) che a sua volta deriva dal verbo κλύω, "ascoltare", chiarissimo riferimento all'oralità dell'epica greco-arcaica, trasmessa di generazione in generazione per secoli.
Molto probabilmente il termine κλέος proviene dal proto-indoeuropeo *klewos indicante "una gloria che non può decadere" dal momento che nelle società proto-indoeuropee non c'era ancora il concetto di una vita dopo la morte.
Riporto anche alcune frasi della seconda parte del prologo:
Supplico Vostra Signoria di accettare l'umile omaggio dalla mano di chi ne offrirebbe uno assai più ricco se le sue possibilità fossero pari al suo desiderio. E poiché Vostra Signoria scrive che le si scriva ed esponga il caso con tutti i dettagli, mi è sembrato corretto trattarlo non dalla metà ma dall'inizio, affinché si abbia un'idea esauriente della mia persona...
4) FRANCISCO GOYA- "LAZARILLO E IL CIECO":
A destra vediamo delle fiamme mentre, in primo piano, il cieco sta infilando le dita nella bocca del personaggio principale del romanzo in modo tale da assicurarsi che non abbia mangiato una salsiccia. Naturalmente l'episodio è narrato nel libro.
E' presente l'oscurità cromatica che rafforza un messaggio ben preciso: la Spagna dell'epoca di Goya è caratterizzata da una diffusa miseria sociale e morale, sta diventando un paese in cui ognuno pensa a se stesso.