Si tratta di un dialogo che rappresenta un conflitto tra padre e figlio negli Inferi.
Filippo II° fa la figura del duro e del polemico: dapprima dice ad Alessandro che ha sbagliato a farsi venerare e a farsi considerare, quando era in vita, un sovrano Immortale, dal momento che era semplicemente suo figlio. Gli rimprovera, subito dopo, di essersi circondato di guerrieri di poco valore. Secondo l'opinione qui espressa da Filippo, se l'esercito di Alessandro Magno ha sconfitto l'Impero Persiano, è soltanto perché quest'ultimo era lacerato da corruzione e conflitti politici interni. Alessandro inizia a difendersi: ricorda le sue faticose vittorie contro gli Sciti e contro gli Indi, specificando inoltre di aver vinto onestamente e di aver trattato con rispetto i popoli sconfitti e sottomessi.
Il padre Filippo trova altri motivi per contestarlo aspramente: biasima l'affetto di Alessandro per il compagno d'armi Efestione, gli ricorda l'uccisione di Clito, generale greco fedelissimo a Filippo.
Per provare a difendersi, Alessandro rievoca l'impresa militare contro gli Ossidriaci, un popolo dell'India. A questo punto il padre lo deride: un uomo che si crede un dio non avrebbe mai sofferto per le ferite in battaglia. Alessandro infine ricorda l'assedio presso la fortezza di Aorno, nei pressi del Caucaso. E dice che soltanto Ercole e Dioniso sarebbero stati in grado di valicare le pendici del Caucaso.
La sentenza di Filippo II° tuttavia non si ammorbidisce: meglio che Alessandro dimentichi quel che i mortali hanno pensato e pensano di lui, tanto ormai è morto e lo sarà per sempre.
F.= Ora, Alessandro, non potrai più negare di essere mio figlio, infatti non saresti morto se fossi stato figlio di Ammone .
(Ammone è un termine che si riferisce a Zeus).
A.= Io stesso sapevo, padre, di essere figlio di Filippo di Aminta, ma ho accolto il responso di un oracolo, ritenendo che mi sarebbe stato utile per le mie azioni.
F.= Ma cosa dici? Ti sembrava utile il prestare te stesso all'inganno degli indovini?
A.= Non dico questo, ma i barbari sono rimasti sbalorditi davanti a me e più nessuno si opponeva dal momento che pensavano di combattere contro un dio, così che ero facilmente superiore a loro.
Mi fermo per evidenziare una sfera semantica molto importante in questa prima parte di dialogo:
Mάντευμα è l'oracolo, la predizione, mentre μαντικός è l'aggettivo per "profetico. Invece μαντεύω è un verbo con il significato di "predire".
Mαντις è, sin dall'epica omerica, l'indovino. Celebre è l'espressione del primo libro dell'Iliade μαντις κακῶν, ovvero, "profeta di sventura", riferita all'indovino Calcante.
A.= Ma almeno gli Sciti, padre, e gli elefanti degli Indi, non erano un'impresa da disprezzare e li ho sconfitti ugualmente senza separarli e senza acquisire la vittoria per mezzo di inganni, né ho mai fatto un falso giuramento o sono mancato di parola alle promesse né ho fatto qualcosa di sleale allo scopo di vincere. E ho conquistato i Greci senza spargimento di sangue; forse hai udito che ho punito i Tebani.
A.= Ma padre, non elogi il mio amore per il pericolo e non tieni conto che per primo contro gli Ossidriaci sono balzato all'interno delle mura e mi sono procurato molte ferite?
F.= Questo non lo lodo, Alessandro, ma non per il fatto che non ritenga bello che qualche volta un re sia ferito e combatta davanti all'esercito, ma perché una cosa simile non ti era affatto utile: infatti avendo tu la fama di essere un dio, se qualche volta venivi ferito, e ti vedevano trasportato di peso al di fuori della battaglia mentre grondavi sangue, e mentre urlavi per le ferite, era tutto ridicolo per chi vedeva, e così si scopriva che Annone era un imbroglione e un falso indovino e i suoi sacerdoti adulatori. E chi non avrebbe riso vedendo il figlio di Zeus che sveniva e che era bisognoso di essere aiutato dai medici? Ma ora sei già morto, non credi che siano molti a scherzare di questa tua presunzione, mentre vedono il cadavere di un dio che giace disteso, già putrescente e umido secondo il processo naturale di tutti i morti? Inoltre questo che tu, Alessandro, ritenevi utile, cioè di poter così vincere facilmente, toglieva molto dell'onore ai tuoi successi; infatti sembrava tutto insufficiente per dare l'idea di essere compiuto da un dio.
A.= Gli uomini non pensano così di me; ma mi pongono alla pari di Ercole e Dioniso. Eppure solo io ho conquistato la fortezza di Aorno, mentre nessuno di loro l'aveva assediata.
F.= Vedi che dici questo come se fossi il figlio di Ammone, tu che paragoni te stesso a Ercole e Dioniso? E non ti vergogni, Alessandro, né disimpari la vanità, né prendi coscienza di te stesso né comprendi che sei già morto?
Concludo il post con altri parallelismi lessicali.
Iniziamo da una parola dalla quale si ricava un prefisso ben conosciuto nel nostro italiano:
Ψεῦσμα è il termine per "inganno", ψεύδω significa "ingannare". Ψευδῶς è l'avverbio che corrisponde al nostro "falsamente".
Ψεύστης equivale a "bugiardo".
Da tutte queste parole elencate si ricava il nostro prefisso italiano "pseudo". E non si tratta di un prefisso a connotazione positiva, come sapete, bensì di un elemento che sminuisce il significato del sostantivo a cui è legato quando forma parole composte. Eccovi alcuni esempi: pseudofilosofo, pseudoconcetto, pseudoletterato, pseudosoluzione. E ovviamente pseudonimo, ovvero, nome di fantasia.
Anche in greco antico il prefisso "pseudo" veniva impiegato per indicare qualcosa che non ha valore o comunque, qualcosa di lontano dalla verità:
Ψευδολογία = racconto falso.
Ψευδομαρτυρία= falsa testimonianza.
Ψευδόσοφος= falso sapiente.
Andiamo invece a quel "senza spargimento di sangue": ἀναιμωτί.
La malattia dell'anemia deriva proprio da questo alfa privativo: ἄναιμία, e quindi, mancanza di sangue (ἀ+ αἷμα).
ἀναιμόσαρκος è una parola composta che significa " che ha carne in cui non circola sangue".
L'equivalente di "morto" in greco antico è νεκρός. Attenzione però: il verbo che deriva dalla stessa radice indubbiamente è νεκρόω che tuttavia non significa "morire" ma "uccidere, far morire".
Vέκρωσις da cui deriva la nostra "necrosi" , ovvero, la morte di cellule o di zone di tessuti del nostro organismo, è proprio il "morire".
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