Questo citato nel titolo è la mia più recente lettura.
Non è un romanzo di grande profondità ma è un'opera contemporanea italiana che io ritengo decisamente positiva per i contenuti e le tematiche che propone.
La trama, ambientata negli anni Ottanta, è molto semplice: Antonio, protagonista del romanzo, è un liceale senza amici che soffre di epilessia. A scuola non manifesta alcuna passione o particolare predisposizione per qualche materia.
A dire il vero, all'inizio del percorso scolastico Antonio era un bambino brillante, soprattutto in disegno e in matematica. Ma il suo rendimento ha subito un forte calo dopo la separazione dei suoi genitori, avvenuta quando aveva nove anni. Per molto tempo, il protagonista ha nutrito un risentimento latente nei confronti della figura paterna.
Il ragazzo, a causa della sua malattia, è seguito dal signor Gastaut, un singolare neurologo francese, marsigliese per la precisione.
Una mattina di giugno, quando il padre accompagna il figlio a Marsiglia per una visita di controllo, il medico fa loro una proposta insolita.
Dice: "All'ottanta per cento Antonio è guarito. Gli esami vanno bene, ma c'è ancora un controllo da fare per essere tranquilli."
Il controllo consiste in un esperimento: Antonio, per due notti consecutive non dovrà dormire (e prenderà delle apposite pillole per restare sveglio). Il dottor Gastaut prescrive questa prova per verificare come reagisce il cervello del ragazzo in condizioni di stress.
Preciso che questa procedura, chiamata "prova da scatenamento", è ora vietata dalla deontologia medica, ma fino a 30 anni fa era in vigore.
Costretti dunque a rimanere a Marsiglia per due giorni e due notti, padre e figlio hanno modo di parlarsi come mai avevano fatto prima per potersi conoscere meglio, sullo sfondo di una città da un lato affascinante per il paesaggio marittimo e alcune opere d'arte, dall'altro però pericolosa, soprattutto nei quartieri periferici, dove la polizia è violenta con gli immigrati.
La narrazione è tutta in prima persona, secondo il punto di vista di una persona che, in fase di crescita, si trova costretta ad accettare e a convivere per un po' di tempo con l'epilessia.
1. INIZIO ROMANZO:
Non so dire quando cominciò. Forse avevo sette anni, forse qualcosa di più, non ricordo con precisione. Da bambino non ti è chiaro cosa è normale e cosa non lo è. In realtà non ti è chiaro nemmeno quando sei adulto, a pensarci bene.
(...) Insomma, più o meno una volta al mese, mi capitava una cosa strana e anche piuttosto angosciante. Senza preavviso e senza che fosse accaduto nulla, avvertivo un'impressione di assenza, di distacco da ciò che mi circondava e al tempo stesso un'amplificazione dei sensi.
Di solito noi selezioniamo gli stimoli che vengono dal mondo esterno. Siamo circondati da odori, suoni e da ogni tipo d'entità visibili. Ma non siamo oggettivi (...)
Il cervello decide quali percezioni portare alla consapevolezza e quali informazioni registrare. Il resto rimane fuori, escluso eppure molto presente.
... Intanto una prima considerazione per le ultime quattro righe... La selezione degli stimoli non è soltanto un concetto medico, anatomico e biologico ma anche linguistico e letterario.
Quotidianamente siamo sottoposti a una valanga di agenti e di fattori esterni percepibili dai nostri cinque sensi. Ma il cervello seleziona, sempre. A ciò allude Leopardi in alcuni passi dello Zibaldone e nel celeberrimo Infinito, quando mette a confronto, soprattutto nei primi versi, la limitatezza delle percezioni umane con la molteplicità e l'immensità della natura:
"Ma sedendo e mirando, interminati/
Spazi di là da quella, e sovrumani/
Silenzi, e profondissima quiete/
Io nel pensier mi fingo; (...)"
* "di là da quella"= al di là della siepe, che copre una parte di paesaggio, ovvero, la parte più lontana dalla corporeità del poeta.
* "Io nel pensier mi fingo"= io immagino interminati spazi che la siepe nasconde. Il cervello umano immagina e raffigura, con la fantasia, ciò che qualcuno vorrebbe vedere.
Zanzotto è profondamente influenzato da Leopardi. E' un'influenza che si nota soprattutto nel saggio "Il paesaggio come Eros donativo", contenuto nel poeticissimo libro "Luoghi e paesaggi", che non ho potuto non leggere integralmente.
Per Zanzotto, il paesaggio dovrebbe essere vissuto come dono dagli uomini, come un dono della natura. Lo scambio tra l'orizzonte vasto paesaggistico e l'orizzonte umano, debole e limitato, è come il rapporto tra Pòros (Ricchezza) e Penìa (povertà).
Zanzotto afferma inoltre che il paesaggio è costruito dalle percezioni soggettive, da mille cervelli che, a seconda dei loro vissuti, dei loro stati d'animo e dei loro sguardi, valorizzano alcuni elementi piuttosto che altri. E qui aggiungo un esempio: mi trovo in montagna con un gruppo di amici scalatori che, soprattutto in primavera e in estate, condividono con me l'hobby delle lunghe e faticose (ma sempre ripaganti in termine di bellezza) escursioni.
Siamo saliti sul Baldo, sulla cima di fianco al rifugio Telegrafo. Il panorama che si vede da lì (e siamo a poco più di 2000 mt sul livello del mare) è vastissimo. E' a 360°.
I miei occhi però valorizzano il celeste del lago di Garda che si trova molto più in giù e i riflessi del sole sull'acqua limpida. Gli occhi di qualcun altro magari possono risultare più attratti dalla natura più vicina, ovvero, dai fiorellini che spuntano nei prati, dalla forma rocciosa e articolata del Baldo, dai sentieri scoscesi e ripidi accanto, dalle nuvole che stanno percorrendo il cielo.
2. MA DAVVERO I TALENTI PIU' INCREDIBILI DELLA STORIA DELL'UMANITA' SOFFRIVANO DI EPILESSIA?
E' ciò che sostiene il dottor Gastaut durante il primo incontro con Antonio, quando rivela i suoi intenti di individuare dei possibili legami fra epilessia e talento.
"Moltissimi grandi personaggi erano epilettici. Solo per fare qualche esempio: Aristotele, Pascal, Edgar Allan Poe, Fedor Dostoevskij Georg Friedrich Handel, Giulio Cesare, Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, Isaac Newton, Molière, Lev Tolstoj, Leonardi Da Vinci (...)"
Premetto di non aver mai studiato nel dettaglio le biografie di questi geni europei. Però, questi discorsi, hanno un effetto positivo sull'adolescente che li ascolta:
"L'epilessia, da quando me l'avevano diagnosticata, era stata per me uno stigma di inferiorità, un marchio d'infamia da occultare. Il mio mondo interiore subì un movimento di rotazione attorno al proprio asse, come un passaggio dalla notte al giorno, dopo le parole di Gastaut, dopo aver ascoltato quell'elenco di geni che avevano avuto, a quanto pareva, un problema analogo al mio. Mi ero sentito un reietto e, d'un tratto, per la medesima ragione materiale, mi sentii quasi un eletto, membro di una categoria speciale di esseri superiori".
E in effetti Antonio sarebbe decisamente più intelligente rispetto alla media dei coetanei.
Anche se è al penultimo anno di liceo scientifico e in matematica se la cava con il 6, a fine romanzo lo ritroviamo adulto e docente universitario di matematica, come suo padre. Riscopre, successivamente alla sua guarigione, il suo talento logico-scientifico.
Intanto, in quei due giorni a Marsiglia, Antonio scopre che il padre, sin dalle medie, era ben determinato a studiare Matematica all'Università. Di ciò si stupisce. C'è una nota di ammirazione infatti in questo punto del romanzo, per la chiarezza d'idee del genitore.
Io alle medie sapevo soltanto che volevo iscrivermi al Liceo classico per approfondire le civiltà antiche, la storia dell'arte e la letteratura italiana. Ho frequentato non il classico tradizionale ma quello che, nell'ormai lontano 2009 (anno dei miei 14 anni), si chiamava "Liceo classico con storia dell'arte per tutto il quinquennio".
La scelta di iscrivermi poi a Lettere per poter diventare insegnante di letteratura è maturata un pochino dopo, verso i 16 anni quando, in un periodo difficile sia per le relazioni con le mie compagne sia per un problema serio in famiglia (il nonno moribondo, malato di cancro), trovavo dei momenti in cui, mentre studiavo i canti della "Commedia" di Dante i sonetti e gli scritti di Petrarca, mi commuovevo. Da allora la letteratura italiana ha iniziato a piacermi decisamente di più delle lingue classiche.
3. LA "JAM SESSION" DI JAZZ A MARSIGLIA:
Durante la prima notte di permanenza a Marsiglia, Antonio assiste ad un concerto di jazz con il padre, in uno dei quartieri periferici.
Un mese fa ci sono stata anch'io ad un concerto jazz. E' bellissimo, fidatevi. Socchiudi gli occhi immaginando di essere negli Stati Uniti degli anni Venti, nei salotti alto-borghesi con tende, tavolini rotondi e divanetti e... Scott Fitzgerald che da lontano ti sorride.
Ad ogni modo, durante quel lasso di tempo in cui padre e figlio ascoltano i brani suonati dai musicisti, Antonio scopre un lato del padre che non aveva mai notato né conosciuto prima: la passione per la musica e la velleità giovanile di diventare un buon musicista.
Ad un certo punto infatti il padre gli dice:
"Negli anni di università con tre amici creammo un gruppo: pianoforte, batteria, contrabbasso e sassofono. Ci guadagnammo qualche soldo facendo le serate nelle sale da ballo, o ai matrimoni. Era divertente. Per anni abbiamo anche parlato di incidere un disco nostro. Poi ci siamo laureati e ognuno è andato per la sua strada, che non era la musica.
(...) "
La "jam session", se non ricordo male, è un evento musicale tipico dei jazzisti: i musicisti si trovano in un locale per improvvisare su un repertorio di canzoni piuttosto conosciute in genere jazz, ad esempio "So what".
"So what" è la canzone che ad un tratto anche il padre di Antonio suona al piano, quando uno dei musicisti chiede al pubblico se qualcuno vuole suonare il piano e sostituire momentaneamente il pianista.
In contesto di jazz, i nostri due protagonisti di questa strana avventura parlano dei loro gusti musicali.
Ad Antonio piace "American Pie", che mi pare sia del 1961.
Io la conosco, molti miei coetanei no. Ad essere sincera, io musicalmente vivo anche di Novecento oltre che di Duemila. Anche in ambito di romanzi e di opere letterarie: leggo più che altro opere del Novecento e qualcosa degli ultimi anni.
Comunque, "American Pie" è un brano di Don McLean, cantautore statunitense che, in questo caso, attraverso un linguaggio metaforico allude ad un incidente aereo avvenuto due anni prima, nel '59, a causa del quale avevano perso la vita tre suoi amici musicisti.
Io mi ricordo alcune parti a memoria.
Inizia così: " A long, long time ago... I can still remember how that music used to make me smile. But february mad me shiver with every paper I'd deliver. Bad news on the doorstep, I couldn't make one more step. I can't remember if I cried when I read about his widowed bride. But something touched me deep inside the day the music die. So bye, bye, Miss American Pie."
Ad ogni modo, anche dal punto di vista musicale risulto una ragazza un po' diversa rispetto ai miei coetanei.
Io dico: "Mille volte meglio James Blunt di Eminem, e in Italia Cremonini vale molto più di Fedez e di Achille Lauro."
Io sono cresciuta, ho voluto crescere più che altro con James Blunt oltre che con la colonna sonora di "Into the Wild".
Di James Blunt mi piacciono le tematiche di molte sue canzoni:
A) La bellezza di una donna che per un istante colpisce in un mondo global di corse, non- luoghi e sovraffollamento (I saw an angel, of that I'm sure. She smiles me on the subway. She was with another man. I won't loose and sleep all night 'cause I've got a plan. You're beautiful, it's true. I saw your face in a crowded place. And I don't know what to do. Cause I'll never be with you.)
B) Una persona, forte e tenera al contempo, che si sta spegnendo a causa di una malattia ("As strong as you were, tender you go, I'm watching you breathing for the last time").
C) L'alba che sorge ("Beautiful dawn melt with the stars again") e il desiderio di condividere una vita intera con la persona amata ("Will you be my shoulder when I'm grey and older? Promise me tomorrow stars with you, getting hiiiiiigh!")
D) Riconoscere la "luce" della persona amata ogni giorno, e prometterle di starle vicino, di esserci sempre ("It's ok 'cause I know you shine even on a rainy day, I can find your halo, guides me to wherever you fall, if you need a hand to hall, I'll come running because you and I won't part till we die, you should know we see eye to eye, heart to heart").
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