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27 settembre 2018

"Cronaca familiare", Vasco Pratolini:


Alla morte non c'è rimedio, alla vita però è bene rimanere "attaccati" (cit. Anna, 27/09/2018)

Il primo capitolo è preceduto da una nota:

Questo libro non è un'opera di fantasia. E' un colloquio dell'autore con suo fratello morto. L'autore, scrivendo, cercava consolazione, non altro. Egli ha il rimorso di avere appena intuita la spiritualità del fratello, e troppo tardi. Queste pagine si offrono quindi come una sterile espiazione.

In quest'opera letteraria, Pratolini racconta ai lettori il suo rapporto con il fratello minore.
La cronologia della narrazione va dal 1918 al 1945.
Il libro è suddiviso in tre parti.


CONTENUTI PRIMA PARTE:

Nella prima parte, Pratolini si concentra prevalentemente sullo stile di vita, completamente differente, che i due fratelli hanno condotto nell'infanzia.
Tuttavia, egli ci fornisce anche diverse notizie sui giorni che seguirono la nascita del fratello.

Quando la mamma morì tu avevi 25 giorni. Eri ormai lontano da lei sul colle. I contadini che ti custodivano ti davano il latte di una mucca pezzata; ne ebbi anch'io una volta che venimmo a trovarti con la nonna. Era un latte denso, tepido, un po' acre, mi disgustò; il disgusto fu tale che lo ributtai sporcandomi il vestito: la nonna mi dette uno schiaffo. A te quel latte piaceva, ne eri ghiotto, ti giovava. Eri un bambino bello grasso, biondo, con due grandi occhi celesti.

La madre dei due fratelli Pratolini era morta nell'estate del '18, in seguito alla febbre spagnola.
Si era ammalata subito dopo il parto.
Ai due bambini, entrambi molto piccoli (lo puntualizzo perché anche Vasco, nel '18 aveva 5 anni), rimaneva soltanto la nonna, in quel brutto periodo di fine guerra. Il loro padre infatti, rimasto gravemente ferito nei combattimenti, era rimasto per molto tempo in ospedale.
La nonna aveva allora affidato il più piccolo, Dante, a una famiglia di contadini che lavoravano presso i signori baroni di Villa Rossa.
La baronessa, commossa dalla breve storia del neonato (almeno così si riferisce), aveva deciso di affidarlo alle cure del suo maggiordomo, che ne era in seguito divenuto il padre adottivo, contro la volontà della nonna dei due fratelli.
C'è una frase che ricorre più di una volta all'interno di questa prima parte del romanzo. Credo sia il caso di soffermarsi per rifletterci sopra:

Io avevo cinque anni e non potevo volerti bene: dicevano tutti che la mamma era morta per colpa tua.

...E non avevano idea, gli adulti, di quale effetto devastante potesse avere un discorso del genere in un bambino.
La tragica morte di una donna molto giovane non è dipesa affatto dal figlio neonato: è stata una mera disgrazia, punto. Il corpo già indebolito dall'atto del partorire era più vulnerabile a quell'epidemia mortale.
Nell'ultimo anno di guerra si era diffusa in Europa la "febbre spagnola", malattia che, nella prima metà del XX secolo aveva notevolmente ridotto l'aspettativa di vita della gente.
Colpiva soprattutto donne, bambini e anziani.
Vasco ammette di aver odiato suo fratello fino all'età dell'adolescenza:

Il tuo protettore era il suo maggiordomo (del Barone); lo serviva da quarant'anni. Non conosceva orizzonti diversi da quelli intravisti con gli occhi del padrone. (...) Una notte sognai che ridendo (...) egli si piegava sulla tua culla e ti soffocava, ti uccideva. Io ero in un angolo della stanza, dietro le cortine, e non intervenivo nemmeno con un grido. Brancicavo il vuoto con la mano e ad un tratto una mano si univa alla mia; mi accorgevo di avere la mamma al fianco che assisteva anch'essa in silenzio all'assassinio. Questo sogno si è ripetuto a distanza di tempo fin verso i miei quindici anni.
A volte la mamma lasciava la mia mano e si avvicinava alla tua culla; lui spariva immediatamente.

E' un romanzo tristissimo.
Tristissimo, sempre nel corso della prima parte, è il fatto che Pratolini autore abbia come primo ricordo della propria vita la madre morta nel letto.

Ciascun uomo ha memoria della sua vita da un certo giorno in avanti. Per certuni il primo ricordo è un giocattolo, per certi altri il sapore di un cibo, un ambiente, una parola, un volto, più volti. La prima realtà di cui io ho cognizione esatta è la mamma nel suo letto di morte.

Credo di aver sviluppato abbastanza precocemente la facoltà della memoria.
Ma, a dire il vero, senza darmene vanto, direi che quasi tutti gli stadi del mio sviluppo psico-fisico sono avvenuti un po' precocemente: mi dicono dalla regia che a 10 mesi già correvo e che a due anni recitavo bene delle filastrocche dopo averle sentite una o due volte soltanto. A un anno e mezzo pare che avessi già la "cognizione della perdita definitiva di una persona": mi credevano troppo piccola per capire che mio nonno materno Augusto era morto; in realtà, in quel periodo mia madre ha sofferto anche per me oltre che per il suo genitore.
Ma di tutto questo io non ricordo nulla, anche se ero già dotata di buona memoria uditiva.
La memoria visiva si è sviluppata poco dopo.

Aprile '99
Il primissimo ricordo che mi porto dentro non è né bello né brutto: ero in panetteria con mio padre. Ero così piccola che non arrivavo nemmeno al bordo del bancone della cassa del negozio, nemmeno se mi alzavo in punta dei piedi. Economicamente si ragionava ancora con le lire, anche se si parlava già della nascita di un'altra  moneta chiamata euro.
Ovviamente io non ho mai imparato a ragionare con le lire.
La fornaia diceva a mio padre, con voce un po' alta e stridula: "Duemila e cinque".
Una volta usciti da lì chiedevo: "Siamo nel duemila e cinque?"
E mio padre, asciutto e chiaro come sempre: "No, siamo nel 1999."
Avevo tre anni e mezzo in quella foto.
Come potete vedere: capelli neri, dritti, lunghi quasi alle spalle. E una frangetta oscena sulla parte destra della fronte, tenuta da una molletta!
Ero una bambina molto introversa e un po' malinconica. Non stavo mai in classe alla scuola materna: ero sempre o con la bidella, o nella piscinetta delle palline di plastica o con Mirco, un bambino un pochino più piccolo di me  con disabilità gravissime. Ma mi piacevano soltanto lui e la bidella.
A Mirco mettevo tra le mani i miei pupazzi e glieli facevo accarezzare.
Ai miei tempi (e non è che sia passato poi tanto perché adesso sono una ragazza), una bambina così era considerata "una con problemi di comportamento" perché aveva pochissimi rapporti con i suoi coetanei.
Non ero felice, anzi, ero convinta di essere cattiva. Una volta l'ho detto a Mirco e lui, per tutta risposta si era messo a strillare.
Non camminava, non parlava, non poteva mangiare e bere da solo, ma forse capiva o intuiva qualcosina di ciò che io gli dicevo.
Non è che le maestrine "di allora" si sprecassero tanto ad attuare dei progetti didattico-educativi anche per aiutare casi come il mio! (sì, e comunque nemmeno alle elementari, alle medie e al liceo si sprecavano tanto da questo punto di vista).
Detestavo la scuola materna con tutta me stessa. Mi annoiavo, il programma era sempre lo stesso, ogni anno: le quattro stagioni.
Forse ora riuscite a intuire uno dei motivi per cui voglio diventare insegnante: per valorizzare i ragazzini che sono più o meno come ero io. Perché sia i ragazzini un po' più sensibili e un po' più maturi, sia quelli con situazioni familiari difficili io voglio valorizzarli e aiutarli a integrarsi nel gruppo-classe, non voglio perderli! Sono i primi da coltivare, senza togliere alcun sacrosanto diritto di essere ascoltati anche a tutti gli altri!
Per questo ho promesso a me stessa che, quando entrerò in una classe della scuola media del mio paese (è la stessa scuola che ho frequentato io e, oltre a ciò, preside e vicepreside non vedono l'ora che io termini definitivamente gli studi per potermi dare un lavoro probabilmente annuale, visto che negli ultimi anni di insegnanti di Lettere siamo carenti!), cercherò di "avere quattro occhi".
Poi, sono avvantaggiata proprio dal mio specifico mestiere, ovvero, quello di insegnare italiano, materia che, attraverso i temi e attraverso le letture di antologia, mi permetterà abbastanza facilmente di far emergere delle sensibilità particolari. Sia alle medie che alle superiori, l'approccio alle tracce e ai passi antologici deve essere critico-riflessivo-dialogico.

Ad ogni modo, tornando alla storia, la famiglia della Villa si permette addirittura di cambiare nome al bambino: sostituiscono "Dante" con "Ferruccio".
E lo tengono presso di loro, per molti anni, con la pretesa di assicurargli una vita agiata e confortevole.
Passano alcuni anni: Vasco cresce come un bambino spontaneo e vivace, Ferruccio invece è triste e già molto rigido, troppo abituato alle regole di una casa di nobili (mai parlare a voce troppo alta, mai strillare, mai toccare gli animali, mangiare poco e soltanto in determinati momenti, esporsi al sole il meno possibile).

CONTENUTI SECONDA PARTE:

A causa della povertà, Vasco era stato costretto a interrompere gli studi per lavorare come garzone di bottega.
Per tutta l'adolescenza i contatti con il fratello si erano interrotti, perché l'unico giorno in cui i baroni li ricevevano era il giovedì... Peccato che, nei giorni feriali, gli umili popolani lavorino!

Nel frattempo però il barone muore e gli abitanti di Villa Rossa, servitù compresa, cadono in miseria.
Ferruccio allora, uscito da quell'ambiente chiuso che non gli permetteva nessun tipo di contatto con il mondo esterno, si era trovato ad affrontare i suoi primi problemi di sopravvivenza, con il fratello Vasco al suo fianco: come e dove trovare lavoro, dove alloggiare...

Intorno ai loro vent'anni, i due fratelli iniziano per la prima volta a sentirsi tali: chiacchierano a lungo e si vedono quasi quotidianamente.
Vasco inizia a comprendere che il fratello è un'anima molto sensibile e delicata.
Il dialogo che riporto qui sotto riguarda il primo incontro tra Vasco e Ferruccio dopo molti anni.
Ferruccio, come scrivevo prima, è divenuto povero, Vasco invece vive in uno squallido e malsano monolocale. La loro nonna, in seguito ad un periodo di malattia, si trova in una casa per anziani diretta da delle religiose, in centro a Firenze.

E d'improvviso, come pochi minuti prima, tu dicesti:
"Allora la nonna perché non fa che piangere quando andiamo a trovarla?"
"Sei stato dalla nonna?"
"Anche oggi, per chiederle il tuo indirizzo. Lei mi ha detto che tu eri a Roma, ma io ti avevo visto l'altro ieri in via Strozzi. Allora ho capito che l'avevi abbandonata."
Ti eri voltato su un fianco, verso l'esterno, e mi guardavi alzando il capo.
"Non voglio che mi veda ridotto così male", ti dissi. 

Questa parte termina con gli esordi di tubercolosi di Vasco, che riesce a guarire dopo due anni di ricoveri in sanatorio:

Appena a casa mi addormentai profondamente. Mi destai con una forte oppressione al petto, mi mancava il respiro, andai alla finestra, l'apersi e l'aria fresca dell'alba mi scese giù per la gola come una martellata. Sentii al palato sapore di sangue. Poche ore dopo ero in un letto d'ospedale.

(...) 

Occorsero due anni di sanatorio, fra i monti e un lago. Ci scrivemmo spesso. Avevi dovuto interrompere gli studi e ti eri impiegato. Le tue lettere erano come tu le scrivevi: timide, schive, timorose di espandersi eppure brulicanti di affetto e di generosità.
In esse io riconoscevo una delle cose che mi attaccavano alla vita. Una delle essenziali.

CONTENUTI TERZA PARTE:


Vasco riesce a riprendere gli studi e ad ottenere i titoli necessari per poter insegnare.
Però si ammala gravemente Ferruccio.
Nel periodo della malattia egli riconosce, come maggiore causa della sua solitudine, il non aver mai conosciuto la madre.
Straziante. Struggente. Doloroso.
Ho pensato subito a una scena di Marcellino pane e vino. E' un film inverosimile ambientato in una Spagna povera e rurale, eppure, quella scena in cui il Crocifisso chiede al bambino se, ad una vita intera trascorsa con i frati preferisce conoscere la madre, farebbe piangere anche le rocce del Carega.
Io, ogni volta che penso a questi minuti del film, faccio una fatica tremenda a trattenere le lacrime.
Eh sì povero bambino, così piccolo come sei che ci stai a fare al mondo senza l'affetto di una mamma? Avrebbe potuto portarti in Cielo con lei, no?
Probabilmente sto esagerando con quest'ultima esclamazione.
Però avete presente che razza di angoscia si portano dentro le persone che non hanno mai conosciuto la propria madre oppure che non conservano nemmeno un ricordo di lei viva?
Eppure, la vita dei bambini orfani può essere comunque piacevole e molto degna di essere vissuta, se hanno delle persone premurose accanto a loro.
Non voglio dire che perdere la madre da neonati o a 5 anni significhi essere dei poveri disgraziati senza speranza. Il vuoto di una perdita così non lo colma nessuno, su questo sono d'accordo.
Però le ragioni per vivere le si possono trovare soprattutto nella bontà e nella gentilezza di parenti, amici e conoscenti. Alla morte non c'è rimedio, alla vita però è bene rimanere "attaccati", perché, anche se in questo mondo ci sono molte cose che non stanno andando bene (e personalmente, diverse cose che mi piacciono poco), è pur vero che ci sono molteplici ragioni per godere della bellezza e dell'amore! Le meraviglie dei paesaggi naturali, l'incanto di un sole che tramonta, la libertà di scegliere secondo coscienza, il sorriso di un amico vero...
Io questo dolore non posso comprenderlo perché una madre ce l'ho sempre avuta e ce l'ho e  fortunatamente è anche in salute; però posso provare ad immaginarlo.
Ho fatto abbastanza fatica a leggere questo romanzo; in certi punti mi faceva piangere al punto tale da farmi venire le cefalee.
Pochi giorni prima di morire, Ferruccio riferisce al fratello l'immagine edificante di un sogno:

Mi è apparsa la mamma mentre ero assopito. Questa volta mi ha parlato. Mi ha detto di stare quieto, che lei avrebbe pensato a me, a farmi guarire. L'ho vista proprio bene. Era vestita come una ragazza d'oggi, con le maniche corte e i capelli tutti sciolti sulle spalle.

Sapete cosa mi è accaduto circa due anni fa? Ho taciuto fino adesso, ma ora mi si presenta l'occasione propizia per condividere questo sogno.
Una notte ho sognato che mi trovavo in Croazia a Parenzo, città stupenda per il fatto che la chiesa di Sant'Eufemia, gioiellino artistico, all'esterno è dotata di terrazza con vista sul mare. Comunque, nel sogno ero appoggiata al muretto della terrazza con vista sull'Adriatico.
Dietro di me c'era appunto la chiesa di Sant'Eufemia.
Contemplavo il sole che tramontava dietro le barche. Ad un tratto, sento una mano che stringe la mia. Accanto a me scopro che c'è Gabriella. Allora divento una fontana di lacrime e le dico: "Resta con me, non te ne andare."
Lei in quel sogno non ha mai parlato. Mi ha sorriso, mi ha abbracciata e poi si è allontanata.
Mi sono svegliata serena, quella mattina, perché ho capito che quel sogno aveva salvato la memoria di Gabriella, per quel che mi riguardava.
Lei è morta a fine novembre 2015.  E io, dal giorno in cui se ne era andata per sempre, quando la pensavo, mi sforzavo di ricordarmi dei viaggi fatti insieme e di tutti i bei momenti condivisi, ma quel che in realtà era più vivo nella mia mente erano gli ultimi suoi mesi di vita, trascorsi a letto da inferma.
In famiglia non mi aiutavano: tutti noi abbiamo mal accettato la sua morte, l'abbiamo vista per lo più come un evento profondamente ingiusto.
Dopo quel sogno si sono ravvivati dentro di me tutti i ricordi piacevoli. Quando penso a lei, i primi concetti sono: viaggi, passione per l'arte, Croazia, Liguria, Germania, Toscana, Austria!

Rovigno- Rovinj
Avrei voglia di ritornare in Croazia. Sarei dispostissima a cambiare tre o quattro treni pur di arrivarci, non me ne fregherebbe una mazza di ritardi e disagi ferroviari.
Pur di stare un pochino lontana dalla superficialità e dai giudizi negativi e pesanti di certa gente.

Purtroppo non è successa la stessa cosa con il nonno Francesco.
Io ho visto mio nonno da morto. Nella bara aperta mi sembrava un bambino debole e indifeso.
Ecco qual'era per me "l'oggetto di pietà". Utilizzo un'espressione manzoniana dei Promessi sposi, che si trova al capitolo 34, quando Renzo vede la bambina Cecilia morta tra le braccia della madre.
Al corso di Letteratura italiana ci è appena stato assegnato il compito di trovare la parola "oggetto" all'interno del romanzo manzoniano, cercando soprattutto di rilevare i casi in cui il termine "oggetto" si riferisce a manufatti umani.
Pietà è un nome astratto, quindi "oggetto" in questo contesto significa "qualcosa che suscita un sentimento".
Nella frase "il suo sguardo si incontrò in un oggetto singolare di pietà", la parola "oggetto" si potrebbe parafrasare con "scena". "In una scena singolare di pietà".
Avrebbero il diritto-dovere di togliermi il titolo triennale in Lettere se non fossi in grado di contestualizzare la parola "oggetto".
Comunque, quello che mi rimane di mio nonno è per lo più l'immagine di un anziano molto malato, nel letto di casa sua, sofferente.

Vi riporto alcune frasi della penultima pagina del libro di Pratolini:

Era una mattina calda e ventilata, scendendo sulla barella rivedesti l'albero dal tronco scortecciato.
"accidenti com'è verde!" dicesti. Ma quando la barella scivolò sulle rotelle e fosti dentro l'autoambulanza, la tua disinvoltura cedette. Mi pigliasti una mano, piangevi con le labbra serrate fra i denti, poi le riapristi e per un attimo, sotto il naso e sul mento, vi fu un segno bianco, più bianco di tutto il resto del viso, tanto avevi stretto i denti. Il celeste dei tuoi occhi brillava tra le lacrime... Poi l'autoambulanza sparì nel viale. Allora confessai a me stesso di non averti accompagnato per non assistere alla tua morte. Voglio ricordarti vivo.







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