Ci tenevo a leggere per intero questa commedia (e in effetti è una delle mie letture della scorsa settimana).
In questo post però presterò una particolare attenzione ai molti spunti classicheggianti, intertestuali ed esistenziali che, a mio avviso, possono essere ricavati proprio dalla prima pagina che contiene la canzone iniziale.
L'intertestualità, lo sto studiando proprio in questo periodo in Storia della critica letteraria, indica il rapporto che un testo letterario ha con altri testi sia dal punto di vista linguistico-lessicale, sia dal punto di vista delle tematiche.
Talvolta gli autori fanno intenzionalmente dell'intertestualità, come ad esempio Tasso, quando, nel Canto IV° della Liberata, nel presentare Armida si richiama alla Canzone della Vergine contenuta nel Canzoniere di Petrarca. Però Tasso in questo caso compie una desacralizzazione del linguaggio lirico di Petrarca. E' un capovolgimento di contesto evidente per chi conosce molto bene la letteratura italiana.
Altre volte però l'intertestualità è inconsapevole e, come un po' affermava anche Oscar Wilde, sta al lettore o al critico letterario cercare di scorgerla o addirittura di crearla. Il lettore e il critico, con le loro attente analisi e letture, possono riuscire a realizzare "una creazione dentro la creazione".
STRUTTURA E TITOLO DELLA COMMEDIA:
Scritta nel 1518 e costituita da una canzone iniziale, un prologo e cinque atti, quest'opera prende il titolo dal nome di una radice alla quale, più di 500 anni fa, venivano attribuite caratteristiche afrodisiache e fecondative.
A) CANZONE DA DIRSI INNANZI ALLA COMMEDIA:
Cantata da ninfe e pastori insieme
Perché la vita è brieve
e molte son le pene
che vivendo e stentando ognun sostiene;
dietro alle nostre voglie,
andiam passando e consumando gli anni,
5
ché chi il piacer si toglie
per viver con angosce e con affanni,
non conosce gli inganni
del mondo; o da quai mali
e da che strani casi
10
oppressi quasi sian tutti i mortali.
Per fuggir questa noia,
eletta solitaria vita abbiamo,
e sempre in festa e in gioia
giovin leggiadri e liete Ninfe stiamo.
15
Or qui venuti siamo
con la nostra armonia,
sol per onorar questa
sí lieta festa e dolce compagnia.
Ancor ci ha qui condutti
il nome di colui che vi governa,
in cui si veggon tutti
i beni accolti in la sembianza eterna
Per tal grazia superna,
per sí felice stato,
25
potete lieti stare,
godere e ringraziare chi ve lo ha dato.
-L'autore mette già un'indicazione che precede l'inizio di questa poesia: cantata da ninfe e pastori insieme.
Le parole del componimento che segue sono in effetti cantate da attori nei panni di pastori e ninfe, che, ad un tratto, fanno dei riferimenti al loro gioioso e soave stile di vita (terza strofa):
Per fuggir questa noia,
eletta solitaria vita abbiamo,
e sempre in festa e in gioia
giovin leggiadri e liete Ninfe stiamo.
15
Or qui venuti siamo
con la nostra armonia,
sol per onorar questa
sí lieta festa e dolce compagnia.
"Per fuggir a questa noia"= verso riferito all'angoscia della precarietà dell'esistenza umana. "Noia" non è nell'odierna accezione del "non saper cosa fare", bensì è più vicina al "qualcosa di triste e di spiacevole".
Comunque, ciò che mi interessa qui è l'evidente presenza di una caratteristica del periodo rinascimentale (Quattro e Cinquecento): il recupero di elementi ed entità tipiche della letteratura antica e pagana.
Ninfe e pastori provengono dall'idilliaco mondo dell'Arcadia, regione montuosa nel cuore del Peloponneso.
Secondo la cultura greca classica ed ellenistica, l'Arcadia era governata dal dio Pan e abitata certamente da ninfe, protettrici degli alberi e dei boschi.
Un'allusione al dio Pan c'è nella prima parte della quarta strofa:
Ancor ci ha qui condutti
20
il nome di colui che vi governa,
in cui si veggon tutti
i beni accolti in la sembianza eterna
"Colui che vi governa"= perifrasi indicante Pan.
Il tòpos letterario arcadico viene adottato anche dalla letteratura latina e, in particolare, da Virgilio nelle sue Bucoliche. Con Virgilio, l'Arcadia diviene simbolo della semplicità della vita dei pastori, sempre a contatto con la natura.
In alcuni punti delle Bucoliche però, Virgilio mette a contatto la vita pastorale immersa in un locus amoenus con la tematica dell'incombenza della morte, come in questi versi della quinta bucolica:
QUINTA BUCOLICA, VV.40-44:
Spargite humum foliis, inducite fontibus umbras,
pastores (mandat fieri sibi talia Daphnis),
et tumulum facite, et tumulo superaddite carmen:
«Daphnis ego in silvis hinc usque ad sidera notus
formosi pecoris custos formosior ipse».
Cospargete la terra di foglie, ricoprite di ombre le fonti,
pastori: Dafni raccomanda che per lui si facciano tali onori (più lett.: cose tali)
e costruite un tumulo e sul tumulo incidete la scritta:
«Io Dafni nei boschi, e qui conosciuto fino alle stelle,
custode di un bel gregge, io stesso più bello».
Poi arriva il Rinascimento.
In quest'opera di Machiavelli c'è un richiamo a ninfe e pastori, ma, circa 15 anni prima, un altro letterato italiano, napoletano per la precisione, fa di più: mi sto riferendo a Jacopo Sannazaro e al suo poema intitolato proprio Arcadia. Qui l'Arcadia è visto come un mondo naturale incorrotto da pettegolezzi e da falsità di corte.
E infine... chiudo il cerchio con l'Accademia dell'Arcadia, fondata a Roma nel 1690, il cui maggiore esponente era Pietro Metastasio (=cognome reale: Trapassi).
Ogni accademico che ne faceva parte sceglieva un nome tra quelli dei pastori protagonisti delle opere di carattere bucolico greco-latine.
Permettetemi una considerazione: all'alba del Settecento, mentre nelle altre letterature europee come quella francese, inglese, tedesca e spagnola nasce il genere del romanzo, in un'Italia caratterizzata da intellettuali ancora molto, forse troppo affascinati dal classicismo, si persevera, anzi, forse addirittura "ci si chiude" in una tradizione poetica che rievoca, con una notevole raffinatezza stilistica, un mondo paradisiaco e fittizio.
-Prima strofa:
Perché la vita è brieve
e molte son le pene
che vivendo e stentando ognun sostiene
Sostanzialmente qui si sta dicendo che la vita umana è breve, effimera, passeggera e che molti sono i travagli e le sofferenze che si sperimentano.
La vita è breve... "Cogli l'attimo, confidando il meno possibile nel domani", diceva Orazio nell'ultimo verso della prima Ode (Carpe diem quam minimun credula postero).
Occhio però: non vuol dire vivi a caso, vivi alla giornata e non pensare né programmare il tuo futuro. Vuol dire: godi di ciò che di bello e di piacevole il presente ti può offrire, perché è sbagliato proiettare la propria felicità soltanto in un tempo futuro che non ti è dato conoscere. (e infatti, chi mai, a metà febbraio, avrebbe potuto immaginare che l'Italia e l'Europa intera sarebbero state dichiarate "in stato d'emergenza sanitaria causa nuovo virus sconosciuto"?). Non puoi vivere senza sogni e senza aspettative, ma ad ogni modo non pretendere che il tempo ti permetta di realizzarle tutte e non aspettarti che tutto vada sempre bene.
Seneca non sarebbe d'accordo però su ciò che è scritto nel primo verso. Per lui la vita non è breve. Nelle Epistulae morales ad Lucilium afferma che: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. ("Non è vero che abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto").
Secondo me è un pensiero abbastanza affascinante. E' così anche per voi?
Credo che il tempo presente scorra continuamente dinanzi a noi trasformandosi sia in passato che in futuro. A nessuno di noi è dato sapere quanto tempo abbiamo. Abbiamo la scelta dei modi in cui impiegarlo, però.
Forse è Cicerone che, nella sua opera filosofica De senectute (Sulla vecchiaia) esprime meglio quello che ho appena cercato di spiegare: Breve tempus aetatis, satis longum est ad bene honesteque vivendum. ("Breve è la durata della vita, ma abbastanza lunga per poter vivere bene e onestamente"). Io più che "breve" direi "sfuggente".
Pochi decenni più indietro, abbiamo la Canzone di Bacco composta da Lorenzo il Magnifico. Li avete sentiti ancora, quei quattro versi ottonari che fanno:
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Chi vuole essere felice, lo sia, tanto del futuro e di ciò che accadrà domani è impossibile sapere qualcosa!
In certi momenti non riesco a credere di avere 24 anni, 25 a fine settembre (e di aver trascorso due mesi almeno chiusa in casa). Sto invecchiando...
Ironia a parte, pian pianino mi avvio verso la maturità anch'io. E i prossimi anni saranno per me gli anni decisivi per la realizzazione professionale e forse anche affettiva.
-Seconda strofa:
dietro alle nostre voglie,
andiam passando e consumando gli anni,
5
ché chi il piacer si toglie
per viver con angosce e con affanni,
non conosce gli inganni
del mondo; o da quai mali
e da che strani casi
10
oppressi quasi sian tutti i mortali.
Concludo questa follia inter-testuale con il riferimento ad un salmo (il salmo 89).
Si dice qui: i nostri anni passano tra capricci e ambizioni (voglie). I mortali sono praticamente tutti oppressi da mali e "casi strani" (probabilmente si intende qui "eventi imprevisti").
Cito in modo frammentario il salmo :
Ai tuoi occhi, mille anni
sono come il giorno di ieri che è passato,come un turno di veglia nella notte.
Li annienti: li sommergi nel sonno;
sono come l'erba che germoglia al mattino:
al mattino fiorisce, germoglia,
alla sera è falciata e dissecca.
Di fronte alla grandezza e alla potenza di Dio, mille anni sono sostanzialmente un nulla, di fronte a Te, Signore, che Sei eterno, tutti quegli anni sono come un turno di veglia di notte, l'erba che al mattino germoglia e la sera diviene secca.
Invece, per la storia dell'umanità e per la piccolezza della mente degli studiosi (nemmeno paragonabile a quella di Dio!), in mille anni avvengono moltissimi cambiamenti politici, sociali, linguistici all'interno di una civiltà. Mille anni sono un'epoca (il Medioevo).
Mille anni di storia, aggiunti ad un pizzico di sensibilità e di morale, fanno comprendere quanto spesso le smanie di potere portino alla rovina (interiore e anche sociale).
Poco più avanti, il salmo recita così:
finiamo i nostri anni come un soffio.
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.
Adesso diremmo, credo (e comunque non vale per tutti!): "Gli anni della nostra vita sono ottanta, novanta o cento per i più robusti".
Qui siamo in un contesto vetero-testamentario.
quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.
...Aggiungo: con la speranza che, quando ce ne andremo per sempre, qualcuno ci porti nel cuore.
Adesso direte voi: che spunti confortanti, nel giorno del 1° maggio e in periodo di pandemia!
Per la vostra salute mentale io ho finito qui, non vedo altro di interessante in questa parte della Mandragola.
INVERNO IN ABRUZZO-GINZBURG:
Un semplice racconto tratto da Le piccole virtù di Natalia Ginzburg, libro di racconti in prevalenza autobiografici che vanno dal 1943 al 1962.
"Inverno in Abruzzo" è il primo. Non vi propongo, nella cartella 7, la versione integrale, perché io stessa ho voluto tagliare due paragrafetti non indispensabili per la comprensione dello sviluppo delle vicende. Li ho tolti perché gli spunti creativi e di riflessione, nei files riservati al commento, sono stati moltissimi.
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