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24 febbraio 2020

Fake, misure protettive, letture e riflessioni letterarie in tempo di Coronavirus:



Il Coronavirus adesso è anche qui, nel Nord Italia. 
Sotto Natale e per tutto gennaio, i casi relativi a questa nuova infezione si registravano soprattutto in Cina e in Giappone. 
Venerdì scorso, giornali e telegiornali ci hanno informato a proposito di due focolai italiani Cov-19: uno a Codogno (provincia di Lodi) e l'altro a Vo' Euganeo (Provincia di Padova).
Sarebbe decisamente stupido paragonare il 2020 con il 1630, anno di feroce epidemia di peste bubbonica nel nord Italia. 
Anche perché il Corona è una malattia simile all'influenza e non prevede la comparsa di bubboni.
Oltre a ciò,  siamo in un'epoca completamente diversa, in cui le superstizioni sono state sostituite dalle fake news, e vi assicuro che qui in provincia di Verona ne circolano diverse a proposito del Corona-virus. Qui a Verona non c'è (almeno per adesso) nessun caso.
All'ospedale Pederzoli di Peschiera del Garda non è stato rilevato nessun caso di Coronavirus e anche qui, sulle colline moreniche, non sta succedendo nulla di eclatante.
Gli untori del XVII° secolo erano delle "suggestioni di terrore" del popolo ignorante. La razionalità storica lo chiarisce.
Gli "untori" di Cov-19 pare proprio che non esistano: ricordatevi che i cinesi che recentemente non sono stati in Cina sono esposti allo stesso nostro rischio. 

Ciò che spaventa, di questo Coronavirus, non è il tasso di mortalità (decisamente basso, al 2%) quanto piuttosto il fatto che in alcune zone della Lombardia e nelle province di Padova e di Venezia un certo numero di persone si sia ammalato senza aver mai frequentato dei cinesi e senza mai aver compiuto un viaggio in Cina.
Come è arrivato qui in Europa questo virus? Perché il numero di infetti continua a salire in Italia, soprattutto nelle zone della Lombardia occidentale? E' qualcosa che sfugge al nostro controllo, per questo scuole, università, biblioteche e centri sportivi sono chiusi per tutta questa settimana.
Anch'io sarei dovuta andare a lezione stamattina, invece sono a casa che mi porto un po' avanti con lo studio e con le letture, già in vista degli esami di giugno. 
"Le città invisibili" è una bella scoperta per me, lo sto leggendo, mi piace: originale, fantasioso e al contempo post-moderno e disincantato (le città di Maurilia e di Leonia soprattutto sono dei  tristi simboli di consumismo e di industrializzazione).

In tempi di Coronavirus si fa comunque bene a rileggere e alcuni estratti del romanzo di Manzoni.


Quando ho dato, in triennale, Letteratura italiana II, la prima domanda dell'esame orale è stata sull'inizio del capitolo 33, ovvero, il momento in cui Don Rodrigo scopre di essere ammalato.

CAP. XXXIII:
Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.

Il fedel Griso... Il fedel Griso da premio fedeltà!! Leggerete fra poco di quali grandi e lodevoli sacrifici è capace la fedeltà del Griso!
Per quel che riguarda Don Rodrigo, è veramente di pessimo gusto scherzare su un parente defunto. Don Rodrigo, in questo contesto, è decisamente insensibile... quale profondo rapporto c'era con un cugino che si ritrova a deridere? Don Rodrigo sembra uno studente universitario immaturo e sbandato, come ce ne sono diversi anche oggi: si diverte con dei "compagnoni" (compagnoni, non amici, è ben diverso) e uno dei suoi scopi principali di vita è quello di stordirsi. Don Rodrigo non è uomo né di pensiero né di azione. E' un viziato, un capriccioso, un debole che delega. Fa pietà in tutti i sensi questo signorotto. Fa pietà come nobile tiranno, perché vive in un palazzo con alcune crepe e con degli avvoltoi morti appesi all'ingresso, fa pietà come uomo, perché non vive veramente e non sa veramente amare, e infine fa pietà anche come malato, come appestato: perché è a partire da questo capitolo che egli si ritrova solo, di fronte alla propria condizione miserabile e sventurata.
Andiamo avanti con altri estratti:

Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico. “Sto bene, ve’,” disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. “Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca... mi dà una noia...!”              “Scherzi della vernaccia,” disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. “Ma vada a letto subito, chè il dormire le farà bene.”                                                                                  “Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta’ attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume,” riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. “Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!”. Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.

Partiamo da quel non aprì bocca, per tutta la strada. Partiamo da questa frase per copiare un'osservazione di Luigi Russo: "In questo paragrafo, non c'è soltanto la descrizione fisiologica della peste che cova nell'organismo, ma c'è anche il sentimento morale di un disagio, di una preoccupazione che, senza dichiararsi, va al di là del semplice malessere. Noi non ci sentiamo lontani dal sofferente, come avverrebbe, mettiamo, in una descrizione di tipo dannunziano volta tutta alla parte fisica. Il Manzoni ci ha avvicinato cristianamente a Don Rodrigo, anche se, sull'esempio dello scrittore, noi stessi assecondiamo e approviamo il corso fatale della malattia." Però Don Rodrigo, almeno in questo punto, cerca di dissimulare la gravità dei suoi sintomi, anche se sa di essere inserito in un periodo storico (Il Seicento) in cui le condizioni di vita erano già dure e molto precarie anche senza peste. Don Rodrigo è vittima della falsità e del sarcasmo del Griso, che gli dice: “Scherzi della vernaccia”. In realtà "il suo fido" si è già accorto del fatto che il nobilotto è appestato.

(...) 
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il 
caldo, cresciuta la smania.  Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, chè non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. “Largo canaglia!” gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorchè una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.

Una volta che l'ammirevole Griso ha lasciato la stanza del signore, quest'ultimo inizia ad agitarsi nel sonno. E c'è la descrizione di un sogno inquietante, che riconduce prima di tutto all'atteggiamento che Don Rodrigo ha avuto in vita, nella sua realtà quotidiana nei confronti della gente umile, del popolo: un atteggiamento scostante, di superiorità, di prepotenza e di minaccia “Largo canaglia!” (particolare importante: Don Rodrigo minaccia sempre attraverso i bravi, mai in prima persona). Nel sogno appare anche Fra' Cristoforo. Riporto ancora le parole di Luigi Russo: "La catastrofe del sogno si ha con l'apparizione di fra Cristoforo, la descrizione del fantasma del frate è di un umorismo tragico. Il frate, in principio è semplicemente un non so che di liscio, di convesso, di luccicante. (...) Poi diventa una testa pelata.(...) Tutti i particolari fisici del frate sono esasperati, di proposito, sono avviati quasi verso il grottesco. (...) Il fantasma di fra' Cristoforo non è tanto fra Cristoforo quanto la rifrazione dei sentimenti, del malessere, dei sospetti, delle paure di Don Rodrigo."  E io aggiungo soltanto che questo punto esatto del romanzo è riconducibile al finale del colloquio-duello Don Rodrigo-Fra' Cristoforo del capitolo VI°. In quel dialogo l'atmosfera è molto tesa e, ad un tratto, entrambi i personaggi perdono il controllo. Fra' Cristoforo urla: "Verrà un giorno", sventolando il rosario con il teschio, simbolo del "memento mori". E il giorno, o meglio, la notte, è arrivata, anche per Don Rodrigo. 

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
“Griso!” disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: “tu sei sempre stato il mio fido.”
“Sì, signore.”
“T’ho sempre fatto del bene.”
“Per sua bontà.”
“Di te mi posso fidare...!”
“Diavolo!”
“Sto male, Griso.”
“Me n’ero accorto.”
“Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.”
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.
“Non voglio fidarmi d’altri che di te,” riprese don Rodrigo: “fammi un piacere, Griso.”
“Comandi,” disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita.
“Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?”
“Lo so benissimo.”
“È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va’ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa’ la cosa bene, che nessun se n’avveda.”
“Ben pensato,” disse il Griso: “vo e torno subito.”

L'uomo si vede, ad un tratto, perduto, vicino alla fine, come accennavo anche prima. “tu sei sempre stato il mio fido.”, “T’ho sempre fatto del bene.”, “Di te mi posso fidare...!”, “Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.”... Patetico, veramente patetico! L'uomo, non l'aristocratico. Perché, come diceva anche Parini, siamo tutti uguali davanti alla morte. L'agonia e le tombe annullano le differenze tra le classi sociali. Don Rodrigo muore in un lazzeretto, come migliaia di altri popolani. E Fra' Cristoforo, tre capitoli dopo, invita Renzo ad avere compassione. Da qui capiamo che perdonare non significa dimenticare. Renzo e Lucia (ex appestati ma guariti), non potranno mai dimenticare che i capricci di Don Rodrigo hanno ritardato le loro nozze di quasi due anni. Ma in quei due anni Renzo è cresciuto, è divenuto più maturo. Certo, Renzo e Lucia non dimenticheranno, e questo lo testimonia anche il finale, quando si dice che i due coniugi, soprattutto lui, racconteranno le loro peripezie ai figli. I guai vengono da sé, ma con la fede in Dio si riesce ad affrontarli, sempre. Anche "in un mondo tristo". E senza provare odio per chi ci ha fatto del male, altrimenti facciamo del male a noi stessi. Sdraiato su una branda del lazzeretto Don Rodrigo appare, in tutta la sua fragilità e impotenza. Ma è mai stato veramente potente? 
(...) Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.  “Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato!” grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: “ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!”
“Tienlo bene, fin che lo portiam via,” disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.
“Scellerato!” urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. “Lasciatemi ammazzar quell’infame,” diceva quindi ai monatti, “e poi fate di me quel che volete.” Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perchè l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
“Sta’ buono, sta’ buono,” diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: “fate le cose da galantuomini!”
“Tu! tu!” mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, 
“ Tu! dopo...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! ” Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.
“ Tienilo forte, ” diceva l’altro monatto: “ è fuor di sé. ”
Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.

Avete capito fin dove si è spinta la fedeltà del Griso? Questa parte si spiega da sola. Dico soltanto che il Griso la paga cara presto. L'avidità è sempre severamente punita nella ferrea logica morale di Alessandro Manzoni. 
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Come tutti, mi ritrovo questa settimana senza impegni. Per via di giuste misure cautelari, tutti i miei programmi sono andati a rotoli, compresi i tre giorni di viaggio già prenotati in un centro termale trentino. Non credo proprio che a Levico mi/ci vogliano, visto che sono veneta e che in proprio in Veneto c'è uno dei due focolai italiani del virus. Sono stati da poco portati in ospedale tre lombardi, risultati positivi al Coronavirus, che in questi giorni soggiornavano in Trentino. Vorrà dire che probabilmente avrò un po' più di tempo per scrivere un secondo post entro la settimana.

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